30.12.22

Il solito post di capodanno

Qualche settimana fa prima di entrare in laboratorio per l'ennesima giornata di lavoro sono passata al bar per il solito caffè. Ho fatto come sempre due chiacchiere con Christian - pima era Massimo, ma le cose cambiano - dandogli appuntamento per il solito caffè della pausa pranzo. Gesti che ripeto ogni giorno lavorativo da anni, come mille altri.
A pranzo, però, la porta del bar era chiusa pur essendo tutto acceso e all'apparenza normale e fuori dalla porta c'era un piccolo gruppo di clienti affezionati (o abituali) che diceva di aver trovato chiuso già da metà mattina e che di Christian non c'era traccia. Qualcuno di loro ha chiamato il proprietario del locale per avere notizie ma fino a quel punto nessuno sapeva nulla. 
Il giorno dopo ho saputo che Christian aveva avuto una piccola ischemia - piccola per fortuna - e che non sentendosi bene aveva chiuso la porta e si era messo un attimo giù nel locale, per riposare quei dieci minuti. Invece non si era svegliato, o meglio era lì nel retro semi cosciente che non riusciva a muoversi né a comunicare mentre a distanza di una vetrina c'era il mondo.



Qualche giorno fa una mia amica ha postato su Facebook - luogo che frequento sempre meno ma che ancora mi tiene collegata a persone che non posso frequentare per distanza e vita - una lunga riflessione sul tempo e su quanto ne siamo "schiavi" pur essendo il tempo un concetto e non una cosa tangibile. Secondo la filosofia buddista l'unico tempo che esiste è il presente, perché è l'unico in cui viviamo, o "siamo". Per il resto il tempo o è storia o è fantasia. Eppure, appunto, ne siamo schiavi.
Ci manca, corre, lo ipotechiamo, lo vendiamo, ne perdiamo dietro a qualcosa che vorremmo ma che al momento non è alla nostra portata, lo programmiamo come se fosse sempre disponibile. Invece no.
Ci frega a volte la faccenda del "cosa vuoi fare da grande?", che ci porta a proiettare nel futuro aspettative di realizzazione o felicità che potrebbero o non potrebbero diventare la nostra realtà. Il più delle volte non lo diventano e le aspettative si trasformano in frustrazioni e  delusioni. A volte in rabbia.



In questi ultimi anni sono stata molto arrabbiata, lo ammetto. Ho lottato per costruirmi una vita nuova e per tutto quello che ho fatto ho ottenuto bellissimi risultati. Una parte di questa vita è meravigliosa ed è più simile a me di quanto lo fosse, che so, un lustro fa. Eppure le solite aspettative fetenti hanno avvelenato una parte di questo periodo. Sicuramente non ho fatto abbastanza per "inseguire" i miei sogni, perché in fondo lo so di essere un'adorabile cazzona, ma le esperienze che ho fatto non sono state all'altezza dei miei sogni e mi hanno lasciato un tocco di amarezza che fatica a scivolare via. Ho lavorato tanto e sodo pensando che un giorno avrei visto spuntare una pianta da ogni seme gettato, come dovrebbe essere. Invece ho solo qualche rametto in più e la fatica fatta mi sembra troppa. 
Mi sento come se avessi perso tempo sognando che so di diventare un'insegnante di pole - o anche solo di riuscire a fare qualcosa lì che mi desse soddisfazioni oltre che lividi. Oppure con la scrittura, dove so di non essere del tutto incapace e di poter almeno raccontare storie, e dove invece mi rendo conto che le mie storie non interessano a quasi nessuno e che in qualche modo "scrivo vecchio" non inseguendo criteri ormai divenuti norma. E così via, tanto da dubitare di avere o meno un talento, uno qualsiasi, pur riconoscendomi parecchie qualità.
Ecco, in questi anni mi sono sentita spesso come ingabbiata - sì, in una gabbia d'oro, ma non basta - in un mondo che non mi poteva rispecchiare abbastanza. Dove il bellissimo ambiente che mi sono creata intorno non era sufficiente per farmi sentire soddisfatta. Di me, forse, ma più che altro della mia vita. Sento di avere un mondo interiore che preme e che fatica a uscire. Sento esplodere la voglia di ridere, di vivere per davvero nel presente senza rifugiarmi in sogni e futuri lontani. 
Perché il tempo non esiste.
Perché il tempo è adesso.
Perché nessuno di noi può sapere quanto ce n'è.
Perché niente deve avere il potere di rubarcelo.
Perché c'è solo il presente e tocca dargli un valore.
Perché è ora di vivere.


Tra poco più di un giorno inizia un nuovo anno. Questo è stato in qualche modo devastante. Ho lasciato tanto dietro di me, volente o nolente. Certe volte è necessario per poter proseguire un viaggio. Non restare ancorati a sé e all'idea di sé. Avere fame.
Se posso farmi un augurio per questo nuovo anno è di ritrovare la curiosità, di uscire dalla comfort zone qualche volta in più e di godere di ogni attimo senza aspettare di avere l'occasione giusta. Senza dipendere dal tempo. Perché di tempo non ce n'è. 



30.11.22

Di nuvole e silenzi

 


Di nuvole e silenzi

 mi sono nutrita, 

e di sussurri forti 

e di mani strette sulla pelle nuda. 

Di parole e sguardi, 

di ossessioni condivise, 

di continue ispirazioni. 

E ora viene la vita 

e non basta 

a colmare gli spazi; 

nel sottosuolo 

mi uccidono il cuore. 

Viene dicembre. 

La luce muore, 

poi ricomincia il mondo. 



Credo sia uno dei periodi più faticosi degli ultimi anni. Ho messo in discussione ogni aspetto della mia vita, perché non ero felice. L'ho fatto e continuo a farlo perché mi sento persa. Ho questa sensazione di aver perso la via una volta che ho perso il desiderio di danzare, come se - ed è terribilmente vero - dal movimento dipendesse ogni parte della mia vita.

Così, anche se con la scrittura sembrava che tutto procedesse ugualmente, a un certo punto mi sono trovata senza parole. Motivazione, interesse, ispirazione. Ho provato con tutti i miei espedienti ma non ho riscontrato alcun miglioramento.

Ma...

Una persona importante mi ha detto che scrivo meglio quando parlo di cose che fanno parte della mia esperienza - non necessariamente biografia, comunque.

Una persona saggia mi ha detto che quando sono in stallo è inutile insistere con quel progetto ed è molto meglio aprirne uno completamente nuovo. Almeno per un po'.

Una persona molto speciale mi ha detto di ricordarmi che valgo e che sono capace.

Quindi, ora che tutto quello che vorrei fare è stare a letto nel buio della stanza come un tempo oppure annebbiare la mente con decine di dvd in una sorta di "film therapy" volta a farmi piangere ogni lacrima che ho in corpo per sbarazzarmi di tutte queste emozioni orribili, ora che sento di non averne...

... ecco che con una matita e un post-it viola inizio a trovare parole.

Parole che non so se hanno un senso, parole che non ho idea se potranno mai diventare "qualcosa" o se resteranno sparse come mille altre. Ma sono parole che escono e che quindi mi fanno bene, ora che mi sento ancora sul fondo di un pozzo che impedisce al movimento di compiersi. 

E chissà, magari un giorno avrò anche voglia di accendere della musica e accennare un passo o due.


5.11.22

Forse avevano ragione loro

Devo ammetterlo: è un periodo difficile per me.

Forse la stanchezza, forse l'età che avanza con i suoi primi acciacchi. Forse l'essere costantemente esposta a tutto, soprattutto alla rabbia degli altri, alle loro delusioni, alle convinzioni gridate al vento, alla necessità di dire la propria sempre e soprattutto con l'arroganza del proprio punto di vista.

Dev'essere stato a fine maggio, una domenica pomeriggio, quando ho cominciato a pensare di essere circondata da mostri. Non so spiegare esattamente quale circuito impazzito della mia mente abbia messo insieme il concetto, ma guardavo le persone intorno a me e le vedevo "brutte", vecchie e spente, con sorrisi grottesschi dipinti in volto ma ormai trasformate. Quello che si vedeva da fuori era forse - lombrosianamente - ciò che trasmettevano da dentro.


Sì, insomma. Un po' come trovarmi in un film horror, in una sorta di "the walking dead" in cui travestita da zombie attraversavo indenne la piazza gremita di morti. 

Andando avanti ho iniziato a diventare insofferente rispetto a molte di queste persone, infastidita da qualsiasi manifestazione venisse da loro, anche innocua. Mi sono sentita sempre più "sola" tra gente che non mi somiglia affatto, esclusa da qualsiasi possibilità di dialogo - non che gli altri non ci provassero, ero io che non avevo più voglia di ascoltare certi discorsi che continuo a trovare insensati, notizie assurde che un tempo avrebbero occupato pagine di giornaletti di infima categoria spacciate per notizie vere etc. - perchè come fuori sincrono rispetto alla realtà che percepiscono gli altri.

Certo, più avanti sono scoppiate liti. Poi ho chiuso rapporti, poi ho iniziato a chiudermi io e continuo a farlo. Stanca e sempre più inorridita dal livello in cui si è arrivati a esprimersi, che per me rasenta l'inciviltà. Rifiutare un dialogo se dall'altra parte non si intravede una possibilità di intesa - non di arrivare utopisticamente ad avere lo stesso punto di vista ma anche solo di parlare la stessa lingua - non è arroganza. È mero sopravvivere. Evitare di sprecare energie utili.

Il fatto è che poi continui a guardare le stesse persone e le vedi "felici", unite, realizzate, forse "vincenti". Ora, io non sono mai stata una fanatica della teoria delle persone "vincenti" o "perdenti", per me le persone sono solo persone - ognuna con i suoi pregi e difetti, carattere e storia - tutte ugualmente rispettabili finché sono rispettose del prossimo; difficile per me dare del "vincente" a qualcuno. Non credo nel successo, non nel denaro e difficilmente in status symbol. Solo che...

Anni fa stavo guardando un film - horror per cambiare - in cui un virus trasformava buona parte della popolazione in zombie (dev'essere una costante della mia vita, ormai: non più vampiri ma zombie...) mentre gli altri diventavano... Mostri. Credo fosse "28 giorni dopo", il titolo. Insomma, mi aveva colpito il fatto che le persone non infette fossero di fatto diventate peggio di quelle trasformate loro malgrado in bestie affamate prive di qualsiasi capacità di pensiero. Crudeli, sadiche e prive di compassione. A quel tempo mi chedevo se non ci fosse da augurarsi di beccarselo, il virus, per evitare di diventare dei mostri consapevoli. Perchè per me il metro di giudizio era quello: la capacità di distinguere. Maledetta consapevolezza.




Ed ecco che, complice la stanchezza e una punta di depressione che ne consegue, mi sorge la domanda: "e se avessero sempre avuto ragione loro?"

In definitiva, oggi, a cinquantatrè anni, mi trovo a chiedermi chi sono.


20.10.22

Tanto non lo pubblica nessuno

«Tanto non te lo pubblica nessuno...» L'ultimo commento.

Non che non lo sapessi. È da quando l'ho finito che lo so. Perché è troppo lungo, pieno di personaggi, troppo onirico, strano, quasi un fumetto. Un romanzo caotico e diverso. Troppo tutto, come sempre, senza un genere o un'etichetta precisi.




Lo so da quando abbiamo fatto l'editing, Natascia Cortesi e io, e ho capito che bisogna fare i conti con il pubblico. Loro vogliono un posto specifico, un luogo riconoscibile e meticolosamente descritto, una data precisa altrimenti non riescono a collocarsi nella storia. Non vogliono "affidarsi", vogliono certezze e io non ne ho. "Area 3-13" non aveva né un luogo né un tempo, è sempre stato sospeso in uno spazio che era solo suo. Apolide e universalmente possibile. Poteva essere qualsiasi città, in questo presente o in un futuro ma con determinati paesaggi senza i quali non sarebbe mai stato scritto come l'ho visto. Perché io l'ho visto, tutto, scena per scena a partire dal primo sogno. Perché da lì arriva, da un sogno. Per questo è così complesso. Non aveva una collocazione, per me bastava ma l'ho corretto. Che non sia mai, deve diventare un prodotto. Deve essere accattivante e fruibile, lasciare nella comfort zone il lettore.

Lo so perché nonostante tutto ha ancora troppe pagine e troppe voci. Non ho potuto sopirle. E mi sono chiesta se fosse giusto farlo, visto che la storia è anche loro. Ogni personaggio che vi compare c'è per un motivo ed è necessario che si esprima per capire come mai è finito lì. Perché ognuno ha la sua storia, le sue debolezze e per questo non si può pensare che sia un soggetto inutile.

Lo so perché lo hanno letto due agenti abbastanza importanti e sebbene abbiano rifiutato di rappresentarlo - per i suddetti motivi anche, ma ciascuno per un motivo suo e personale senza mai dirmi che ho scritto una ciofeca, cosa che credo avrebbero fatto se lo fosse stata - hanno invece ammesso che era un lavoro ben fatto per vari motivi, perfettibile sicuramente ma non adatto a loro. E sono certa che sulla loro professionalità nessuno possa dire nulla, per cui eccomi qui.

«Tanto non te lo pubblica nessuno...»

Dovrei scrivere di ciò che conosco, come suggeriscono i saggi e le scuole di scrittura.

Beh, io conosco le storie e conosco i sogni. Conosco i mostri, soprattutto quelli che fanno di tutto per sembrare normali, per attirarti vicino e succhiarti via la vita. Conosco la sensazione di non essere al proprio posto da nessuna parte, il desiderio di seguire la propria natura e la preoccupazione che questa cosa faccia soffrire - o morire - qualcuno. Conosco le trappole della vita, alcune almeno. Conosco la ricerca della verità e so che a volte saperla non cambia le cose. Conosco l'impotenza, l'essere intrappolati in un mondo in cui non decidi nulla e fai la tua parte come richiesto per poi decidere di fare di testa tua e affrontare le conseguenze, ma vivere. So che tra quanti si ritengono normali ci sono migliaia di mostri.
So che nessun mostro è mostro al cento per cento e che ognuno di noi ha in sé bene e male, che a volte non è facile riconoscerlo e che si sbaglia strada tante volte ma il nostro cuore sa dove vogliamo stare.
Ed è di questo che parla il mio romanzo. Lo fa con toni cupi e con atmosfere da fine del mondo perché l'idea mi è arrivata in sogno ed è come se quel sogno avesse continuato a tormentarmi anche da sveglia finché non l'ho scritto. Non ero nemmeno sicura di farcela, a dirla tutta. Non avevo una trama o un finale, o un'idea anche solo vaga di cosa stessi facendo, solo immagini.

E ora? Sarà mia cura pubblicarlo da me. In ebook per i più, in qualche copia cartacea contata per i pochi affezionati come sempre. Non appena avrò trovato una copertina ed avrò il tempo di buttarlo in un formato adeguato. Non posso lasciarlo dov'è.

Scrivere ancora? Certo. Ma senza cambiare rotta. Non importa se non mi pubblicherà nessuno. Non voglio inseguire chimere, la vita è troppo breve e io faccio l'operaia per vivere.  



19.8.22

Sorellanze

 Ultimamente mi hanno fatto notare che non parlo mai di mia sorella. Ho promesso a un amico che avrei scritto un post ed è ora di farlo.

Sono figlia unica, in un certo senso. Lo sono per nascita e credo anche per carattere ma da un certo punto della mia vita in poi sono diventata improvvisamente (e in un caso lo sono ancora) una sorella.

La persona che chiamo "mia sorella" è la ragazza che mia mamma ha avuto in affidamento quando io ero in seconda o terza media. Lei è rimasta con noi anche dopo la maggiore età e in un certo qual senso siamo cresciute insieme. Il nostro rapporto non è mai stato facile, come non era stata facile la sua vita prima di incontrare la bizzarra famiglia della sottoscritta. 

Quello che in pochi sanno è che prima di lei c'è stata una "quasi sorella" che non abbiamo fatto in tempo ad aiutare. Arrivata dalle suore presso cui andavo a scuola dopo aver cambiato mille istituti, probabilmente figlia di una prostituta e con un fratello più grande, L aveva capelli scuri e mossi e occhi verdissimi, la voce roca e un fisico massiccio. Il suo viso ricordava quello di Madonna (Luoiseveronicamente parlando), compresa la fessura tra gli incisivi (diastema, il termine tecnico) e il comportamento eccessivo. 


L era possessiva nei miei confronti e quando c'erano altre persone non mi mollava un attimo mentre quando stavamo insieme a casa mia c'era più di un'affinità tra noi. Era piacevole parlare, lei aveva visto molte cose che non avevo visto io ed era fin troppo smaliziata per reggere dalle suore. Ricordo che non è rimasta nemmeno un anno, cacciata dall'istituto come da quelli precedenti senza possibilità di appello. Con mia madre siamo anche andate a trovarla nel nuovo istituto, insistendo non poco (che essendo tutto tranne che parenti non avevamo mica diritto di vederla) e so che se solo avesse potuto mia madre l'avrebbe aiutata ancora. Le avevamo promesso di tornare ma poi ci avevano detto che l'avrebbero spostata di nuovo e non abbiamo più saputo niente di lei. A pensarci ancora oggi mi viene da sorridere al pensiero dei suoi racconti e mi sento triste al pensiero che l'abbiamo come abbandonata dopo che lei ci si era aggrappata con tutta la sua irruenza. L probabilmente è la sorella che avrei voluto in realtà, anche se con il suo carattere aggressivo mi aveva creato non pochi problemi con le compagne, come se già non avessi fatto difficoltà a sopravvivere lì. 

La sorella che mi è "rimasta", invece, era uno scricciolo di ragazzina che voleva una madre che non aveva mai sentito vicina e che vedeva in me un ostacolo. Una specie di furetto che sopravvive per puro istinto a qualsiasi schianto della vita - non senza ripercussioni comunque - e che per non affogare è capace di tirare a fondo gli altri pur non facendolo con cattiveria. 

Non siamo mai andate d'accordo, anche se spesso ci siamo coperte a vicenda quando c'era da rientrare tardi, un tantino brille o dopo averne combinata una. Negli anni, però, il suo atteggiamento nei miei confronti si è inasprito con manifestazioni di cattiveria che a volte ho anche ricambiato - non sono una santa - ma che alla lunga hanno rovinato qualsiasi rapporto potessimo avere. Oltre tutto era testarda e pasticciona e anche se mi ha sempre accusata di non essere in grado a sopravvivere senza l'aiuto di qualcuno alla fine è sempre stata lei a mettersi in casini sempre più grandi senza accettare un consiglio utile da nessuno e finendo come molti "figli fragili" con l'essere quella che chiedeva costantemente denaro e non si rimetteva mai in pari.

Fatto sta che ho lasciato andare anche lei e che ogni tanto mi sento in colpa per aver abbandonato entrambe al loro destino, intenzionalmente o meno. È che certe volte funziona così, la vita. Ci si trova, ci si perde, ci si lascia. A volte ci si ritrova e spesso no. Inevitabile. 

Che poi spesso accade tra sorelle e fratelli di sangue di perdersi di vista e basta, di chiudere rapporti e non volerne più sapere. Però...

26.7.22

Scusate l'assenza

 Sono un leone ma non sopporto il caldo, colpa della cattività.

Non nel frattempo ho una testa (una delle due) che produco cose a raffica e faccio fatica a starmi dietro da sola.

Quindi...


L'ho fatto un'altra volta. Ho divagato, non ho scritto un nuovo capitolo del romanzo a cui sto lavorando ma ho prodotto un piccolo spin off de "il gioco dei vampiri" dedicato a Wendy

Come per il precedente "Lucio" ❤️ è disponibile gratuitamente su Wattpad e mi piacerebbe sapere che lo apprezzate... 

3.7.22

Quel che conosco

Io conosco la rabbia. 


La conosco molto bene.

E sono preoccupata, perché la vedo serpeggiare in decine di commenti sui social.

Commenti, giudizi, insulti gratuiti.

Mancanza totale di empatia e di rispetto. Si sputa veleno. Si agisce come i re del mondo.

Mi fa paura. Molta.

Poi tante parole inutili per sembrare umani, pacifici, educati, inclusivi. Tante parole che non si possono più usare nel nome di un fantomatico politically correct. Cioè non posso più vincere un "mongolino d'oro" perché offensivo ma posso insultare liberamente chiunque non si comporti come ci aggrada. Come la società impone. Bella gente. Sorrisi fasulli su Instagram, veleno ovunque si possa giudicare.

Apparenza. Vero. 

E sotto questa rabbia.

Magari perché sotto sotto ciascuno sa di che pasta è fatto.



28.6.22

Comunicazione di servizio

 So che tra voi c'è chi "non compra dove tutti comprano".

Inserisco per abitudine i link ad Amazon per comodità ma tutti i miei titoli sono acquistabili presso quasi tutte le piattaforme che vendono libri e soprattutto su Youcanprint o Ibs  e qui   per esempio.                

Se proprio avete urgenza e non vi piace il sorriso inflazionato basta qualche click in più.

Se non amate l'on-line c'è una sezione del blog con i codici ISBN oppure basta titolo, autore e editore (sic.) per ordinare presso la vostra libreria di fiducia.

Grazie

23.6.22

Wendy (attenzione contiene spoiler: alla fine lei muore)

 


Scrivere la storia di Wendy è stato bello.





Lo so che per alcuni che hanno avuto il piacere di leggere "Il gioco dei vampiri" questo romanzo non è che una lunga sequela di ammucchiate magari col pregio di non essere scritto male. Ho esagerato, lo so. Era divertente e l'ho fatto, anche perché inizialmente non avevo intenzione di pubblicarlo. Che poi guai, se scrivi un erotico - o un porno - sei segnata a vita. Eppure l'ho fatto.

Ho iniziato per gioco. Volevo vedere fino a che punto potevo spingermi, fino a che punto potevo divertirmi con i miei personaggi. Li ho amati tutti, fin dal primo episodio.

Scrivere di Wendy mi ha liberata. Mi ha fatta sentire potente e senza limiti. Dopo questo penso potrò scrivere qualsiasi cosa ma non più con tutto questo sesso, non così. A parte il fatto che ho già scritto un altro romanzo in cui di sesso ce n'è parecchio ma non è come questo. Forse prima o poi lo saprete.

Non credo che lei mi somigli. Io non sono brava a portare a termine le mie missioni, prima di ogni altra cosa; inizio e vado avanti per un po' ma poi non arrivo alla fine (tranne che in alcuni casi con la scrittura, ma non la vivo tanto come missione), mi piace dare le pennellate più ampie ma mi annoio con i dettagli. Non sono e non sarei mai in grado di essere una cacciatrice.

Al di là del disegno generale, però, rileggendo "Il gioco dei vampiri" mi sono resa conto che c'era una traccia più profonda che riguarda il percorso spirituale. Alla fine è come se nel romanzo Wendy stesse facendo la sua rivoluzione personale. Certo, non si sa da dove sia arrivata e cosa facesse prima di incontrare il monaco. Il suo primo maestro in questa vita particolare. Non sappiamo perché lui abbia scelto lei e perché Wendy abbia deciso di abbandonare la sua vecchia vita per imparare a uccidere i vampiri, perché abbia scelto una setta, perché abbia accettato le regole e gli esercizi che quel tipo di vita imponeva. Non ci è dato di sapere perché lei consideri "mostri" i vampiri, né se ci sia stato un episodio particolare nella sua vita che l'abbia avvicinata a loro.

Di sicuro un percorso come il suo le è costato sacrifici e rinunce. Rischi calcolati ma pur sempre rischi.

Poi è arrivato Michael, che l'ha portata su un percorso ancora più insidioso, guidandola passo passo attraverso vere e proprie iniziazioni. Non senza dolore e non senza un profondo turbamento, cosa che accompagna qualsiasi vera transizione spirituale. Il non sapere dove si va e che cosa aspetta al fondo del percorso, il timore di non riconoscersi più, di non piacersi. Tutto ciò che Wendy fa sotto il controllo di Michael la rende diversa da ciò che si aspettava di essere, da ciò che pensava come assodato nella sua vita. Anche innamorarsi di lui e poi di un altro vampiro, Lucio, così diverso da tutti gli altri. Come se tutto fosse previsto dal suo nuovo maestro Michael. 

Per poi capire che la sua vita prima di Michael era stata un'illusione. Che quella lotta contro "il male" era una finta e che era stata una pedina in un gioco più grande di lei tra vampiri anziani. Una lotta per il potere vecchia di secoli condotta in modo magistrale dalla persona di cui più si fidava e che si era fatta mille scrupoli a "tradire". 

Per trovarsi priva di riferimenti e con la sensazione di non potersi più ritrovare perché anche Michael conduceva il suo gioco e il limite di quanto poteva imparare da lui era vicino. Aprirsi, lasciarsi andare, togliere ogni protezione per vivere davvero fino in fondo la sua vita. Wendy supera i suoi maestri, li "uccide" e rinasce. Rinasce libera, con un bagaglio che mai avrebbe pensato di poter conquistare. Libera di vivere come è la sua natura, senza più bisogno di un maestro. 

Scrivere di Wendy mi ha fatto riflettere su quanto a volte ci sia bisogno di fare esperienze magari non del tutto desiderate, di superare i propri limiti per conoscere sé stessi. Ancora una volta su quanto ciò che ci sembra normale, giusto e accettabile a volte sia l'opposto. Su quanto i nostri limiti ci trattengano dal diventare ciò che siamo. 

Ora, la questione non è il percorso di Wendy. Quello è un romanzo, una storia con cui passare qualche ora piccantina e via. La questione è che mentre scrivevo di lei e soprattutto mentre rileggevo la storia per dare il "visto si stampi" mi sono accorta di aver provato mille volte le cose che ha vissuto lei e di aver dovuto uccidere i miei maestri per andare oltre e rinascere. Mi sono resa conto di quanto stessi cambiando io e di quanto ho lasciato indietro.

Mi sono accorta che sì, forse il finale è ovvio ma che a volte le cose non possono che andare in quel modo lì. Mi sono accorta che "dopo" non si sarà più le stesse persone di prima ma persone nuove con nuove prospettive e nuovi bisogni, ma persone complete.


 

7.6.22

In loving memory 2 - A.

 A. era soprattutto vendetta. 



Era fare l'amore vestiti nel letto di un'altra, era ripagare il torto subito. La consapevolezza del niente che ci legava.

Era facile perdersi nell'azzurro dei suoi occhi e imparare pian piano dal suo corpo, ma era anche distanza e calcolo.

Nessun rimorso e nessun rimpianto, solo storia. Esperienza. Parte della vita.

Non credo abbia mai desiderato sposarmi, così non ho dovuto scappare, ma un anello me lo ha regalato lo stesso... 

22.5.22

Rumori di fondo


Sono cresciuta guardando Torino dall'alto.

Non è un vanto, forse nemmeno una fortuna. Ognuno ha le proprie origini e ciascuno di noi deve farci i conti in qualche modo, distanziandosi quanto più è possibile per poi tornare in qualche modo a casa. Non la stessa, probabilmente, perché il viaggio che facciamo è unico e irreversibile.


Facciamo tanti sforzi, a volte, per allontanarci dalle nostre radici. Mia madre ha certo sofferto le sue, tentando per tutta la vita di scrollarsele di dosso per poi ricaderci dentro suo malgrado, ogni volta un pochino di meno ma comunque facendolo. I limiti di una donna nata in un periodo non semplice, in una famiglia "bene" di cui mal sopportava le regole e le apparenze, con il suo ambiente in qualche modo stimolante e ostile. Si è ribellata, poi ha chinato la testa, poi ha cercato di dimostrare al mondo che era in grado di sostenere le sue convinzioni a ogni costo. Così ha passato la vita a faticare - chissà poi se inutilmente - e a mostrare a me come avrei dovuto vivere. Certo noi siamo sempre state diverse, io non ho mai amato né i limiti né la fatica e ho imparato forse tardi che non avrei mai potuto vivere come lei.

Ma sono nata lì. Con le mie due famiglie - materna e paterna - della Torino bene, con un prozio ambasciatore e una cugina di secondo grado baronessa (due nomi e quattro cognomi), con nonne educate a conversare in tre lingue diverse - magari del nulla ma in tre lingue - e l'ossessione per l'origine (lo status sociale). La villa in collina, le case al mare o in montagna, gli amici un pochino snob, le scuole private, la posizione futura, le vacanze all'estero, un "buon" matrimonio, natale con i tuoi, gli inviti obbligatori, il bon ton, una pacata reazione anche alle peggio cose, quel tantino di ipocrisia e formalità a pacchi. Poi, ovvio, tutto è svanito in un attimo e in una fideiussione firmata da un nonno prima ancora che io avessi il tempo di rendermi conto di ciò che avrei dovuto essere per restare nel mio personaggio. E allora l'attimo è diventato occasione per prendere le distanze volta per volta da tutto ciò che non sentivo mio, per crescere con sovrastrutture differenti, per sperimentare e conoscere altro da ciò che avrei dovuto.

Sono sempre stata "fuori posto" e finché ero giovane non mi rendevo conto di cosa fosse quel rumore di fondo che mi infastidiva sia quando frequentavo persone molto più simili alla mia famiglia, sia quando erano persone di tutt'altra estrazione sociale. Un sentirmi diversa che non mi legava mai a nessuno e che mi spingeva a essere curiosa di trovare finalmente un posto mio. Uno in cui non mi si chiedesse di fingere o di sminuirmi. In cui essere libera.

Non è stato uno choc comprendere che il motivo di tanta distanza era lo sradicamento.

Perché a tutto puoi mentire tranne che al sangue e sebbene io sia totalmente diversa dalla persona che avrei dovuto essere non posso dire che questo sangue non abbia casa in questo corpo. E non mi concede tregua, perché se è vero che sono abituata a non giudicare e ad ammirare ciò che è diverso da me è vero anche che poi possono entrare nel mio cuore le persone che un minimo del mio background ce l'hanno. Non perché possano capirmi meglio - non capita spesso una vera e profonda comunione - ma perché io sono una maledetta snob. Perché in fondo mi sento una lontana parente di quella che dovevo diventare e forse sotto sotto intorno ai novant'anni lo diventerò.

Intanto continuo a ridere in chiesa, a detestare le formalità, a contestare le regole altrui, a cercare di vivere per quello che sono anche se mi complica la vita. Continuo a credere in cose un po' troppo "hippy" o estreme e mai nelle presunte verità altrui. Continuo a vedere il mondo con occhi diversi anche se meno curiosi di un tempo. Comprendo le parole di Roy Batty perché dentro di me sono anziana e stanca di combattere per dimostrare che ho ragione - ma poi sarà importante?

Mi siedo coi vecchi alle riunioni di famiglia, troppo stanca per unirmi ai giovani in piscina.

27.4.22

Noi (ancora)


 La meraviglia di ciò che noi siamo, è quanto rapidamente cambiamo. 

Scorriamo, fluttuiamo, piantiamo radici profonde eppure allunghiamo le dita al cielo. Non siamo fatti per restare. Mai uguali, mai due volte gli stessi anche quando pensiamo di non esser diversi da ieri. E perché restare sempre uguali, poi? Per non deludere le aspettative altrui, rischiando di perdere ciò che profondamente siamo, ciò che con fatica emerge quando glielo lasciamo fare, la nostra natura - forse momentanea ma nostra - esposta e selvaggia, spaventosa e invitante. 

Noi, fusione di chimiche diverse, fatti per essere unici e allo stesso tempo per unirci al resto di noi, fatti per incontrare e per avvolgere, e per scavare e cambiare irrimediabilmente chi ci sta accanto. Noi, fatti per amare un tutto che non comprendiamo, che ci leghiamo a un niente per paura di cambiare.

Noi, piccole gocce d'acqua, fiumi in piena e mari in tempesta. Cullati nelle nuvole in attesa di piovere.

26.4.22

Felice di niente

 Ci son mattine che ti svegli che non hai dormito molto e hai già mal di schiena, e non hai voglia anche se sei contenta perché nei giorni precedenti hai fatto cose belle. Ci son giornate che iniziano in salita e finiscono più o meno uguale su un tapis roulant dopo una sessione di tortura cinese e asciugamani e copriletti e la voglia di tornare viva. Ci son pomeriggi che poi torni verso casa e in quel momento ancora non piove e mentre ascolti un romanzo di fantascienza e guardi in giro e senti l'aria addosso ti senti stranamente felice di niente.




Ci sono sere che sei al pc e butti un occhio alle cose che hai lasciato su Wattpad da un anno a questa parte - sì, vabbè, una è lì da ieri - e che sai che hanno una certa potenzialità e conti i lettori e scorri le classifiche abbastanza inutili ma ti senti soddisfatta ugualmente perché loro lì son sole ma si fanno strada, e allora sai che hai fatto bene e che DEVI continuare...

Sono innamorata, sono pazza, sono ancora qui a sognare mondi che non esistono.

23.4.22

Foresta

Avevo mille cose in mente.

Era di amore e di attenzione, era di come a volte la poesia non sembra più far parte di quello che viviamo e invece se ne sta lì, nascosta sotto le foglie secche del nostro giardino. Noi non curiamo granché questo posto, è vero. Le mille incombenze di ogni giorno, le brutte notizie che ci arrivano nonostante tutto, le tante brutture che ci vedono impotenti e tristi ci impediscono di prestare più attenzione a noi stessi. 





Amarsi dovrebbe voler dire ascoltare i piccoli segnali prima che diventino un problema. Il dolorino che da occasionale diventa fisso, l'acufene che all'improvviso si fa più importante, l'ansia che ci accompagna col sonno e che diventa attacco di panico. Il malessere sottile che diventa la fine di un amore.

Nell'altro post parlavo di quelle piccole cose che anche se non "ci ammazzano" non ci fanno bene. So per esperienza che anche solo una piccola frustrazione, se continuativa, può rovinare una marea di sforzi e risultati ottenuti. So che a un certo punto passa la voglia di provare. E sì, sto parlando di amore e di come a un certo punto ci si accorge che quello che si sta vivendo non va bene per noi. Per mille motivi diversi. Per tutti i segnali non colti o per aver sottovalutato l'impatto che potevano avere nel tempo.


E sì, sto parlando di amore e di come se non si curano i più minuscoli dettagli fuori sincrono ci si perda definitivamente.  Ed è vero che le più grandi passioni finiscono senza botti, senza grosse esplosioni. Finiscono. Nemmeno si trasformano. Altre, invece, crescono a discapito di ogni difficoltà e giusto perché nutrite di ascolto e di attenzione si trasformano in qualcosa di più grande e se possibile più bello.



Non credo sia questione di fortuna. Credo che in ogni cosa ci siano semi e germogli che con il giusto terreno hanno il nutrimento che manca loro. Ci sono parole che sono germogli, non promesse, non fonti di sicurezza. Solo germogli. Il bello in tutto questo è che lì esistono infinite possibilità. Non si tratta nemmeno di decidere, le cose arrivano da sole e da sole se ne vanno ma meritano l'attenzione. La giusta dose d'acqua e di fertilizzante, la luce e l'eliminazione delle foglie secche. E tanta aria e spazio per respirare, perché senza aria non c'è vita.

Ma soprattutto imparare ad amarsi e ascoltarsi, il conoscere già le risposte che non si vogliono avere. Lasciar morire parte dei rami per far crescere gli altri non significa perdere. Amare sé stessi, prima di ogni altra cosa. Prima di chiedere amore e di fingere di darne, ché se non si sa cosa sia il bene proprio non si può desiderare l'altrui. Sapere che ciò che di noi marcisce e muore può esser vita per qualcun altro. 



Essere foresta. Non singolo albero, non un solo pezzetto di giardino curato all'inglese. Foresta. Pullulare di vita e lasciare che ogni cosa faccia il suo corso senza che questo muti o limiti il proprio essere. E amarsi, e amare. Sì, sto parlando ancora d'amore...

22.4.22

Pensieri dell'anno passato


 Questi tempi ci hanno insegnato a covare rabbia, non buoni sentimenti. Quelli li lasciamo agli arcobaleni colorati dai bambini e agli inguaribili ottimisti. Ho idea che per alcuni la chiusura non abbia che accelerato il processo, prima contenuto da un minimo di contatto sociale (non social, perché qui di leoni da tastiera che nel quotidiano mai oserebbero alzare la voce ce ne sono eccome) che fa da filtro ai nostri comportamenti. Sovrastrutture culturali che ora tendono a cedere e che, chiusi nell'Io come siamo, ci fanno sentire ancor più isolati. Chi ha fatto o sta facendo un percorso spirituale non ne è del tutto immune ma si spera più consapevole, perché una volta riconosciuto il mostro è più facile rimetterlo al suo posto.

Siamo più che mai "noi contro il mondo" ed è grave più del virus che in casa ci ha chiusi così a lungo.

Non è uguale per tutti, non può esserlo. A me ha portato pace, questa cosa, e il desiderio di avere in futuro una vita migliore che comprenda rispetto per me stessa e per gli altri, un ritmo più adatto e un senso del dovere meno presente. La voglia di smettere di rincorrere una vita che non mi aspetta e che mi pretende costantemente iper-performante, iperattiva e soprattutto consumatrice passiva di qualsivoglia prodotto. Ci hanno insegnato a essere sempre in competizione e questo non è bene, perché ci isola. Non esiste un "altro" da combattere, esiste un Io che si è fatto riempire di idee confuse sulla vita e sulla morte, sulla nostra natura. 

Non ne usciremo migliori, se continuiamo a prendercela con chiunque tranne che con i responsabili e non ammettiamo che i responsabili di ogni cosa siamo noi per primi, quando pur di non pensare cerchiamo qualcuno fuori cui delegare anche il nostro destino per poi seppellirlo se quel destino non ci piace.

8.4.22

Crossover post

 Tornano in mente scene di film e ti chiedi se sia il caso di scrivere un post, cominci a pensare a cosa dire poi ti rendi conto che le tematiche che incontri hanno a che fare con tre "filoni" diversi dei tuoi post.

C'è il nuovo "cineteca personale" visto che si tratta di un film, ma anche qualcosa che riguarda "l'analisi illogica" e perché no anche "singolare femminile" quindi che fare?

Come nella migliore tradizione dei serial tv: un post crossover in cui mettere un po' di questo e un po' di quello, sparso e condito. Quindi eccomi qui. Voglio parlare di Staying Alive, un altro di quei film che ho visto e rivisto fino alla noia stavolta a causa del tema e della presenza del mio mito dell'epoca: Cynthia Rhodes. Lei, la ballerina bionda più snodata dell'universo, presente in tutti i film a tema danza del periodo, mai scelta come protagonista assoluta ma indimenticabile. 



Partendo dal tag "cineteca" vi posso dire che Staying Alive è un film "tamarro" con un protagonista e un regista altrettanto "tamarri" da cui non ci si può aspettare chissà cosa. Un John Travolta muscoloso e sudaticcio alle prese con audizione e spettacolo che potrebbe essere la svolta della sua carriera di ballerino arriva fino a un pelo dal riuscirci e manda in vacca il tutto perché non riesce a non fare lo "sborone". Nel frattempo scatta inevitabile la storia d'amore/non amore/perché no che fa da sottofondo all'esibizione muscolare del Tony Manero versione professional. Belle per gli appassionati le scene di ballo, molto azzeccata la colonna sonora in cui compare anche la suddetta Cynthia Rhodes, Frank Stallone e i Bee Gees. Lo consiglio solo se siete appassionati del genere, altrimenti è tafazzismo puro. Siccome però io lo amo vi butto lì un paio di link e fate voi.


Ovviamente, e qui passiamo a "l'analisi illogica del testo", il caro Tony ha una fidanzata/ migliore amica (proprio lei) con cui condivide la passione per la danza e la fatica dei mille lavoretti in attesa della svolta. Jackie è la compagna ideale, bella, brava, disponibile, dolcissima. Quella che risponde al telefono nel cuore della notte perché sa che è lui a chiamare. Come non amarla? Il prototipo della fidanzata perfetta, che soffre in un angolo mentre lui tenta un "salto di qualità" anche dal punto di vista delle relazioni. La fortunata "altra" è nientemeno che la prima ballerina dello show per cui si stanno preparando, una ricca borghese snob che ha imparato come muoversi in quell'ambiente. Detestabile, per certi versi, ogni qualvolta la si paragoni a Jackie. Tra lei e Tony scatta qualcosa ma sono troppe le differenze e ben presto i due entrano in conflitto, con Jackie che osserva da lontano. Inutile dire che a un certo punto Tony tornerà da lei e che in un qualche modo tutto si aggiusterà. Ma a ben pensarci, la trappola qual è?

Lasciamo perdere la storia e osserviamo i personaggi. Da una parte c'è Jackie, la fidanzata perfetta pronta a riaccogliere Tony in nome dell'amore, del rapporto classico, stabile e rassicurante. Dall'altra c'è una donna emancipata che non ha "bisogno" di un uomo accanto e che fa le sue scelte sempre e solo per sé stessa ed è solida e determinata (anche un tantino egocentrica e isterica ma nel film ci sta). Ovvio che da un punto di vista prettamente romantico viene facile immedesimarsi con Jackie, che al culmine della crisi se la canta in lacrime mentre Tony tenta un rientro al volo...


Ma poi...

Ma chi lo vuole un fidanzato come Tony? Chi?

Laura, sicuramente meno simpatica, cinica e disincantata lo liquida con un "tutti usano tutti" ma non ci crede nemmeno lei. O mi piace pensarlo. Perché fino a un certo punto le cose tra loro sembravano quasi funzionare, solo che le differenze erano troppe. Difficile costruire qualcosa con qualcuno così lontano. Estrazione sociale, cultura, frequentazioni, ambizioni e consapevolezza. Lei sa chi è e quanto può chiedere alla vita (ma da un certo punto di vista anche Jackie conosce i propri limiti - se parliamo soprattutto di carriera artistica), approfitta della sua fortuna e cerca di sfruttare ogni opportunità, che non significa "usare" le persone ma di sicuro non si lega a chi non le è affine. Soprattutto a un tamarro instabile e presuntuoso che, per carità, è pure simpatico ma è come una bomba a orologeria.

Ecco, potendo leggere tra le righe credo che in Staying Alive la lotta di classe si giochi molto dal punto di vista sentimentale. Da un lato il protagonista "buono", che si fa da sé e che lavora duro, con la fidanzata perfetta che lo ama per quello che è, che ha un'immensa botta di culo lavorativa e la sciupa - sì, certo, il film finisce prima di averne la certezza ma... - ; dall'altro ci sono i "ricchi" e le star, quelli che si comportano da stronzi solo perché non fanno girare il loro mondo intorno al sorriso di Tony Manero. O ai suoi muscoli lucidi di sudore. 



E, considerazione da "singolare femminile", l'immedesimarsi in Jackie per una donna non è del tutto sano. Lei è una visione maschile prima di essere tutto il resto. Quello che dovrebbe essere una donna nella mente di chi ha scritto questa storia e di chi l'ha diretta (quindi sempre lui, Sly), quello che ci è stato insegnato, quello che vorrebbero in molti. Non avrei mai pensato di dirlo, ma a questo punto ben venga quella stronza di Laura, che stronza non è...

16.3.22

Senza titolo

 Io mi ricordo il rumore dell'oceano nelle notti scure di Kovalam, ricordo l'odore della terra bagnata, il colore degli occhi del mio primo amore; mi ricordo com'era salire fino in cima alla quercia del giardino dei nonni e fermarmi a leggere un libro seduta all'incrocio di tre rami. Ricordo le corse nei prati e il procedere incerto della seggiovia che porta al Picco dell'Aquila a Rajgir, la granita fatta con la neve fresca in una casa costruita da mia madre. Ricordo la luce che filtrava tra le liste delle tapparelle, le risate che arrivavano dal campo da tennis all'Elba, il cotone del mio pigiama laggiù; ricordo la canna della pistola puntata e la rabbia che ho provato, ricordo i vetri della 128 appannati dalle ceste di pane caldo al mattino, la fatica di sgelare le serrature dell'auto d'inverno, la Diane che spingevamo fino al limite della discesa per farla accendere, i cuccioli di Lady tra le ortensie. Ricordo il primo lebbroso, giù a Nuova Delhi, appena fuori dall'Hotel Imperial; ricordo gli scatoloni con le cose che avrebbero potuto pignorarci portate via prima che fosse tardi. Ricordo che venivano ogni settimana a chiedere i soldi a mia madre e se non erano i soldi erano i gioielli o l'auto. Ricordo quando cercava di farmi dormire il pomeriggio, quando si fermava per strada a vomitare bile, quando diceva di non essere innamorata.

Ricordo centinaia di bracciali di vetro colorato esposti nelle bancarelle, la salita in elefante fino al forte di Jodhpur; il tuffo nel vuoto fatto per scommessa, la polizia che cerca impronte sui vetri della cucina in villa dopo che ci hanno svuotato la casa. Ricordo il trabattello montato in salone per dare il bianco da sole, la volta che la nonna ha scambiato il terremoto per un camion che passava di là; la sensazione del velluto dei sedili del bus per Madurai, l'odore dei vicoli di Benares e dei Ghat sul Gange. Il pitone nel giardino del ristorante con cui non ho potuto fare la foto. La nebbia ogni mattina.

Ricordo la sensazione orribile delle sue mani addosso; ricordo di aver riso con le ragazze sul palco, ballando per un pubblico quasi inesistente, il sapore del primo bacio e quel capogiro meraviglioso. Come mi sentivo tra le braccia del mio amore di ragazza, l'album che ascoltavo mentre aspettavo mia madre in auto quella volta. Le parole esatte del nostro amore. La spesa per il negozio fatta con la calcolatrice in mano, l'inverno in collina senza riscaldamento, l'estate senz'acqua in campagna. La sensazione di onnipotenza a camminare sul tetto del palazzo in costruzione in montagna, la volta che mi si è strappata un'unghia mentre facevo a botte con mia sorella e non me ne sono accorta. Ricordo le lacrime della mia amica, i viaggi in moto senza casco, le volte che abbiamo fatto il bagno al fiume. Ricordo gli operai in cortile, le volte che abbiamo traslocato, la volta che andando via da Milano ho regalato tutti i miei giochi ai miei amici. Il sapore del lassi a Bodhgaya e le volte che ho trovato muffa o formiche nella colazione. Gli occhi di Saswati, di un verde acceso. La volta che il medico ci ha detto che mamma non aveva scampo.

Ricordo l'odore della pece e la consistenza delle scarpette da punta. Le fiabe che la nonnina inventava per me e i suoi colori a olio. I barattoli della Nutella da un kg e pacchi di grissini da "pucciarci" dentro. La terrazza a Moradabad su cui cercavamo di cuocere un uovo. Le tende pesanti degli alberghi, la fiera di Parigi da allestire, la colonna sonora della mia prima volta con lui; la faccia di Bianca quando abbiamo conosciuto Chandra. Ricordo il riflesso della luce da lettura sugli occhiali della nonnina mentre leggeva i gialli, il profumo dei personaggi adesivi di Disney che vincevi con i formaggini Mio. Il pappagallo a Castiglioncello, fare una statuina con le mie mani a Sciacca, la cioccolata calda all'aeroporto di Tel Aviv rientrando dal mio primo viaggio in India. I film visti di straforo dalla finestra a Diano Marina; tutte le volte che ho visto Guerre Stellari all'Ideal, i Dylan Dog letti ad alta voce dopo due bottiglie di vino, le volte che al bar alzavamo il volume del juke box per ballare tra i tavoli. La volta che il maestro Cantello mi ha portata a conoscere Oriella Dorella; l'amore che avevo per il Teatro Alfieri e le fughe nei camerini a salutare gli amici. Il provino che ho fatto a Roma e le volte che non sono andata in televisione. Ricordo come mi sentivo mentre cantavo al concorso; ricordo i no che ho pagato. Ricordo i no che ho detto e che nessuno ha ascoltato.

E ricordo un viavai di persone e lui tra la gente, e la sensazione che tutto si fermasse. E tutto ciò che è stato. Ricordo corpi circondati da pietre ai bordi della strada e ambulanze trainate da bufali. Ricordo pranzi e cene di famiglia, e il momento in cui mamma mi ha detto che la nonnina non c'era più e io ero appena arrivata da un pomeriggio di giochi. Ricordo la lampada a fibre dello zio Dodo a Milano, il negozio in cui mamma lavorava in centro e il magazzino di Daniele. I pomeriggi passati a Leumann a svuotare le casse di oggetti in ottone da vendere, la preghiera ogni mattina dalle suore e le fughe dal catechismo.

Ricordo di aver riso tantissimo e di aver pianto nella stessa misura, a volte riso e pianto insieme. Di aver sofferto e di aver vissuto. E che ogni cosa mi ha portata qui ed è esattamente qui che voglio stare. Come sono, come amo, come sono riuscita finalmente a essere. Nonostante tutto. Anche se per tutta la vita ho avuto chi mi voleva diversa, chi mi ha riso in faccia, chi mi ha dato della pazza, chi non ha voluto vedere, chi ha cercato di buttarmi giù; le altre persone hanno forse fatto un lavoro migliore.

Ricordo che volevo essere di un altro pianeta. Gli "aggiusti spaziali" e tutte le astronavi che ho sognato di pilotare. Vado avanti e so di essere ancora quella bambina che ha vissuto tanti anni più dei suoi.

24.2.22

Quel che non ti fortifica ti uccide...

 



Sì, lo so, dovrebbe essere il contrario.

Ma non siete stanchi di dover essere forti a ogni costo? Di dover dimostrare che qualsiasi cosa succeda reggete il colpo? Che non solo state in piedi nella tempesta ma che quasi quasi come il tenente Dan di Forrest Gump vi arrampicate sulla cima dell'albero per mostrare il dito medio al Creatore?

Beh, io sì. Da tempo.

Tutta questa smania di essere superiori, sempre pronti, sempre giovani, performanti, col fisico giusto, con la mente sempre tesa all'obbiettivo, resilienti e anche un poco grati se la vita ci ha preso a randellate sui denti io non la reggo. Alla fine è un dover sempre essere qualcuno che non si è, un doversi negare i momenti di dolore, di debolezza, di paura per dimostrare al mondo (ma sotto sotto siamo convinti che serva pure a noi avere una mente sempre concentrata su quello che vogliamo ottenere) che ce la facciamo.

É che poi diventa difficile essere sé stessi così. E che forse al mondo non importa un fico secco se ce la facciamo o meno, se esistiamo o meno. Se ci godiamo il viaggio o siamo lanciati in una folle corsa verso la morte (che alla fine è lì che andiamo, comunque) come il treno Blaine della saga della Torre Nera di King (appare in "Terre Desolate" e nel mio preferito "La Sfera del Buio"). Who cares?

Che poi è vero che ciò che non ti ammazza ti rende più forte ma chi è tanto scemo da dire "guarda, in vita mia ho preso solo mazzate e vedi come sono tosto"? Io, almeno, di tante mazzate avrei fatto volentieri senza. Sì, sono ancora qui e ho il mio bel caratterino  - ma ce l'avevo già da piccola e sono sicura che sarei stata simpatica lo stesso - e di certo non sono morta ma giuro che le mazzate qualche conseguenza la lasciano. Come le piccole sofferenze o i disagi prolungati nel tempo, le situazioni che non riusciamo ad affrontare o che fingiamo di sostenere benissimo (non importa se lo facciamo con gli altri o solo con noi stessi, alla fine tutto lavora dentro allo stesso modo), le arrabbiature e le umiliazioni. Che già ce ne sono tante di piccole cose che possono guastarci il viaggio, di quelle grosse purtroppo ce ne capitano ma ben venga il poter affermare: "sto di merda".

Quando ho iniziato la terapia ho passato le prime sedute a raccontare la mia vita alla psicologa. Lei ha preso appunti, ha aspettato che tirassi fuori gli eventi (avremmo discusso dopo di come mi faceva sentire ciascuno e degli effetti collaterali che ancora mi porto dietro a strascico) per poi dirmi: "caspita, lei ha vissuto in una vita sola il triplo delle cose che di solito vivono i miei pazienti, mi stupisco che sia anche un minimo equilibrata" (e al tempo non lo ero granché). Ecco, io ho fatto un po' da punching ball per tutta la vita e a forza di mazzate qualche neurone mi si è rintronato. Certo, non sono morta ma sono in analisi da una vita e ancora oggi mi rendo conto di quanto ogni evento abbia condizionato quelli successivi, in certi casi in modo disastroso, in altri solo un tantino bizzarri.

Non voglio fare elenchi, ognuno di noi ha passato i suoi guai ma credo che il continuare ad affrontare la vita gridando "Questa è Sparta" quando dentro siamo in grado di sopravvivere giusto a Gardaland sia dannoso per la salute. E sì, quel che non ti uccide ti fortifica, ma a furia di sanguinare muori ugualmente. Forse è meglio proteggersi il più possibile (e si può fare vivendo qui e ora e non proiettati in un qualcosa che forse non ci sarà mai o che non sarà mai più) e coltivare quel minimo di saggezza e consapevolezza per rendersi conto delle ferite che sanguinano e farsi curare in tempo.


15.2.22

Cineteca personale - 1

 Vi capita mai di ricordare scene di film all'improvviso come ad Ally McBeal capitavano quelle buffe visioni? Quelle cose che creano collegamenti con ciò che state facendo e ve lo rendono lieve almeno per un po'?

Immagine: SkyTg24

Sono cresciuta guardando e riguardando film fino a impararli a memoria, ossessivo compulsiva anche in questa mia passione, consumando decine di VHS vergini per registrare ogni cosa mi piacesse e facendolo senza programmazione ma togliendo ogni interruzione pubblicitaria nel frattempo.

Ho amato il cinema fin da piccola, come i libri e come la musica, e in fondo come ogni manifestazione artistica. Certo i professori all'università mi hanno sempre accusata di guardare solo film stupidi un po' come alle superiori mi dicevano che leggevo solo schifezze ma intanto leggevo e guardavo film di ogni tipo e credo sia stato tempo speso molto bene.

Credo di aver già raccontato più volte di quanto ami "Guerre Stellari" e di quante volte sono riuscita a trascinare al cinema i miei familiari nel 1978 per rivederlo fino alla nausea. Non voglio però parlare di questo o di una ipotetica lista di film della vita, a dire il vero non ne ho nemmeno una. 

Mi è successo la settimana scorsa di pensare all'insonnia della notte precedente e di tornare con la mente a questa scena qui. A quel "tu doo doo - doo" sempre più nevrotico di Debra Winger e al balletto in accappatoio di Robert Redford, avvocati insonni in "Legal Eagles" (tradotto in Italia con un improbabile "Pericolosamente Insieme") che tanto mi hanno fatto ridere alla fine degli '80. Credo di aver consumato la cassetta, insieme a mia sorella, ripetendo battute e imprimendo le faccette della Winger nella memoria. E riconoscere sotto a questa scena un altro dei miei film preferiti: "Singing in the rain" con il bravissimo Gene Kelly.

Non è tra i miei preferiti, quindi perché parlarne? Perché gli spunti per sorridere arrivano da qualsiasi fonte, volendo, e anche quelli per ragionare. La storia è ben congeniata, il cast è ottimo e ben affiatato, insomma perché no? Il regista Ivan Reitman è scomparso giusto poco fa e se avete riso con "Ghostbusters" potete sorridere con questo legal thriller a sfondo romantico con una strepitosa - come sempre - Daryl Hannah a fare da contorno.

Io son venuta su a pane e Freddy Krueger, ma non solo di horror e di fantascienza si campa. 


11.2.22

Tersicore

 Io ero.

Semplicemente, senza fronzoli o sovrastrutture. Giovane, sognatrice, decisa. Ero tutto e ho usato ogni briciola di ciò che ero per essere ancora, e ancora, eterna.

foto Wallhere.com


Assorta in un sorriso di ciglia scure, stretta in un abbraccio senza fine, aggrappata a quella casa che sentivo nel cuore. Ero. Persa in milioni di balletti mai ballati, presa dalle immagini dei sogni. Ero.

Cantavo forte e scrivevo parole e corpi insieme. Forte della mia forza unica, passione. Ero passione, sempre. Giorni, notti, ore, anni a bruciare. E cantare bruciando. E bruciare danzando, per poi rinascere il mattino dopo.

Ed ero terrore, dolore, sangue. Ero la vita tutta. E la morte. E avevo lacrime e risate colme di gioia e pensieri folli, torbidi, veri. Ero io. Sempre.

Passo dopo passo, giorno dopo giorno, sogno dopo sogno. Come fosse respirare, la mia danza. Lo era, in ogni cosa. Come io ero.

Avevo.

Musica, sogni, visioni, luci, colori, parole, la pelle pitturata e nuda. Avevo desideri urgenti, avevo voce e volevo usarla. Avevo poesie e mitologie potenti, e la magia, e tutto attorno. E il mondo ai miei piedi. E non erano importanti il sangue, le ferite, le parole pesanti e tutto il male del mondo. Brillavo.

Ero viva. Dentro a una ragazza che sognava di volare. Ero Tersicore.