31.12.15

Un anno se ne va...

Pare sia uso comune riflettere sull'anno passato, nel giorno in cui l'anno finisce e a me capita invece che oggi la mente stia pensando al futuro. Cosa strana, perché io si sa che non ci credo nel futuro - con felicità e speranza sono parole ostiche per me - e non amo fare progetti e pianificare; non organizzo, non mi aspetto successi, non chiedo.
Ecco che invece oggi si fa prepotente un senso di "rivalsa" sull'ultimo periodo. La lentezza estrema, i sogni che ho iniziato a fare, la fatica di affrontare ogni giorno uguale al precedente, abitudine nelle abitudini che in qualche modo mi stanno strette. La sensazione di volere di più, di non avere ciò che vorrei, non so se lo merito o meno, ma lo desidero.
Oggi, leggendo uno degli innumerevoli oroscopi per l'anno futuro in cui mi si diceva di non avere fretta, un senso di rabbia mi ha colta alla sprovvista:quanto ancora devo aspettare?
Sì, i progetti sono tanti e tutto si muove, ancora lentamente, ma io comincio a essere stanca. Anche in tv, in questo momento, Malika Ayane canta "adesso e qui", come fosse un segno.
Sì, inutile dire "non desiderare"... Cavolo, io voglio desiderare. Sono stanca di stare dietro ad aspettare.
Come direbbe Julia Roberts in "Pretty woman": io voglio tutto, voglio la favola.
Quindi ben venga la pubblicazione di "Sette stanze", a brevissimo disponibile sia in ebook che in cartaceo, ben venga quella di "Addio a Bodhgaya" - altro romanzo breve - sempre molto vicino; ben venga quella di "La festa", sequel dell'erotico vampirico "La caccia".
Ma non mi basta, ora comincio a scalpitare.
Anche se sono un leone ascendente bradipo, predisposta alla lentezza e al guardare il mondo con occhio annoiato e rimirandomi le zampe anteriori mollemente... comincio a scalpitare.
Vedo rosso come un piccolo toro - pianeta in cui campeggia la mia luna - ho voglia di risultati, di incornare un bersaglio, di vedere che la mia fatica, la mia attesa, il mio costante lavorare ingoiando bocconi a volte amari, porta a qualcosa. Piangere per stanchezza, per l'eternità che ci metto ad avere una risposta.
Non ho più voglia.
L'anno scorso... sì, mi ha dato piccoli e costanti segni che il progresso è a un passo. Ma ora basta, tra un po' salto. Non ce la faccio a procedere coi piedi legati. Quel singolo passo ci mette un sacco di tempo e io di tempo non ne voglio perdere più. Quando sai che cosa desideri, desideri che tutto inizi subito (anche questa è una citazione, anche non letterale). E io, oggi, desidero.

27.12.15

Una analisi illogica senza testo (e priva di spoiler)

La risposta è no.
Nel buio della sala dell'Ideal, poco dopo i miei otto anni, quando vidi entrare Dart Vader, nero nel fumo bianco dei folgoratori, rimasi senza fiato. Da quel momento in poi, per anni, ho visto e rivisto Star Wars prima al cinema, poi in tv, vhs, dvd un numero incalcolabile di volte, tanto che avrei potuto recitarlo al contrario senza sbagliare una battuta. Poi, ovvio, sono cresciuta. Cioè, no.
Non potevo crescere abbandonando quel mondo, che fa e farà parte di me in quella esatta versione del 1977; dimenticando la meraviglia di quegli effetti speciali, di quell'universo creato con un'immaginazione che oggi non esiste più.
Ho difeso per tutta la vita quel film e quella versione, anche discutendo con i miei professori all'università, privi di fantasia e spenti, che non comprendevano la ricchezza di ciò che ci vedevo. La magia. La Forza.
Tutto, nella prima trilogia, è pervaso dalla Forza. Non solo perché ne parlano, non solo per le evidenti ripetizioni che già creavano un effetto "ridondanza" nei due sequel, ma che lì facevano parte di un linguaggio in qualche modo sia nuovo che "di culto"; nella prima trilogia la Forza è tangibile al di là dei semplici effetti speciali. C'è, e si sente, si immagina, le si dà un significato quasi New Age, ma c'è.
Archetipi, certo. Una fantascienza che è in qualche modo un fantasy; il bene e il male, la lotta tra padre e figlio, il saggio maestro, il potere soprannaturale, armi speciali, la missione.
Una fantascienza che era diversa dai mondi creati da "Spazio 1999" fino a quel momento: non più quegli ambienti puliti, nuovi, impersonali - per non parlare delle scenografie improbabili e comunque bellissime di Star Trek - ma dei luoghi e delle attrezzature "vissute", che in qualche modo apparivano familiari e veri. Non una sola umanità a confronto con altre civiltà ma decine, centinaia di razze e specie diverse più o meno pacificamente conviventi.
Questo film ha condizionato il mio modo di percepire il mondo, nel bene e nel male; mi ha aiutata a credere nella magia della vita e del cinema. Niente è stato più appagante dello scoprire i trucchi utilizzati per quella versione. La Morte nera che esplode in un mare di scintille non ha niente a che vedere con l'esplosione perfetta e, di nuovo, impersonale della versione rimasterizzata uscita nel '97.
No, non ho apprezzato i "ritocchi" apportati da Lucas - pur essendo appassionata di effetti speciali, quelli fatti al computer non mi sembrano belli quanto gli originali - e continuo a vedere la versione vecchia appena posso.
Poi sono arrivati "L'impero colpisce ancora" e "Il ritorno dello Jedi". Stessa magia, con qualche ripetizione e qualche ingenuità, forse - o forse ero io a percepirle laddove anni prima non le avrei viste - ma ancora potenti.
A confronto con la "vecchia" trilogia, la seconda già sfigura. Ma ci sono ancora in parte le vecchie ambientazioni, c'è un futuro conosciuto che aspettava il suo passato e la Forza, che ormai conosciamo, appare nel momento in cui comincia la decadenza. Come fosse scontata, c'è e si manifesta senza "intaccare" l'immaginario che le si è creato intorno. C'è una magia di costumi e di nuovi mondi; personaggi da amare e il piccolo Anakin che da piccolo tesoruccio molto dotato diventa un adolescente capriccioso e arrogante e un adulto poco cresciuto con evidenti problemi di comprendonio. Che forse a non spiegarne l'evoluzione gli si faceva un piacere. In ogni caso, nonostante si noti la grande differenza tra le due trilogie, sia per profondità che per costi di produzione, non si può non legarsi anche a questa favola.
I sei episodi stanno tutti in bella mostra nella colonna porta dvd di casa. Almeno una volta l'anno si fanno un giro nel lettore e mi riportano a quella prima volta al cinema, bambina.
Quindi veniamo a oggi. No, a due giorni fa.
Quando sono entrata, priva di grandi aspettative, al cinema. Sì, perché J.J. è un genio. Questo lo so. Solo che tra mito e genio vince il mito, per me.
Il nuovo Star Wars è un film ben confezionato, buon ritmo, begli effetti, il ritorno dei protagonisti della prima trilogia studiato apposta per attirare i "vecchi" fan, qualche nuova arma. Il 3D...
Se non avessi mai visto il primo/quarto episodio, se non sapessi niente dei film precedenti, se non li sapessi a memoria potrei dire che il film mi è piaciuto. Ed è così che cercherò di considerarlo: come un film a parte. Nonostante non capisca perché, con un universo di possibilità al mondo abbiano dovuto far tornare i tre anzianotti invece di raccontare altro; nonostante io trovi delle somiglianze inquietanti tra il nuovo "male supremo" e Gollum; nonostante la bruttezza infinita dei protagonisti maschili; nonostante la trama pressoché ripetuta di primo e settimo... lo accetto.
Priva di grandi aspettative perché sapevo che avrei trovato un film "attuale", un blockbuster assoluto, qualcosa di altamente spettacolare e veloce. Una pellicola di J.J. lo è praticamente sempre. Perché lui è davvero bravo: a fare il suo lavoro, a portare la gente al cinema, a stupire.
Eppure se mi chiedete se mi è piaciuto l'episodio VII non posso che rispondere no. Se fosse stato un film qualunque mi sarebbe anche piaciuto. Questo l'ho trovato privo della magia, dell'immaginazione, della novità, della vita che accompagnava la prima trilogia. Privo della Forza.
E senza la Forza non c'è storia.

15.12.15

Della falsità e dei circoli viziosi

Oggi ho letto un paio di cose, in pausa pranzo.
La prima era una pagina della nuova politica di Amazon riguardo alle recensioni. Non che le norme fossero poco chiare, da sempre. Eppure dopo il recente scandalo delle recensioni false, pare che il sito abbia cancellato moltissime recensioni a loro parere sospette.

Riguardo alle recensioni su siti, piattaforme varie e blog, sono sempre stata molto critica. Da una parte la facilità con cui chiunque può dire bene o male di un tuo lavoro - semplicemente perché tuo amico o per uno scambio di segnalazioni - la scarsa affidabilità del giudizio di un lettore qualsiasi, la possibilità di farsi in questo modo auto promozione utilizzando profili creati apposta, il potere di un circuito di autori e autrici che si spingono a vicenda - che ovviamente giova solo a chi fa parte del circuito ma che non garantisce la qualità, esattamente come sopra.
Quindi ovvio che io sia sempre diffidente riguardo alle recensioni "non professionali". Non le leggo, non lo faccio né per scegliere le mie letture e nemmeno per gongolarmi o disperarmi nel caso riguardino me. Non ne chiedo, di solito. Chi, tra i miei amici, decide di lasciare traccia su Amazon del suo pensiero è libero di dire quel che pensa.
Allo stesso modo non scrivo recensioni di libri che non ho letto - al massimo ho pubblicato qualche segnalazione su Gazzetta Torino, che è cosa differente - e soprattutto non uso la recensione come mezzo di scambio. Scrivo quello che penso o non scrivo affatto. O insomma questo sarebbe il mio desiderio.
Uno dei motivi per cui non ho più scritto recensioni, però, o ne ho scritte poche, è che stavo cascando anche io nel circolo vizioso del "non si parla mai male di nessuno" e mi sentivo a disagio nel mondo finto zuccheroso di quelli sempre entusiasti del lavoro altrui, perché io non lo sono.
No, io sono una snob. Non mi piacciono tutti. Mi attacco alle virgole, ai nomi improbabili, alle frasi imprecise e ai tempi sbagliati. Ai dettagli che non corrispondono, ai buchi nella trama. Alla noia di una storia già vista e rivista, alla mancanza di editing, di cura, di un editore.
Diciamocelo, il più delle volte non parliamo male di un altro autore solo perché abbiamo paura che ci si ritorca contro, invece di argomentare efficacemente in una recensione - non pagata e non richiesta - esprimendo un giudizio quantomeno "professionale". Insomma, se si vuole scrivere è vero che ci si deve creare un pubblico e di certo è più facile crearselo essendo gentili ma a discapito di cosa?
Leggo da sempre solo i titoli che voglio leggere, non ho mai accettato di fare la recensione a un libro che non avrei letto di mia spontanea volontà e non penso che cambierò il mio modo di fare.
Leggere, per me, continua a essere un piacere - anche se è formativo in ogni senso - e non voglio che diventi un lavoro vero e proprio.
Quindi, appena possibile, riprenderò a scrivere le recensioni con il mio solito piglio critico.

La seconda cosa che ho letto, l'ho letta su una pagina Facebook di autori.
Io non vado forte in auto promozione. Evito il più possibile lo spam, che mi infastidisce anche quando lo subisco. Alcune pagine, purtroppo, sono sempre più luoghi in cui fare pubblicità alla propria opera. Il problema è che ci si fa spam uno con l'altro, ma non ci interessa molto il lavoro degli altri. Per qualche anno ho letto ogni singolo post di promozione, ho seguito i link di quelli che erano quantomeno scritti in italiano, aperto anteprime di quelli la cui sinossi poteva sembrare interessante, acquistato il poco che in effetti mi interessava. Poi ho smesso, per leggere solo le persone che conosco e frequento da un po', per seguire i loro consigli se segnalano qualcosa.
Purtroppo tra "emergenti" c'è questa specie di obbligo a comprarsi e sponsorizzarsi a vicenda. A me piace poco questa abitudine, perché falsa la percezione di chi scrive. Dà un feedback falsamente positivo all'autore e un'idea dei tuoi gusti bizzarra a chi invece legge e segue abitualmente la tua pagina. Ci sono romanzi di amiche che non leggerò mai. Molte mie amiche non leggeranno mai me. E non mi importa che scrivano recensioni o post al sapore di caramello se non piace loro il mio modo di scrivere.
Raramente condivido post che promuovono qualcuno solo per fare un piacere. Perché non lo trovo corretto. Mi importa di promuovere i lavori che trovo interessanti e spero che chi trova interessanti le mie storie abbia voglia di fare altrettanto. Non lo chiedo e non lo faccio su richiesta. Perché, come per le recensioni, non voglio che quello che condivido passi per qualcosa che faccio in cambio di altrettanta"devozione". Non mi importa se così facendo vendo centinaia di copie in meno.
Credo anche che sia controproducente indurre i propri "colleghi" ad acquistare un libro solo per farci un piacere se poi a loro non interessa leggerlo. Penso che ognuno di noi abbia un certo numero di lettori, che ogni libro abbia un determinato pubblico e che non si possano falsare certe cose. Non senza conseguenze.
Ora, è possibile che io sia un po' stronza, ma sentirmi obbligata a condividere la pubblicità di un perfetto sconosciuto altrimenti non verrà fatta a me, non mi piace. Non mi piace affatto. 

7.12.15

La donna che dovremmo essere - Singolare Femminile 2/l'analisi illogica del testo 2bis

(Post doppio a tema unico)
Tutta la sera che mi gira in testa una frase che ho copiato su un post it senza segnare da dove veniva. L'ho riconosciuta subito, in realtà, ma volevo essere certa. Così ho aspettato che il kindolo si ricaricasse e sono andata a cercare la pagina esatta. Devo per forza estrarne altre parti, perché quella frase, anche se significativa, da sola non basta.
Quando ho letto il romanzo di Silvia Longo ne sono rimasta folgorata, per la sua voce, per quel modo sottile ed educato di dirti le cose senza mai eccedere o sparire sotto al peso di una storia che vuole narrare.
Foto: Matteo Malagutti
Quello che ho subito sentito è che il suo modo di raccontare una sola donna, Viola, è in realtà il modo di raccontare noi tutte. Il nostro modo di amare restando spesso un passo indietro. Non rispetto al successo del nostro uomo, indietro nella nostra vita. Come fosse meno importante della sua, o di quella di un figlio. Questo dare incondizionato, che si chiede alla "madre" - che però è madre anche per il compagno, non solo per i figli, ed è madre anche per il padre - che si chiede come fosse naturale, tanto che a un certo punto lo diventa. Questo farsi carico di ogni respiro dell'altro. Adattarsi a tutto per lui. Rinunciare a sé, per lui.
Ecco, credo che questo dare non sia naturale affatto. Credo lo sia in certi casi e in certe alchimie e che in altri contesti diventi una prigione. Gabbia in cui si trova Viola, perfettamente inadeguata all'idea che lei stessa ha di ciò che dovrebbe essere.
Contorto, femminile. Un luogo in cui a noi donne capita di finire senza riuscire a farne a meno. Avere quel ruolo di "madre". Come se il mondo intero volesse questo da noi.
Invece, come capita a Viola, questo ruolo scatena un senso di rabbia e impotenza che è capace di stritolare una vita intera e farle vestire panni non suoi. Fino alla liberazione, che è dolorosa e traumatica, che la priva di un ruolo costruito in anni di limature. Liberazione che Viola stessa desidera segretamente sentendosi in colpa e punendosi con un peso da portare che si fa insostenibile davvero nel momento in cui si trova sola con sé, e con Mauro.
Come un suo doppio, quest'ultimo, un io dialogante che la mette al confronto con tutte le sue contraddizioni di donna "madre" che rivuole per sé il ruolo di donna "femmina" , rimasto nascosto per tutti gli anni in cui ha seguito quella che "doveva" essere la sua strada. Metodica, come l'uomo che ha scelto, Viola ha lavorato per anni al suo stesso smantellamento quando si trova davanti la vita - finalmente - senza rinnegare un solo attimo d'amore ma riconoscendo tutto il non-amore che ha vissuto. Soprattutto nei suoi stessi confronti, riversandolo sulla figura di Federico per poi specchiarcisi.

"Oppure sì, ci amavamo, ma non era il genere di amore che serviva all'altro."

Perché il problema di questa donna che ci siamo cucite addosso è che ci impedisce di essere ciò che siamo. Ci rende succubi, o violente, o represse, o infedeli, o frustrate, depresse, tristi, grasse. Ci fa rifugiare in personaggi di film o libri, illudere che la vita vera sia questa.
Poi qualcosa accade e noi ci risvegliamo, se accade davvero, e non sappiamo più chi siamo. Abbiamo paura perfino di respirare. Ci sentiamo in colpa se ci rendiamo conto di non essere quello che gli altri hanno sempre creduto che fossimo. Ci sentiamo "in difetto" pensando all'amore che abbiamo dato ogni giorno senza che fosse vero amore.
Un amore fatto non solo di non detto, perché a volte anche spiegarsi non basta e a volte nemmeno noi sappiamo che c'è un altro modo di vivere le cose. Un amore fatto di non visto e non vissuto, di non compreso perché in qualche modo dato per scontato. Anche senza volerlo, ed è questo il senso di quel "serviva all'altro". Un amore fatto di gentilezze e regali, ma anche di invisibilità di fronte alle necessità del partner. Invisibilità cui noi spesso ci prestiamo senza porci domande. O facendoci quelle sbagliate.
Perché non è un non-amore, è semplicemente un amore che non fa crescere. Che non fa bene a entrambi, che permette di reiterare gli stessi errori all'infinito e di crogiolarsi nelle proprie paure, illusioni, sicurezze. Un amore comodo, in qualche modo, finché non comincia a stare stretto davvero.

"Alla fine avevo cominciato a immaginare una vita senza di lui, che in qualche modo si concludesse la nostra convivenza. E nello stesso tempo mi sentivo colpevole di desiderare la libertà, la mancanza totale di obblighi, una vita da spendere a piacimento solo con le mie risorse, in base alle mie necessità. Una vita mia, finalmente."

Contorto, femminile. Il romanzo di Silvia è un ritratto che si adatta a ogni donna, ché almeno una volta nella vita ci si ritrova a farsi le stesse domande di Viola. Almeno una. E la risposta è vita, quella che ti sa stupire quando meno te lo aspetti e nei modi meno "comodi". La vita fa sempre un po' male prima di fare bene ed è il confronto con noi stesse, con la realtà, con l'altro-sconosciuto-noi che ci fa crescere e diventare le donne che dovremmo essere e non più quelle che il mondo ha pensato per noi. Donne non incapaci d'amore, ma capaci di amare nel modo giusto.
Capaci di sciogliere nodi interiori portati per secoli. Per vite intere. Capaci di usare il tempo al meglio, di non perdere una battuta. "Il tempo tagliato" non è la storia di Viola che ha perso il marito, né di lei che ha trovato un giovane nuovo amore. Non la storia di una fuga che è tuffo all'interno di un sé. Tutto questo solo per portare Viola a quello che non si è mai permessa di essere.

Quale frase ho trascritto? Quale ho riconosciuto come la voce di Viola e di molte donne?
"Ma c'è una cosa che voglio dirti. Anche senza amore, è per amore che l'ho fatto. Dall'inizio alla fine. Come una missione, per avere un senso. Perché nessuno soffrisse. A parte me."
Ecco, forse dovrebbe essere diverso il senso che ci diamo. Il nostro non è "quel" dare e non è tanto questione di non ricevere in cambio, ma di ricevere la cosa giusta. Per tutte le persone coinvolte. Prima che il tempo finisca senza averlo danzato fino all'ultima nota, l'amore.

19.11.15

Shit happens

Il fatto è che non ci sono cose giuste e cose sbagliate, ci sono solo cose. Cose che ci capitano.

Uno dei miei "difetti", secondo alcuni, è che non combatto mai più di tanto per le cose che vorrei. L'ho fatto una volta, contro tutto e tutti, pensando che ottenere quel risultato mi avrebbe resa felice. Fallire, sebbene sia stata una mia scelta, è stato terribile ma non ho smesso di lottare per paura di un nuovo fallimento. Ho semplicemente cambiato punto di vista.
Capita di desiderare qualcosa che non fa per noi. Ballare come professionista, anche se alcuni dei miei insegnanti erano sicuri che ce l'avrei fatta, non mi avrebbe resa più felice. Provarci mi è servito, anche provarci in modo insensato mi ha dato molto. Ma smettere mi ha dato di più.
La serie di eventi che mi ha portata a rinunciare è lunga e varia. A volte ho semplificato dicendo che ho incontrato le persone sbagliate. Il fatto è che non ci credo nemmeno io.
Credo che ci siano persone con cui si creano delle alchimie particolari, che in certi casi sono positive e in altri sono devastanti. Non necessariamente queste persone sono angeli o mostri. Alcune stimolano la parte migliore di noi, altre semplicemente ci impediscono di crescere, altre ancora ci rendono opachi. Tolgono vita, anche senza volerlo. Anche per troppo amore, in un certo senso.
Quello che credo riguardo alle persone lo credo anche riguardo alle cose che mi succedono. Ho cominciato a credere nei segnali.

Perché spesso la vita fa scherzi nonostante tutti i nostri tentativi di programmarla al meglio.
Un po' come quando in tangenziale ti rendi conto che quel puntino rosso che si avvicina è un'auto contro mano. Se te ne accorgi in tempo, se non stai sorpassando un tir, se, se se... magari te la cavi e vai in giro a raccontarla. Altrimenti è possibile che qualcuno sia più fortunato di te e possa raccontarlo al posto tuo.

Così, se vedo che una cosa non va a buon fine la prima, poi la seconda e la terza volta, allora spesso lascio perdere o investo meno energie nel portarla a termine. Senza rimpianti.
Da quando mi regolo in questo modo sto molto meglio. So che non sono il centro dell'universo, so che non ho il controllo su tutto e so che certe volte le cose vanno naturalmente nel modo giusto per noi. Forse non lo sembra, forse non è quello che volevamo, forse semplicemente avevamo in testa la cosa sbagliata per noi.


(la storia di Vittorio va in questa direzione)

8.11.15

Pirati

Prendo spunto da due articoli letti in questo periodo sui social. E da qualche considerazione che nel tempo ho trovato qui e là.
Questa settimana è uscito un post riguardo alla pirateria degli ebook in cui sostanzialmente si incolpano le politiche editoriali italiane dell'esistenza del download pirata. Ci sono alcune cose che in quanto lettrice non comprendo, in fatto di scelte di formati, distribuzione e costo dei libri. Ho acquistato un e-reader anche per risparmiare un po', non solo come spazio. Certo non voglio sminuire il valore delle opere, ma è vero che alcuni e-book hanno un prezzo che non riesco a giustificare. Ed è vero che alcuni e-book escono molto in ritardo rispetto alla versione cartacea, forse per spingere all'acquisto della versione "tangibile" dell'opera. Credo che queste siano mosse non proprio geniali, ma che siano altresì ininfluenti per quel che riguarda la pirateria.

Faccio un passo indietro e mi ricollego al fenomeno della pirateria in ambito musicale e in seguito quella cinematografica. Come per i libri, spesso il prezzo di un dvd o di un cofanetto e di un cd hanno reso impossibile per un appassionato l'acquisto di ogni titolo desiderato. Questo anche e soprattutto perché alla lunga si è compreso che i supporti fisici (cd e dvd) costano pochissimo rispetto a quanto vengono pagati dal consumatore e i diritti d'autore sono una minima parte del problema. I musicisti di professione sanno bene che pur vendendo un buon numero di copie non guadagneranno abbastanza e che la vera fonte di guadagno sono i concerti e le apparizioni live. I casi da milioni di copie sono pochi e la situazione è analoga nel mondo della scrittura.
Sebbene sia vero che da una parte il prezzo dei cd musicali sia elevato questo non basta a giustificare l'abitudine del download gratuito anche perché e le copie digitali sono più a buon mercato, quindi niente ci impedisce di acquistare quelle. Credo sia più realistico dire che ci piace rubare soprattutto se riteniamo di essere presi in giro da chi ci sta vendendo un prodotto. Invece di limitare il consumo aggiriamo il problema. (In fondo, il non capire bene le percentuali di guadagno reale dell'artista, del suo "editore", del distributore, del negoziante etc. ci fa apparire qualsiasi prezzo sproporzionato.)
Con la musica mi è capitato, certo, sono umana. La questione è che - e qui mi riallaccio al secondo articolo che ho letto e che non ritrovo - molta della musica che ho scaricato non l'ho mai ascoltata. Soprattutto ora che ho a disposizione YouTube e che in qualsiasi momento, da smartphone o portatile, posso cercare il brano che ho in mente e ascoltarlo pur non "possedendolo". Pare infatti che ci siano dati che confermano che spesso non diamo il giusto valore a ciò che non paghiamo. Motivo per cui molti artisti in diversi campi sono uniti nel tentativo di far comprendere che lavorare gratuitamente non fa che far passare l'idea che l'arte non "valga" e che quindi sia giusto non pagare.
In un mondo ideale, a mio parere, l'arte dovrebbe essere alla portata di tutti ma ci dovrebbe essere la cultura sufficiente a comprenderne il valore. Quindi, avendo anche da capire chi siano in effetti gli artisti (quanti ne hanno il titolo non sempre lo sono e molti che pensano di esserlo quel titolo non lo avranno mai), vivendo in un mondo imperfetto, tocca pagare per usufruire di qualsivoglia forma d'arte - che a volte si riduce a sorbirsi della pubblicità - ma si può anche scegliere.
Ha davvero senso avere tutto? Possedere tutto?
Io faccio una selezione, punto. Ci sono libri che vorrei leggere: se non posso acquistare il titolo alla sua uscita, per qualsiasi motivo, lo metto in una whishlist. Può essere che mi arrivi per Natale, o per il mio compleanno. O per sfizio. Può essere che non mi arrivi e che me lo compri quando posso.
O che semplicemente non li acquisti. Ma non vedo perché rubarli, visto che sono oggetti/opere a cui tengo. Gli autori che amo e seguo di più cerco di averli in cartaceo, quelli meno importanti e quelli di cui non sono "sicura" li prendo in e-book. Magari un anno o due dopo l'uscita.
Con i film il discorso è analogo e a fare la differenza sono i contenuti extra e la qualità. Che non è poco.
In definitiva io non credo che ci sia un motivo legato alla politica editoriale sbagliata, ma sostanzialmente che si scarichi illegalmente per puro piacere e che non sia nemmeno una questione di avere subito un qualcosa che si desidera: lo si fa perché si può. Ma si può scegliere diversamente.

25.10.15

Quello che le donne non dicono - Singolare femminile 1

Vorrei iniziare una serie di riflessioni sull'universo femminile che conosco, le relazioni e le nostre educazioni - sentimentali e non - al mondo.
Probabilmente finirò col generalizzare, probabilmente sbaglierò le mie valutazioni, probabilmente io non capisco niente di donne essendo coinvolta. Però è tanto tempo che penso alla nostra dimensione, al posto che non abbiamo raggiunto, alla condizione in cui qui e altrove nel mondo ci troviamo.

Prima o poi si sbaglia qualcosa, nelle relazioni. Con tutta la buona volontà, senza dubbio.
Certo, la prima insidia in ogni cosa che facciamo è l'aspettativa. Qualsiasi cosa pensiamo, è quasi impossibile non averne una e una precisa. Insieme a mille altri dettagli, ci aspettiamo dagli altri che ci comprendano con uno sguardo. Succede, a volte.
Raramente abbiamo un comportamento tale da permettere a chi ci interessa di capire esattamente cosa abbiamo nella testa. Il più delle volte non lo sappiamo nemmeno noi, quindi diciamo una cosa e ne facciamo un'altra. O pensiamo che una qualsivoglia strategia sia utile a conquistare un cuore.
Bene, io non credo nelle strategie. Un po' come i filtri d'amore in magia, magari funzionano per un po' ma sono risultati fasulli.
Credo invece che a fregarci sia spesso la mancanza di chiarezza. Tra amiche siamo abituate a chiederci spiegazioni approfondite, ma non siamo capaci di darne a una persona che ci interessa. Innanzitutto perché temiamo un rifiuto.
Pensate a quanto è divertente farsi ridere in faccia da un ragazzo con cui volete una relazione seria mentre gli dite cosa provate per lui davvero. A me è successo - comunque poi ci siamo frequentati per dodici anni - e sono ancora viva. Come inizio non è stato una favola, ovvio, però è stato subito chiaro che non potevo aspettarmi molto più di quanto avessi già da quella relazione.
Tutte le volte che non ho detto chiaramente cosa volevo, uno dei due ci è rimasto male.
Aspettative, dicevo.
Ognuno ha le sue. Ognuno si crea il suo film e se non si chiariscono le cose di volta in volta è difficile uscirne intatte o arricchite.
Diciamo che per quanto ne so io a noi donne capita spesso, in una relazione, di non essere chiare. Di non dire quello che sentiamo, quello che vogliamo. Per paura del rifiuto, per il timore di urtare o allontanare qualcuno, per non sembrare poco serie, poco disponibili, poco femminili. Siamo abituate a dover essere gentili, educate, "materne", comprensive. Remissive, indecise e delicate. Ci raccontiamo qualsiasi favola pur di restare nel ruolo che ci è stato affibbiato, mentiamo a noi stesse e agli altri. E una volta che si è iniziato a mentire non c'è modo di tornare indietro senza mandare tutto a "scatafascio". Cosa può pensare un altro di noi se a un certo punto ci trasformiamo in un'estranea? Una che non pensa le cose che dice, che vuole una cosa e ne chiede un'altra, che da un momento all'altro - magari dopo il matrimonio - si rivela completamente diversa dalla donna che sembrava. Non è una garanzia di funzionamento della relazione, ma noi no, continuiamo a non essere chiare.
Poi, per carità, ci sono persone a cui parli chiaramente da una vita e non capiscono che stai dicendo proprio quello, come il fidanzato che tenti di scaricare in ogni modo gentile che pensa che tu stia attuando chissà quale strategia per legarlo ancora di più, ma gli idioti si incontrano - e ce ne sono tanti in giro, convinti che tu, donna, non possa fare a meno di loro. Questa, però, è un'altra storia.
Il fatto è che poi ci troviamo tra noi a dirci "ma come ha fatto a non capire?" quando siamo state noi a dare per scontato che lui capisse tutto di noi all'istante. Ribadisco: succede, ma è rarissimo. Il più delle volte tocca spiegare chi siamo e farlo più di una volta. Pezzo per pezzo, mano a mano che la relazione va avanti. Perché si cresce, perché si capisce, perché si desidera, ma non ci si può "aspettare" che le stesse cose scattino allo stesso momento o che chi ci è vicino comprenda dal nostro modo di riporre i cibi nel frigo o dallo sbattere gli sportelli della cucina, o dalle unghie rosicchiate più del solito che siamo a dieta.

21.10.15

Piccole, costanti, belle

Le soddisfazioni arrivano, centellinate e mai esattamente come una esplosione di fuochi d'artificio, ma arrivano.
Stamattina la prima mail della mia amica ed editor Natascia Cortesi, che mi sta aiutando a rivedere il mio ormai noto "fantahorror" troppo complesso e lungo per metterci le mani da sola, che sta procedendo con la seconda lettura ed è entusiasta di come abbiamo lavorato. La parola esatta per i primi capitoli è "figata", ma le magagne - se ne trova, perché io ne vedo ovunque - vengono più avanti: tanti personaggi, tanti dettagli, trama movimentata. Diciamo che in ogni caso almeno questo oggi mi rende felice. Domani chissà...

17.10.15

Sorpresa!


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15.10.15

Di avere, essere e altre storie

Negli spizzichi di tempo che mi restavano tra una cosa e l'altra, ieri sono incappata in un articolo di Internazionale riguardo agli e-book di Amazon.
Avendo pubblicato un romanzo e due racconti in formato digitale è ovvio che la questione trattata mi tocca personalmente sia come autrice che come lettrice - visto che posseggo un Kindle e che regolarmente acquisto e-book proprio da Amazon.
La questione è duplice. Da una parte, l'autrice dell'articolo si domanda cosa succederebbe se improvvisamente Amazon fallisse - cosa che migliaia di librai auspicano, tra l'altro - visto che quello che noi "acquistiamo" ha un formato particolare (il .mobi) vincolato all'e-reader, quindi ad Amazon. Partendo dall'abitudine recente dei consumatori a servirsi dello streaming per i film e del digitale scaricato da I-Tunes nel caso della musica, si arriva al libro e al mutamento culturale in atto, che ci porta a rinunciare al supporto fisico in favore di un utilizzo più comodo e veloce ma meno "sicuro".
Quello che noi consideriamo acquisto, in realtà oggi si riduce a un noleggio a lungo termine che potrebbe terminare non appena il fornitore dovesse fallire, o cambiare le condizioni di vendita. Il digitale, programmi per pc compresi, in qualche modo non ci appartiene mai, anche se siamo convinti di averlo comprato.
Quindi il concetto di acquisto, se parliamo di beni digitali, andrebbe rivisto.
"Qualunque cosa sia conservata in un server situato da qualche parte del pianeta è effimera." Dobbiamo farci i conti. Immediatamente disponibile, comoda da fruire, ma effimera. Potrebbe sparire da un momento all'altro. Eppure questo è in qualche modo il futuro.
Alla fine dell'articolo si ipotizza addirittura la perdita di una grande quantità di contenuti: "Agli inizi del ventiduesimo secolo ci troveremo di fronte a enormi lacune di sapere e cultura, perché nessuna di queste aziende esisterà più." Il rischio è quello. Posto che Tutto il sapere e tutta la cultura siano in mano a quelle aziende. Posto che qualsiasi film e qualsiasi libro o brano musicale siano cultura. Posto che qualsiasi altro supporto sia meno effimero. Perché poi, se ben ci pensiamo, anche la carta si distrugge - come il vinile, la pellicola, la materia.
Una delle mie considerazioni subito dopo la lettura è stata appunto che non necessariamente ciò che viene prodotto dalla creatività umana è cultura o sapere. Se prendiamo la musica come esempio non potrei mai mettere sullo stesso piano Dvorak e Giusy Ferreri - senza pensare tanto a uno o all'altro, avrei potuto dire Gerswin e Biagio Antonacci o Vivaldi e Rihanna - e per quanto perdere definitivamente una traccia dei tempi quale può essere un brano musicale sarebbe comunque brutto, certo non avrei dubbi su quale dei due sia "cultura" o "sapere".
Lo stesso si può dire per quel che riguarda film e libri. Di certo con l'avvento del self publishing - di cui la stessa Amazon è "colpevole" - ci troviamo di fronte a migliaia (no, centinaia di migliaia tra una cosa e l'altra, voglio fare la snob) di titoli che di certo non sono "cultura" ma solo specchio del tempo.
Diciamo che buona parte di ciò che si produce e vende attualmente è un bene di consumo che ha lo scopo di divertirci. Credo che per preservare cultura e sapere non sia necessario semplicemente avere un supporto fisico, ma occorra trasmettere con istruzione ed educazione sia la cultura che il sapere.
Qualche anno fa scrivevo qui (con seguito qui) a proposito del cambiamento del nostro modo di "ricevere" dovuto al passaggio da oralità a scrittura e ora a immagine. Siamo di certo in un momento di passaggio tra la scrittura e l'immagine, il che ci farà perdere sicuramente parte di ciò che eravamo e che siamo stati, ma aprirà comunque nuove prospettive. La paura del cambiamento è ovvia e naturale, ma dare a un supporto più valore di quanto ne possa avere la mente umana è stupido.
Se perdiamo qualcosa, sovente è a causa della disattenzione che mettiamo nella vita e nelle cose che facciamo. Ma ne impariamo molte e molto più in fretta al giorno d'oggi, anche se non affidiamo più alla memoria la custodia di quei dati (le poesie, alle elementari e alle medie, che nostalgia...) e abbiamo un mondo di informazioni, di cultura e di sapere a disposizione quasi immediata. Il problema forse sta nel non saperle raggiungere, alcune cose che sono così vicine.
La seconda considerazione, forse meno intellettuale, è che sapendo scegliere che cosa per noi è importante possiamo evitare di riempirci di roba inutile.
Attualmente vivo in una mansarda di 67 metri quadri. Un open space privo di pareti e, appunto, mansardato. Ci arrivo da un alloggio normale di 100, pieno di pareti, in cui avevo ammucchiato l'inverosimile. Cose che mi trascinavo dietro da decenni e che mi riempivano casa togliendomi l'aria e obbligandomi a una cura che non avevo più voglia di riservare a oggetti ma che volevo rivolgere a me. Film, musica e libri, anche. Il drastico restringimento di spazio mi ha costretta a eliminare gran parte di queste "cose", non senza una certa difficoltà, e al valutare bene quanto portare dentro alla casa nuova. Sì, ho eliminato una parete intera di libri (portandomene dietro ancora parecchi) e non mi dispiace. Da allora la maggior parte dei libri che acquisto sono in formato digitale, ascolto la musica da youtube e alla radio - non ho nemmeno caricato I-Tunes sul pc e l'I-Pod sarebbe da buttare - vedo i film in tv o li noleggio. Quando vale la pena di tenere qualcosa lo acquisto in un formato differente: libri cartacei e dvd, principalmente. Il resto lo "utilizzo" e lo lascio lì, se anche sparisse probabilmente non ne sentirei la mancanza. Perché tendo a ricordare a lungo ciò che leggo o ascolto - merito della mia memoria, anche se invecchiando non ho più a mente l'elenco esatto dei film che posseggo con tanto di posizione nello scaffale uno per uno e a volte devo pure cercare i libri perché non ricordo dove li ho sistemati - e quando una cosa mi entra nel cuore difficilmente se ne va. La mancanza di spazio e la necessità di leggerezza mi hanno fatto bene, in generale.
Quello che voglio dire è: "abbiamo veramente bisogno di avere tutto quello che c'è a disposizione?"
Non è che questa necessità di accumulare sia indotta da una società che impone un certo modo di vivere? Avere e non condividere, avere e non usufruire liberamente senza accatastare oggetti e devastare foreste, inquinare con rifiuti, alimentare una catena che così non fa che disumanizzarci. Noi non siamo ciò che abbiamo, siamo ciò che abbiamo dentro ed è diverso. Siamo quello che diventiamo quando qualcosa ci arricchisce, ma non è detto che tenerlo chiuso in casa ci arricchisca di più. 

7.10.15

Scelte

Si chiacchierava qualche giorno fa con il mio contatto qui sul pianeta: Cristiana.
Se per caso rischiassi di cominciare a tirarmela, lei sarebbe lì a sfancularmi talmente tanto che proverei vergogna di me e tornerei ad abbassare la cresta, quindi ogni tanto - se non ha i nipotini o una biblioteca, o lo sbarco degli alieni a Trento - mi faccio dare una pettinata giusto per capire se sono ancora sana. Ok, la prima volta che mi ha telefonato - pure per sbaglio - mi ha detto che il mio romanzo sembra un diario: senza trama e assai confuso. Ha aggiunto che è scritto bene e che - una volta compreso che l'intento nello scriverlo era giusto quello di farlo sembrare un diario, senza colpi di scena e con un solo morto - tutto sommato non era male. Siccome non mi sono offesa, anzi, ho trovato meraviglioso conoscerla così, senza quel timore che noi scrittori abbiamo tra noi a dirci che quel che scriviamo è una ciofeca, da quel momento l'ho adottata come sistema anti-cazzata. Non quelle grosse, quelle le faccio sempre e comunque o mi manca il sale della vita; giusto quelle da scrittore. 
Dunque dicevo che qualche giorno fa chiacchieravo con lei. Di recensioni farlocche, di case editrici farlocche, di autrici farlocche e del nostro essere per un "brevissimo" suo e per buona parte della mia produzione nella stessa scuderia. Che continua a essere la mia casa editrice, anche se in mille mi dicono che per avere un editore piccolo tanto vale auto-pubblicarsi.
Non so, a me la cosa dell'auto-pubblicazione pare poco adatta alle mie corde. Non penso di poter fare editing, bozze, impaginazione, copertina e marketing scrivendo al contempo altra "roba". Non sono brava in tutto, preferisco che a occuparsi di buona parte di questi aspetti sia un professionista. Questo come base. Sul perché abbia scelto Lettere Animate posso dire che soprattutto è perché mi trattano bene: rispondono rapidamente, sono disponibili quasi 24 ore su 24, pagano, mi forniscono un report mensile delle vendite e dei miei lauti guadagni, mi mandano una newsletter settimanale con progetti e trucchi di cui non approfitto granché.
Certo, è un editore digitale con la possibilità del cartaceo su ordinazione. Non sarò mai in libreria con il mio romanzo (i miei,prossimamente), non avrò una pubblicità enorme, non fanno editing - questa è una delle cose che più mi pesa - e della casa editrice si parla male a volontà. Certo, mi piacerebbe che ci fosse una maggiore selezione, ma non è che altrove funzioni meglio. 
Ho comunque una percentuale maggiore che con qualsiasi contratto abbia mai letto, non mi chiedono di cedere i diritti per duemila anni e sono libera di presentare i miei prossimi lavori a chi voglio. Nessuna penale, nessun limite, tanta cortesia.
La concorrenza resta tanta, ormai non c'è grossa differenza tra i "prodotti" dei big e quelli delle piccole realtà. Ci sono speranze e prospettive differenti. Tanto vale provarci...

1.10.15

Mi piace

Oggi mi è capitato che una persona mi chiedesse "come gestisci le variabili impazzite di chi/cosa ti sta intorno?", ovvero come faccio a scrivere non facendo solamente la scrittrice.
Diciamo che mi piace farlo e che questa è già una motivazione sufficiente ad affrontare molti degli inconvenienti di avere un hobby - o più di uno - e gestirlo insieme a tutto il resto. Perché non è che uno abbia sempre voglia, soprattutto se scrive pensando a una possibile pubblicazione.
Scrivere non è mai stato un problema, scrivo spesso, scrivo tanto e mi piace pensare di farlo abbastanza bene da essere letta - poi c'è sempre spazio per migliorare, ovvio - ma farlo in modo "professionale" è tutt'altra cosa dal tenere anche solo in piedi un blog postando qualcosa ogni tanto. 
Da una parte c'è la fortuna che non vieni pubblicato immediatamente ogni volta che termini un lavoro. Dico la fortuna perché secondo me c'è bisogno di tempo per distaccarsi dal proprio lavoro e non rimanerci aggrappati dopo la pubblicazione, fare altro e meglio. Questa "differita" tra una fase e l'altra della vita del romanzo permette anche di rileggerlo senza averne il disgusto quando si tratterà di approvare le bozze o l'editing, di non affezionarsi troppo alle proprie parole -e per questo niente è meglio di avere parole nuove in mente - di lasciare che ogni lettore lo interpreti un po' come gli pare.
Questa distanza, poi, ti permette di lavorare a più progetti contemporaneamente - il che a mio avviso mi salva, essendo io una che si annoia facilmente - in diverse fasi. 
Mettiamo il mio caso: a fine agosto ho firmato due contratti per altrettanti romanzi da pubblicare entro sei mesi. Non solo, ma aspettavo contemporaneamente le bozze dello spin off su Vittorio da approvare e sto affrontando l'editing, insieme a una professionista, di un altro romanzo - e ho messo in pausa la scrittura dell'ennesimo perché ho i miei limiti pure io. Quindi mi sono trovata a: 1) rivedere la versione definitiva del prossimo romanzo in modo che l'editore possa impaginare, sistemare e scegliere la copertina; 2) rileggere e approvare le quindici pagine di Vittorio, 3) riaprire il file del secondo romanzo in pubblicazione e decidere dove e come apportare modifiche, 4) approvare o discutere le (fortunatamente) poche correzioni della mia amica editor e 5) scrivere un racconto horror per un'antologia promozionale del mio editore. Più la vita.
Come faccio? Non gestisco con mania di controllo e lavoro a seconda dell'urgenza richiesta. 
La sera, la notte, nei weekend, quando posso. A seconda delle scadenze cha mano a mano cambiano, io lavoro. E appena posso aggiungo materiale ai progetti nuovi, pian piano li porto avanti e li termino, e intanto torno sul lavoro vecchio, in un modo o nell'altro.
C'è da dire che tra la pubblicazione delle poesie nel 2009 e quella de "Gli attimi in cui Dio è musica"  sono passati cinque anni. In questo tempo ho terminato altri due romanzi, anche se uno per me è da riscrivere. Dal febbraio 2014, quando è uscito "Gli Attimi..." , ho terminato un terzo romanzo, più quello che sto ampliando e che pubblicheranno presto e pubblicato anche due racconti - ma ne ho scritti di più - iniziando pure un ennesimo romanzo che è a buon punto. Questo, lavorando fuori casa 5 giorni a settimana per 10 ore al giorno, avendo un marito e delle bestiole, una casa, degli amici, degli hobby.
Come faccio? Mi piace.
Non c'è altra spiegazione. Infatti sono qui, è quasi l'una di notte e sto scrivendo.

16.9.15

Eccolo, è gratis ed è brevissimo...

Vittorio:

Lo trovate qui: Amazon
e, credo ovunque sul web, ovviamente in versione digitale.
Ricordate che gli ebook si possono leggere su reader, pc, portatili, tablet e cellulari. Non c'è scusa che tenga.

13.9.15

Iniziamo

La prima cosa che dovrebbe capitare in questo mese è l'uscita dello spin-off gratuito de "Gli attimi in cui Dio è musica" che riguarda Vittorio, l'amico del cuore della protagonista.
L'utilità degli spin off è una cosa che devo ancora testare, soprattutto visto che "Gli attimi..." è un romanzo poco commerciale e molto, molto personale. Lo scopo è sia far conoscere il romanzo a chi non l'ha letto che dare qualche particolare in più sul mondo creato (o ricreato) e sui suoi personaggi.
Si tratta di un esperimento lanciato dal mio editore, Lettere Animate, che per altri romanzi di vario genere ha funzionato e che in ogni caso mi permette di approfondire aspetti della storia che non serviva spiegare nel romanzo. Ho iniziato da Vittorio perché è quello che tra le persone che hanno letto il libro (si può dire libro anche per e-book) ha attirato le maggiori simpatie. Da parte delle "ragazze" perché speravano che ci fosse per lui una minima opportunità, questo è sicuro. E in fondo credo che se la meritasse, quell'occasione, pur non avendola mai avuta.
Stavo meditando, tempo fa, sul fatto che ci sono voluti cinque anni per pubblicare il romanzo - che è già fuori da un anno e mezzo - e che in questi anni tutto è molto cambiato. Anche il mio modo di scrivere; per questo, tornare a occuparmi di questi personaggi è stata anche un'opportunità per utilizzare un tipo di scrittura che non uso spesso. La storia di Vittorio è scritta in terza persona al presente, perché "Gli attimi..." è raccontato in un presente quasi ossessivo. Non sono più di una decina di pagine, diciamo che si tratta di un attimo in cui Dio è musica anche per lui.
Se questo spin off dovesse funzionare potrei anche scriverne un altro su Ginny o una delle compagne del corso di danza. Potrebbe essere interessante, credo, anche se ho iniziato da tempo quello che è il seguito ideale del romanzo, che tratta della vita di Clara - sì, la protagonista ha un nome - al di fuori della danza. Diciamo la sua "educazione sentimentale", che spiega molto di ciò che è stata e ciò che diventerà in seguito. Perché, come era chiaro già dall'inizio, la sua vita è stata sempre divisa tra sogni e realtà e la sua parte vera non è mai stata semplice. Ma questa è un'altra storia.
In questi tempi in cui tutto va rapidamente consumandosi, l'idea di "rinnovare" un romanzo che ha già più di un anno - quando la permanenza sugli scaffali delle librerie, ad arrivarci, è in media minore del mese - mi sembra buona. Non solo per chi potrebbe incontrare un romanzo che non ha notato nella marea di uscite, ovviamente l'idea di vendere qualche copia in più non mi fa schifo, ma anche per chi lo ha apprezzato ed è rimasto colpito da un particolare o un personaggio e ha voglia di tornare là. "Gli attimi..." ha venduto, in qualche modo. Non è un best seller e non ha certo delle grandi pretese, come non ne hanno i prossimi lavori.
A me piace raccontare storie. Questo lo sapete già...
Vi terrò informati, attendo con ansia anche io l'arrivo di questo piccolino. Non mi darà un centesimo, ma è una grande soddisfazione parlare di Vittorio, lo è sempre stato. Questa è la sua occasione.

29.8.15

Si ricomincia col botto

Forse è vero, mi sono lamentata un poco del fatto che le cose si muovessero a rilento.
Le soddisfazioni tardavano e, anche se sono abbastanza sicura di ciò che mando in giro e non mi aspettavo una risposta tempestiva - per pubblicare "Gli attimi in cui Dio è musica" ci sono voluti 5 anni, un Calvino e tanta pazienza - cominciavo a dare segni di insofferenza.
"Sette stanze" è pronto da  due anni, è arrivato in finale al Premio Marcelli, ha avuto una buona media e qualche lamentela al Torneo IoScrittore - il che di solito è garanzia di successo, se non piace a loro vuol dire che è abbastanza interessante - non è piaciuto al Neri Pozza (troppo rosa) ma sono sicura che sia un buon lavoro. Eppure non piaceva. Non piaceva il suo protagonista, forse non piaceva il modo in cui io lo presentavo.
Ma ora ha trovato casa, e con lui un altro dei miei romanzi ambientato in India. Entrambi sono stati accettati dallo stesso editore che mi ha pubblicata finora. Una scelta particolare, la mia. Lettere Animate è un editore piccolo e combattivo. Ha dei difetti, certo, ma anche una buona dose di qualità ed è per questo che non ho avuto dubbi a firmare un'altra volta con loro.
Per cui, una volta terminata l'ennesima rilettura del testo, "Sette stanze" è in arrivo con il suo odiosissimo protagonista e la sua vita da rifare.
A ruota seguirà "Addio a Bodhgaya", romanzo breve più o meno come "Gli attimi..." ma di tutt'altro genere - quale genere ancora non so (io fatico a definirli, di solito) ma appena sarà chiaro lo saprete - con una giovane protagonista in viaggio per andare avanti.
Come probabilmente già avete capito a me piace parlare di cambiamenti. E ne parlerò ancora. La revisione del super-mega-fanta romanzo da trecentoventi pagine procede in modo soddisfacente, ho quasi finito il seguito de "La caccia" e ho un romanzo a buon punto, uno da riscrivere e progetti a non finire e mi ci voleva solo il la...
Ora sono tutti fatti vostri ;)

27.8.15

La grazia delle parole.

Un aspirante e giovane scrittore domanda ai suoi "colleghi" se trovano più disturbante scrivere di un omicidio - in modo dettagliato e crudo - o di uno stupro e ne esce una discussione fiume che continua tra un insulto e un altro.
Da una parte è normale, non mi aspetto mai molto di diverso dagli scrittori. Siamo bestie strane. Non so se si tratta di insicurezza o di presunzione - spesso una maschera l'altra, come la falsa modestia di cui ogni tanto pecco pure io - ma la continua richiesta di conferme per poi non accettare le critiche è la cosa che più mi disturba nell'atteggiamento generale.

Veniamo al caso in questione. A parte il fatto che il giovane autore si chiedeva se lo scrivere di queste azioni orribili facesse automaticamente considerare lo scrittore come un serial killer o uno stupratore abituale, cosa che non dovrebbe nemmeno sfiorare la sua mente creativa. A parte alcuni commenti scritti in un italiano molto più creativo del pensabile -o forse abbastanza lontano dall'italiano che conosco e che mi hanno insegnato scuola e libri - compresa la posizione delle virgole, la quantità di puntini di sospensione e k sparse ad minchiam. A parte la mia personale idea sulla domanda che andrò a esporre tra poco, ecco che compare immancabile un altro autore con il suo esempio, postato come commento. Da qui la rivoluzione. Fine del post costruttivo su cosa è lecito, bello, morale scrivere quando si vuole raccontare qualcosa.

Qualche tempo fa, partecipando a un contest di cazzeggio di mini racconti con tema "Lettera da..." ho scritto questo brano:
[una lettera dall'] Inferno
 Lo senti? È sempre la mia pelle che ti cerca.
Anche adesso la mia mano cerca di sfiorarti il volto mentre mi insulti, mi sputi addosso e mi prendi a ceffoni; ora che il tuo peso mi schiaccia al suolo e mi toglie il fiato, i miei occhi ancora si voltano in cerca dei tuoi. In questo momento, mentre la minaccia si fa concreta, mi viene in mente il primo bacio scambiato in uno squallido hotel. La tua bocca e il sapore intenso, lo sguardo feroce, quello che ci ha resi complici fin qui.
Non è amore, forse? Oh, io sono certa che lo sia. Se non mi meritassi ogni tuo schiaffo potrei dubitare ma sono io che sbaglio, che sono lercia e impura: la puttana sono io e tu hai ragione. Non mi punirai mai abbastanza per ripulirmi da questa natura. E se mi dici che ho sbagliato, che ho tradito con uno sguardo e che non sono cambiata in questi anni è probabile che tu sia nel giusto.
La mia pelle brucia, il viso sbattuto al suolo e il sangue che si appiccica a terra eppure morirei per un tuo bacio. Sono tua.

Perché?  Perché l'immagine che mi è venuta in mente era quella. Qualcosa che non poteva essere scritto se non con la mente e che in mezzo agli altri racconti politically correct ha dato parecchio fastidio. Una sola parolaccia, ma se fosse stato utile ne avrei scritte altre. Un tema violento e scomodo come a volte può essere l'amore malato. La complicità tra vittima e carnefice, anche. Per qualcuno questo brano non faceva un favore alle donne, ci voleva un finale con morale, che facesse capire che quello non era il modo giusto di concepire l'amore, posto che ce ne sia uno universalmente applicato e applicabile. Ma da un punto di vista formale, come spesso mi capita, niente da eccepire. (Poi conosco editor che mi bacchetterebbero comunque, perché ogni testo si può pulire, limare,ripulire, ri-limare e via all'infinito posto che a me interessi un testo perfetto).
Altre volte ho scritto brani smielati, altri più ironici, altri macabri. Senza mai pormi il problema di cosa fosse narrabile e cosa no. In quale forma, sotto quale punto di vista, con o senza morale. Io non lo faccio mai. 
Quello che a me importa è raccontare la storia che ho in mente come va raccontata, senza nascondermi o nascondere ad altri quello che c'è nella storia. E, oltre al resto, senza diventare più mostro di quello che sono. Poi penso a Stephen King, a John Connolly, agli autori di thriller e horror che leggo e che mai ho pensato essere molto più che normalissimi esseri umani. Quindi, bando alle paranoie, quello che penso è che una storia vada raccontata comunque nel suo modo. Se è cruda non importa, ogni aspetto della vita si può raccontare per quello che è. Cosa sia peggio tra stupro e omicidio - inteso come scrivere di - non saprei. Cosa è più difficile, sempre, è scegliere il punto di vista migliore per raccontare ciò che si vuole raccontare, ma se sei fortunato viene da sé. L'importante è che sia scritto bene. Non perfetto, ma bene.
Volevo parlare di questo, in realtà. Dello scrivere bene. Che poi è sicuramente molto soggettivo, ma c'è un fondo che potrebbe essere comune. O che forse dovrebbe.  O non lo so, fa lo stesso.
Dicevo dell'autore che ha postato in un commento un suo brano. Nel suo caso specifico non è la prima volta che lo fa e non è la prima volta che dopo le prime tre righe smetto di leggere in modo continuativo, saltando qua e là per capire il senso generale senza fermarmi  alle singole frasi. Come me anche altri, per altri motivi. Il più "gettonato" era la volgarità dei termini usati per descrivere uno stupro/incesto ai danni di una minore. Perché è già un tema terribile, perché non c'è bisogno di usare parole volgari per raccontarlo e che ha infastidito più di un partecipante alla discussione. 
Al di là del gusto personale, che può farmi apprezzare o meno un genere, non sono le volgarità che mi turbano. Non mi fa schifo il "porno", le parolacce usate nel momento e nel modo giusto non mi turbano. 
L'autore in questione, però, le usa in modo compulsivo (e mi viene da dire "convulsivo" a forza di sentire autori e lettori che lo dicono convinti) e con una punteggiatura che francamente mi lascia perplessa. No, mento. La trovo illeggibile. Tra ripetizioni, punteggiatura e lo stile dell'autore io non riesco proprio a trovare lo spunto per leggere nemmeno i brevi spezzoni che inserisce spesso e volentieri per pubblicizzare i suoi lavori. Romanzi pubblicati come erotici, quando io non trovo nulla di erotico nelle frasi che leggo. Nemmeno drammatici, o che altro vi si voglia trovare. 
Ora sì, può darsi che io sia diventata una "grammar nazi". Può darsi che io sia una stronza presuntuosa che pensa di scrivere meglio di altri. Può darsi che io valuti in modo soggettivo ciò che gli altri scrivono. Lo facciamo un po' tutti. Ma la punteggiatura farlocca e le ripetizioni, che siano in un erotico o in uno storico mi danno sui nervi. Editing. Leggere e scrivere. Leggere di tutto, leggere cose belle e schifezze immonde. Certo, lo stile è personale e in questo caso non mi piace. 
Io credo che le storie vadano raccontate, che ogni storia abbia un suo linguaggio, che abbia il suo stile, una sua voce. Credo non ci siano limiti di argomento, di uso di un linguaggio anche volgare, di crudezza o di dolcezza. Credo però che ci sia una bellezza nelle parole che va sempre rispettata, nel suo ritmo, nel suo scorrere, nel suono che ne esce se si legge ad alta voce. Che non ci sia rabbia che non possa essere raccontata con una "grazia" capace di trasmettere il messaggio e di farlo rimanere, non rifiutare a priori.
Credo che questa sia la ricerca che voglio fare.

19.8.15

Meditabonda e inquieta as usual

L'altro giorno camminavo in via Garibaldi accanto a una libreria lunghissima e tutta vetrine.
Guardavo dentro e tutta qualla massa di libri mi ha quasi stordita. Ci passo spesso e spesso entro, cammino su e giù cercando un titolo o un suggerimento, compro. Spesso ci giro a vuoto perché con tutti quei titoli, tutte le pile di libri, tutte le pareti piene di coste da leggere... beh, a volte è troppo e io quando sono sovrastimolata tendo a chiudermi. Quindi a volte semplicemente entro e esco confusa e delusa.
Non ho mai avuto il piacere di vedere un mio libro tra quelli esposti (se non nelle librerie dove ho presentato) e probabilmente non ne vedrò mai uno.
immagini Bitstrips
Il fatto è che guardando tutti quei libri mi son chiesta "ma mi frega davvero qualcosa di essere lì tra troppa roba?", cosa che riporta alla domanda "perché scrivo?" e che non ha risposta da tempo.
Perché poi tutto sommato non ho questa urgenza di pubblicare, anche se mi piace l'idea di essere selezionata e ritenuta valida da chi ne sa più di me, altrimenti sarei sempre lì a mandare manoscritti (va beh, mail con allegato) ogni giorno a chiunque mi sembri serio. Invece no: mi informo, guardo i siti degli editori, guardo le istruzioni per l'invio e poi faccio altro. Scrivo, le idee non mancano mai; se non scrivo correggo, se non correggo mi sto inventando qualcosa di nuovo che non so quando finirò.
E in ogni caso non ho urgenza di finire tutto, né di vendere, né di presentare. Non richiedo interviste o recensioni, aspetto che qualcuno mi legga e le faccia. Quando mi scrivono per chiedermi se voglio farmi pubblicità io rispondo e poi mi dimentico di mandare il materiale. Forse non è così importante.
Eppure leggo su Facebook di altri che come me scrivono e che controllano le classifiche ogni giorno, e che scrivono a chiunque per le recensioni, che altresì non sono contenti delle recensioni negative (ovvio, ma mica si può piacere a tutti e se vai chiedendo, prima o poi a qualcuno non piaci), che si scambiano recensioni entusiastiche e che non credono che tutto questo sia un semplice teatrino e che giocare al "personaggio" riesce bene solo a chi personaggio lo è.
Pullulano i consigli su qualsiasi cosa e io non sono mai d'accordo. C'è chi si pianifica tutto, chi si documenta prima ancora di avere in mente una storia, chi ancora non ha capito la differenza tra editing e correzione bozze. Chi si improvvisa editore e chi non fa altro che spam. Chi si lamenta sempre e soltanto, chi chiede lettori che non ci sono. E chi come me non riesce nemmeno più a leggere, nauseata dal troppo che stroppia.
Non che non sapessi che la vita dello scrittore (qualsiasi cosa sia) è piena di ostacoli e lente evoluzioni; non che la via dell'arte in genere sia semplice mai. Non può esserlo. E se "oso" scrivendo qualcosa di cattivo c'è subito chi mi dice che non sono politically correct, e chi mi dice che la letteratura deve smuovere. Chi mi vuole diavolo e chi acquasanta e io semplicemente vorrei raccontare storie, senza pretese. Far divertire e pensare, portare altrove per un poco anche leggermente.
Il lavoro di editing con Natascia procede e di questo sono contenta, perché procede bene. Due terzi della prima lettura sono andati e le poche "incongruenze" riguardano 1) un edificio in mattoni nell'epoca sbagliata, 2) una "cabina telefonica" che poi è un telefono pubblico, 3) le origini di un personaggio e 4) il non avere precisato ma solo lasciate intendere delle cose che in effetti - essendo un romanzo di 320 pagine e con un numero di personaggi impossibile - era meglio "dire". Se poi calcolo che questo romanzo l'ho scritto mentre scrivevo altri 3 romanzi e un paio di racconti, senza prendere un appunto, senza sapere quando ho iniziato dove avrei finito e soprattutto avendo chiare in mentre solo due scene quando ho iniziato...
Beh, sto facendo divertire Natascia e poi non ho idea di dove mandarlo, perché prima o poi mi tocca farlo.
Ecco. Io tutte 'ste cose mica so perché le faccio, se penso al fatto di spedire mi viene già male. E ne ho uno pronto che mando a qualcuno ogni tre mesi, quando mi ricordo. E non è male, giuro. Un romanzo carino, con un protagonista detestabile che piano piano cresce e diventa se stesso. Che non piace ad alcuni lettori perché quando si ubriaca vomita e perché ha un cognome inglese. E che a volte mi fa chiedere, oltre tutto, "che diamine vogliono i lettori, solo personaggi carini, educati e sbrilluccicosi?"
Insomma, siccome son tutte domande cui non esiste una risposta e siccome il malumore già me lo son fatto venire guardando quella marea di libri di cui non ne ricordo uno (no, uno in realtà lo ricordo "vacanze da sogno", un libro di fotografie, più che altro perché leggo il titolo come Crozza quando fa Briatore)...
Voglio solo dire che a volte mi chiedo se vale la pena di scrivere con un'idea precisa che va in direzione contraria al mondo. E no, non vale la pena. Ma lo faccio lo stesso perché sono masochista e testarda. 
E perché mi piacciono le storie.

3.8.15

Agost post

Sono finalmente in ferie.
Per festeggiare ho fatto un allenamento intensivo di pole, ho camminato ore e ho scritto una recensione, un brevissimo racconto, ho corretto una parte del romanzo, sto terminando un racconto che spero pubblichino come seguito de "La caccia" e ho un romanzo da finire.
E le solite idee per dei quadri che non so quando avrò mai tempo di dipingere.
Ed ecco che le vacanze me le sono giocate se per vacanze intendevo un sano e quieto relax.
Il racconto che devo finire è la rielaborazione di un altro racconto molto breve che avevo lasciato lì, come finito, e che invece ha delle potenzialità. Così sono a metà del lavoro e spero di riuscire ad allungarlo abbastanza da fargli avere una dimensione pubblicabile. L'idea di base per proseguire c'è, forse devo solo mettermici seriamente.

Come sempre, però, quando c'è da andare in una direzione a me piace cambiarla. Anche se la direzione l'ho scelta io, ma soprattutto quando l'hanno scelta altri. Guai a darmi un tema, andrò sempre al limite estremo. Non lo faccio apposta, capita e basta. E se da un lato mi rende libera dal pericolo di cadere nel cliché e nelle cose già sentite e viste, dall'altro finisce che chi mi legge non comprende il limite. Cerca il cliché. Vuole proprio quella roba lì. Non qualcosa di nuovo o di diverso. Sarà quello che mi impedisce di fare il salto? Ma poi il salto significa andare dalla parte dei più? Che io non ci sto comoda, credo.
Per vari motivi, tanti.

18.7.15

In breve

Tradurranno "Gli attimi in cui Dio è musica" in spagnolo.
Un breve racconto erotico sarà pubblicato in una raccolta.
Il seguito de "La caccia" è in scrittura.
Lo spin off de "Gli attimi..." è in mano all'editore e sarà gratuito.
La correzione del fantahorror per ora noto come "J&J" procede.
Farò pole per tutto agosto.
A fine luglio sarò felice...
Vacanza.

4.7.15

Di baci e di femmine, e non so di che cosa parlo.

Ci sono mille cose tutte insieme.
L'altra sera rientravo dal lavoro e sono passata davanti a una sala giochi che ha aperto da poco in zona. Due ragazzi molto giovani stavano discutendo mentre fumavano una sigaretta davanti al locale e ho sentito uno di loro affermare che vedere due ragazze che si baciano non solo non lo eccita ma gli fa schifo.
Ho pensato che fosse triste sentire una cosa simile da un ragazzo giovane. Più che altro perché quando vedo due persone che si baciano a me vengono gli occhi a cuoricino a prescindere da chi sono. Così bello l'amore che non mi importa niente del resto. E forse solo perché sono una donna, per di più romantica.
Che fosse triste provare schifo per qualcuno che si ama. Che fosse brutto l'atteggiamento intollerante, essendo giovani e vivendo in questo periodo. Che fosse triste e brutto essere intolleranti sull'amore invece di provare schifo per mille altre cose che vediamo ogni giorno e che fanno male invece che bene.
Poi non ci ho più pensato per un po'.

Ma il discorso è tornato fuori mentre passeggiavo con marito e cane.
Perché, gli dicevo, se io vedo due persone che si baciano in strada io ci vedo amore e non sesso. Un conto è vedere un porno, un conto sono le persone che incroci per strada. Insomma, non si trascorre il tempo di una passeggiata a guardare le persone come fossero "oggetti".
So che le nostre menti funzionano in modo diverso e che per l'uomo è fondamentale la vista per lo più. Almeno questo è ciò che mi sento dire.
E mi rendo conto che sono cervellotica, difficile. Guardo gli uomini (e perché no, anche le donne) e non ce n'è uno che mi piaccia. Oh, sì, esteticamente magari qualche bel tipo lo incontro. Ma nessuno che mi faccia scatenare la fantasia, nessuno di reale. Il più della gente che incontro nemmeno mi incuriosisce. Anzi, più li guardo chiedendomi "che mi dice questo tizio? mi piace? mi fa fantasticare?" più il rifiuto si presenta.
Eppure io di fantasie ne ho. Ogni giorno scrivo di personaggi, innamorandomi di loro in qualche modo, vedendoli in azione, trovandoli sexy anche quando so che sono io che me li invento.
E forse è proprio l'inventare di sana pianta un uomo, un'atmosfera, una situazione, la sua storia... creare qualcosa che sia specchio di ciò che sono io mi rende impossibile vedere allo stesso modo le persone reali.
Perché la realtà spesso è una delusione (non che io inventi personaggi perfetti, sono comunque pieni di nei), perché l'aspettativa è quasi sempre disattesa e perché alla fine non è la carne ma l'idea a interessarmi.
La carne viene molto dopo e se non c'è l'idea è come se non esistesse nemmeno la carne.
Cosa volevo dire? Forse che mi sento sempre meno ancorata alla realtà, forse che la realtà e le persone che dentro ci giudicano e ci rendono oggetti e che non riescono a vedere l'idea mi attirano sempre meno; che la testa è la sola cosa che conta e che se quella non c'è... non c'è storia.
Forse che mi sento ogni giorno più femmina e consapevole di esserlo.

24.6.15

Calma piatta, più o meno

Vivo un attimo di quiete creativa, diciamo.
L'urgenza di scrivere c'è sempre e allo stesso tempo, siccome di tempo non ne ho, me la sto prendendo comoda e scrivo meno del solito.
Per Gazzetta Torino, per cui i miei articoli scemano (e che altro possono fare?) sempre più; per le recensioni su Recinzioni Selvagge e su BitBot.it vado a rilento; fatico a mandare anche i racconti già scritti per le raccolte a scopo promozionale - e non è perché siccome non ci guadagno non li mando, proprio non ci penso - all'editore.



Scrivo a spizzichi:
a) uno spin off de "Gli attimi in cui Dio è musica" che sarà probabilmente gratuito e promozionale pure lui, ma che serve a raccontare un punto di vista differente e introdurre uno dei temi che verranno affrontati nel seguito - presto.
b) un racconto che proporrò come seguito de "La caccia", il mio racconto vampirico-erotico, che farà da collegamento tra la prima e la seconda avventura di Wendy con il pericoloso Michael in cui vengono presentati altri personaggi.
c) il romanzo che ho iniziato quasi un anno fa e che ho scritto a macchia di leopardo, che va rimpolpato e che continuo a rinforzare nella prima parte mentre dovrei occuparmi della seconda o diventerà impossibile da gestire.

E correggo, insieme alla mia amica Natascia, il fantahorror da 320 pagine che se aspettavo i miei tempi non l'avrei fatto mai, ma piace a me e a lei abbastanza da far sembrare l'editing una cosa divertente.
Poi mi godo le recensioni positive a "L'altra donna" anche se forse potrei lavorarci ancora sopra.
Almeno ho consegnato un racconto per una raccolta di erotici e continuo a mandare in giro il secondo romanzo che, zitto zitto, era in finale al Premio Marcelli l'anno scorso e per cui non ho firmato l'accordo preventivo.
Ho anche smesso di mandare in giro le poesie della seconda raccolta. Mi annoio solo al pensiero.
E ho idee per dipingere ma non ho nemmeno un attimo per farlo, tanto che ho in sospeso una tela 60x80 da un anno quasi. Ce la farò, prima o poi.
Devo solo capire quando. Magari la prossima vita.

17.6.15

Sono impazzita, sappiatelo.

N.B: Ogni riferimento a cose e persone reali è assolutamente casuale e impossibile visto che si tratta di me.


L'uomo che amo ha mani piccole e cicciottelle, lisce e morbide, con le unghie tagliate dritte e curate.
Ha rughe sul viso che parlano di sorrisi e di lacrime furiose.
Un ventre rotondo che è un piacere carezzare e l'ombelico delicato.
E occhi vispi, curiosi, attenti. E una bocca che reclama baci.
Dorme, il respiro più lento, accoccolato e dolce.
In attesa di un futuro.

10.6.15

The lady in red

Son qui che provo il pezzo del saggio di pole dance, felice.
Sono quattro minuti, quattro, che sembrano un niente ma che nel momento in cui li affronti con tacco 15 sembrano eterni.

Che poi no, non è il tacco 15. Nemmeno il resto del costume.
La pole dance è diversa dalla danza. Non la puoi ragionare in un certo numero di "otto" da contare, da riempire uno per uno rispettando sempre il secondo. La pole la ragioni in base al fiato che pensi di avere, in base alle cose che hai in mente di fare e poi ti adegui.
Quindi sono qui che provo il pezzo del saggio. Ho studiato la musica e so che cosa posso fare senza rischiare figuracce, che poi significherebbe cadere di faccia dal palo e farmi tanto male davanti a un pubblico magari non numeroso, ma...
Fino alla metà tutto bene: insomma, è la parte che ho provato di più e quella in cui tutto sommato faccio lo sforzo minore. Perché devo risparmiare le forze. Poi viene la parte complicata e giuro che due minuti di seguito sono più che sufficienti, anche con una canzone tutto sommato lenta, per togliere il fiato.
Non sto a dire quello che vado a fare, ma con questo caldo i risultati sono sempre imprevedibili. Sì, perché un giorno scivolo come una matta e quello dopo non riesco a scollare la pelle dal palo. Come fosse una cosa viva, lui. Così, proprio all'inizio della parte difficile mi trovo appesa a testa in giù, faccio la combinazione che ho in mente e una volta mi trovo con la testa che sfiora il pavimento e l'altra quasi salto per staccarmi e scendere a terra. Con il tempo e la musica che scorrono inesorabili e io lì appesa che non so se mi troverò a due o venti centimetri da dove voglio essere.
Non come la danza, dove sei sempre dove decidi di essere - o quasi, ma in qualche modo è più facile - no. Qui ti trovi a improvvisare. Per cui se scivoli cerchi di frenare e se non scivoli cerchi di farlo.
E, sì. La cosa è divertente.
La parte difficile è proprio a metà della canzone, passata quella si va rapidi volteggiando fino alla fine senza un attimo di respiro.
Non immaginavo di restare senza fiato alla fine, soddisfatta, di nuovo a testa in giù (e dovendomi liberare anche quest'ultima volta dal palo) e di divertirmi tanto dal primo "otto" della canzone.
Sto provando il saggio di pole dance...


2.6.15

Chi non muore...

Insomma, a parte pubblicare storie di fatasmi e continuare a segnalare e recensire libri non sono sparita.
Non ho avuto tempo o idee chiare, forse.
No, non è del tutto vero. Ho fin troppe cose che mi girano nella testa e solo una tastiera, per cui per lo più scrivo ma non qui.
Allora: siccome il mio "Sette stanze" ancora non ha trovato casa (editrice ovvio) io insisto con la delicatezza che mi si confà, quindi poco, ma insisto.
Siccome il fantahorror che ho faticosamente portato a compimento oltre le 320 pagine è molto lungo e complesso, ho deciso di farmi aiutare nell'editing da persona entusiasta e appassionata che mi sta dando davvero un grosso sollievo. E mi fa ridere anche un sacco.
Siccome avevo da mandare un racconto per una raccolta erotica ne ho sistemato uno ed è stato approvato.
Siccome ho in mente il terzo episodio della serie di racconti che ho iniziato con "La caccia", mi tocca scrivere il secondo, che introduce un paio di personaggi che mi saranno utili in seguito (e introdurre, nel caso del genere di racconto mi pare adeguatissimo come verbo).
Siccome ho il saggio di pole dance sto andando in media una volta in più a settimana a lezione e alle prove.
Siccome ho un lavoro regolare e abbondante, una casa e una famiglia per lo più animale da seguire...
Ecco, direi che l'idea ve l'ho data.
Ma sono qui, quasi sempre a testa in giù o in qualche corsa impossibile contro il tempo.