20.4.20

Ciò che popola i miei sogni

Prima c'erano ascensori senza gabbia, ondeggianti in uno spazio vuoto, che a prenderli rischiavi di cadere. E scale senza ringhiera e senza finestre, pianerottoli in penombra e scure porte di legno. E c'erano atrii in marmo con spirali di scale che se ti sbagliavi non arrivavi mai più al piano; il lusso, uomini in giacca e papillon che incrociavo in corridoi infiniti.



Non mi sono mai persa, non sono caduta, ho avuto paura. Ma le case mi hanno sempre accolta.



Prima ancora c'era una casa che ne era molte insieme. Ampia, iper moderna, con vetrate immense e un giardino esterno che copriva gli sguardi del mondo. Ci andavo spesso di notte, dove la luce gialla dei lampioni esterni entrava da quelle che sembravano veneziane verticali in un salone bronzo con divani minimal dalle zampe di metallo e con tante piante verdi, e un camino. Attraversando le sue stanze ti trovavi in un'ala abbandonata, in un bagno bianco e azzurro con una vasca enorme e lunghe finestre fino al soffitto, e un balcone. E una zona segreta e ancora scale, piani ammezzati e libri dappertutto.

E ancora un alloggio con una sala in cemento e vetro con un tappeto zafferano, in un palazzo a conca, muri ruvidi e una feritoia quasi al soffitto da cui entra la luce, e una cucina con un terrazzo, un pianerottolo verandato e scale bianche verso il cortile ampie e piene d'aria, e prato inglese e un bosco al limite. E una composizione di rocce al centro del giardino.


E ancora una casa dal corridoio scuro che termina su un terrazzo di pietra sull'orlo di un giardino selvaggio e cupo, con aghi di pino a terra e un sentiero che porta a un enorme leone di pietra su cui arrampicarsi, bambine.

E quella il cui terrazzo si scioglie in mare, lambito dalle onde, di legno e sassi. E quella con il salotto oro e verde militare, le tende pesanti e le finestre antiche. Quella con il pergolato in terrazzo e un tavolo in ferro battuto e piccole piastrelle colorate. E quella con l'atrio immenso e alto fino al cielo, una parete a rettangoli di vetro su tutto quell'azzurro, quella le cui scale portano a un ufficio bianco e a una testa mozzata e viva. E che a discenderle raggiungi la piscina.

La casa accanto al fiume con le tre sorelle e l'alluvione. E altre che ricordo e non ricordo e che si perdono tra un sogno e l'altro, e che tornano a volte con i loro misteri e il significato nascosto di ognuna di esse...

Anche stavolta, salendo una scala barocca ampia e luminosa sono arrivata dove volevo.
Una casa enorme che necessitava di ristrutturazione. Bella, soffitti alti e quadri e arazzi, ma mal tenuta. Infiltrazioni d'acqua, crepe e pezzi d'intonaco cadenti. E io, da dentro, con persone diverse a seconda del momento, a controllare i danni e il lavoro da fare. E mia mamma, e il mio ex marito, e padroni di casa sconosciuti. L'acqua che scende lungo le pareti e niente che si rovina in casa.

Poi una coppia di ospiti che faccio accomodare su un divano di velluto color curry. E un'aquila reale, brillante d'oro, che cerca di trascinare via uno di loro, mentre un animale indefinito fa cadere l'altro ospite. Il desiderio di esser sola, in fondo, nei miei luoghi. E la luce dai fori nei muri, e il bello di vedere le pareti cedere. Sapere che non succederà niente di brutto.

Al fondo della sala un pannello che si stacca. Tiene tutta la parete, sopra ci sono due figure austere, tra la divinità greca - tunica porpora per lei, ocra per lui - e una coppia regale. Dei o regine, si staccano dalla parete che li ha sorretti finora. Un altro crollo, altra luce che arriva da dietro. Il senso di qualcosa di ineluttabile e necessario, eliminare il vecchio.


Io che temo chiusura sogno di aprire la mia casa alla luce. Se c'è bisogno, e c'è, saper lasciare la propria oscurità, il proprio desiderio di nascondere l'anima al mondo. Se c'è bisogno, e c'è, cedere alla vita senza paura di rinunciare a ciò che dava certezza. Se c'è bisogno, e c'è, cambiare la propria anima e accogliere il bello, accogliere la luce, lasciarsi illuminare dal nuovo. Crescere. Diventare chi sono.

10.4.20

Ciò che si muove dentro, un'analisi ancor più illogica senza il testo 12

Stavo cercando una foto per l'ennesima sfida su Facebook, cosa che di solito non faccio ma che - un po' come mettermi a prendere il sole sul mio mini terrazzo - in questo periodo mi fa passare un po' del tempo immersa in cose che amo.
Stavolta riguarda i 10 film (ma contemporaneamente ne sto facendo una che si occupa di libri) che in qualche modo mi hanno toccata. La prima considerazione, cercando le foto giuste, è stata che finora i film cui ho pensato sono tutti di fantascienza e fin qui ci sta (sono "Star Wars" - il primo storico, quindi l'episodio 4 e "Blade Runner", per poi arrivare al terzo che cercavo appunto stamattina). Non ho mai avuto dubbi su cosa mi ha catturata fin dal primo sguardo.
Poi ho scelto il film che mi ha stimolata di più tra quelli della sua serie, perché tra i tre che si salvano è davvero difficile trovare quello giusto: tutti sono gran film, ognuno con caratteristiche differenti, scelte registiche particolari e spunti di riflessione diversi.


Ho sempre amato "Alien".
Forse perché ho subito il fascino del proibito (quando è uscito nelle sale io ero troppo piccola e ho invidiato i miei cugini poco più grandi di me per averlo visto al cinema mentre io l'ho sempre visto in tv), forse perché poi era un mostro bellissimo - le linee di Giger, quell'armonia particolare che richiamano, la simbologia fallica, anche - e spaventoso. L'ho amato nel film originale di Scott, claustrofobico e molto "freddo"; l'ho amato nel sequel di Cameron così macho e sudaticcio; l'ho amato nel terzo episodio di Fincher, di nuovo claustrofobico e più intimo; l'ho amato meno nel quarto capitolo più per la mancanza di estetica del "mostro" finale che per altro.

Per alcune persone, il mostro del film rappresenta il cancro, la malattia che cresce in te e che ti uccide. Io non l'ho mai visto così, mentre è più facile vederlo come il lato primitivo nascosto in noi. Quella rabbia che vien fuori dallo stomaco e che distrugge ogni cosa non gli somigli. Una specie di "Es" primordiale, l'istinto puro, il lato cacciatore e omicida della nostra personalità, quello che a volte sembra governare la gente negli ultimi anni. Lo avevo detto in un vecchio post, qui. Non ho sviluppato l'idea ma all'epoca mi sembrava convincente più della malattia.
Però per me "Alien" è un'altra cosa ancora, più profonda. L'idea di questo semi parassita che necessita di un corpo altro per crescere, per poi venirne fuori letale e velenoso mi ha da sempre fatto pensare alla maternità. Lo so che sembra strano associare una creatura tanto pericolosa a un qualcosa di simile, in molti mi hanno fatto notare che il mio istinto di maternità non è proprio così spiccato, però oggi, cercando una foto per il contest ne ho riviste molte e mi pare che il rapporto con la maternità, con la figura materna e con l'istinto protettivo che si ha nei confronti delle madri sia più che evidente in tutti i film.


Cominciamo dal modo in cui si viene infettati: cosa sono i parassiti "stringifaccia" se non delle specie di spermatozoi  che volano verso un ospite e impiantano la vita? Ci somigliano anche e il loro unico scopo è, appunto, portare a termine una fecondazione, dopodiché si staccano e muoiono. Da lì, un piccolo vermicello cresce nell'addome di un ospite, per poi uscirne in modo molto violento e spiacevole e diventare un individuo a sé. Nel terzo episodio, poi, scopriremo che a seconda dell'ospite in cui l'alieno cresce, il DNA cambia assumendo anche le caratteristiche della creatura che lo ha portato a maturazione. Però esce, nasce proprio - non come una malattia che resta nascosta il più possibile e distrugge l'organismo da dentro - e nel nascere "termina" il suo creatore.


Nel secondo film, il tema della maternità è trattato in due filoni contemporaneamente: da una parte Rilpey trova la piccola Newt e il suo istinto materno la porta a proteggere la bambina a ogni costo; dall'altra c'è la Regina Madre degli xenomorfi, che entra in conflitto con Ripley che nel salvare Newt distrugge le uova col lanciafiamme. Il suo istinto materno si scontra con quello umano fino alla fine tragica sia dell'equipaggio che della Regina stessa, in un inseguimento e in una lotta tra le due madri che ricorda quello animale.
Succede poi che Ripley, nel terzo film, si ritrovi a essere lei stessa ospite di una Madre e che per questo motivo nessuno degli xenomorfi presenti sul pianeta prigione la attacca. La scena finale del suicidio di Ripley la vede trattenere al petto la Regina neonata mentre si lancia nelle fiamme in un gesto che sicuramente al di là del trattenerla per ucciderla ha un non so che di materno in sé.




Nel quarto episodio, i cloni di Ripley hanno DNA alieno e la creatura "nuova" ha un volto quasi umano (molto quasi) e l'ultima Ripley è di fatto riconosciuta dall'ibrido come la sua vera madre (mentre l'ultima Regina Madre ormai non depone più le uova ma partorisce direttamente).
Ad alimentare l'idea, dal punto di vista estetico, c'e la forma doppiamente fallica che Giger ha dato agli xenomorfi, in cui non solo la testa può ricordare quella del sesso maschile ma anche la "lingua" dentata che scatta a penetrare la vittima.
Poi sicuramente io avrò da andare ancora dalla psicologa, ma l'analisi mi pare sensata.
A voi la palla.

6.4.20

Nessuno, centomila, ma non quell'uno...



"Noi non siamo chi siamo", ripete incessantemente lo scienziato nell'episodio dal titolo Morte tra i ghiacci, nella prima stagione degli X-Files.
Al di là dei risvolti fantascientifici, la domanda su chi siamo in realtà è forse una delle più interessanti che possiamo porci.
Possiamo dire che siamo una persona diversa per ciascuna delle nostre conoscenze, che ciascuno tenderà non solo a vedere in noi solo quello che desidera vedere (che sia un pregio, un difetto, una necessità, qualche segno) ma anche a proiettarci addosso la propria fantasia.
Così diventiamo fanciulle indifese, persone terribili o dee di bellezza inusitata a seconda di chi ci osserva, senza peraltro essere nessuna di queste cose - o tutte insieme.

Oggi i social rendono ancora più complicata la faccenda. In una perenne ricerca di consenso, alcuni tendono a mostrare solo il meglio - foto ritoccate, premi vinti, attestati di virtù e qualità - altri a esibire il proprio lato tragico, altri il proprio successo spropositato. Nessuno però è solo ciò che mostra e pensare di conoscere una persona perché posta solo selfie sorridenti su Instagram o perché a volte esprime una lamentela su Facebook è quantomeno fuorviante.
Scegliamo quotidianamente cosa mettere in piazza e cosa no. A volte ciò che scriviamo è dettato da un'urgenza personale, altre volte riflette i pensieri che vorremmo far valutare ad altri, oppure ancora è solo la milionesima parte di ciò che stiamo vivendo.

Spesso mi capita di usare grandi parole per piccole cose, perché giocare con le parole è in qualche modo uno dei mestieri che mi sono scelta. Quando invece c'è qualcosa di grande (buono o cattivo che sia) è possibile che io non usi le parole ma la musica, la danza, il colore. Perché dolore e felicità non sempre si possono dire. E nemmeno leggere in uno sguardo.
Le nostre vite sono così complesse, a volte, che i momenti più difficili sono anche i più felici. Momenti in cui sappiamo che la nostra felicità avrà un prezzo, ma per quante siano le difficoltà è proprio lì che vogliamo andare e per quanto tutto ci spaventi, dentro lo sappiamo quale sarà la ricompensa.
Ma è difficile intuire la vita di qualcuno da due foto ritoccate e da un paio di post su Facebook, troppo facile appioppare ad altri le proprie facili conclusioni e fare commenti inopportuni. Perché per quanto pensiamo di conoscere una persona ci saranno sempre mille cose di lei che non sapremo mai e che non sappiamo neanche se ci viviamo insieme.

Siamo ognuno un pianeta a parte, controllato dalle stesse forze e composto degli stessi atomi in quantità diverse. Siamo interconnessi ma non per questo uguali, ognuno con la sua storia addosso e con un modo diverso di interpretare i segni. Fin troppo facile affibbiare a ciascuno i nostri stessi modi. Pensare che una persona sia come ce la siamo dipinta è molto più facile di quanto pensiamo. E da lì far scaturire un giudizio è altrettanto semplice.



Eppure ancora, nonostante tutto, noi pensiamo di avere un'immagine unica e univoca. Pensiamo di essere uno. Quell'uno lì, non un altro. Mentre l'altro a volte ci pare nessuno.
In realtà siamo tutti centomila. Poco da fare.
Ce ne accorgiamo quando all'improvviso le persone che abbiamo accanto non sono più come le vedevamo, quando ci danno etichette invece di guardarci e accettare l'insieme. Come se le etichette che ci diamo, la classificazione con cui ci semplifichiamo la vita, fossero realmente applicabili alla vita...