25.12.16

Bad Santa

Ho sempre odiato il Natale, trovandolo falso e inutile.
Del periodo mi piacciono le luci, gli addobbi - esclusi i Babbo Natale impiccati ovunque - i colori. Ma è una cosa che mi piace in ogni stagione, non a caso da me le luci sono fisse e le accendo ogni volta che mi va.
Non mi piaceva da piccola, come ogni cosa obbligata. Era un momento in cui non dovevo dire il vero, sorridere forzatamente e fingere di essere felice. Mi toccava, da figlia di separati, festeggiarlo due volte. Come se una non fosse abbastanza. Scrivevo letterine a un Babbo Natale inesistente, figuriamoci Gesù bambino, in cui chiedevo regali che non ricevevo. Non chiedevo cose impossibili, ma magari volevo una pistola e mi arrivava il Dolce Forno... non è esattamente la stessa cosa. Ugualmente dovevo fingere entusiasmo e sorpresa, ché altrimenti offendevo qualcuno.



Le cose non sono migliorate con gli anni. Ora che non c'è più mia mamma, non ho nemmeno più l'albero, non faccio il presepe, niente cenone del 24, solo una cena un po' diversa. Niente regali tra noi, solo una sera come le altre. Il 25 sono a pranzo da mio padre, senza la baraonda di tutta la famiglia riunita di quando ero piccola. Noi, un pranzo mai eccessivo, qui sì ai regali ma fatti con cura e un pomeriggio passato tranquilli.
Non sono pervasa dallo spirito natalizio, non mi sento più buona oggi degli altri giorni, non ho voglia di fare come se niente fosse e festeggiare una cosa che non sento. Mi si vorrebbe falsa, sorridente e benevola.
Invece no. Siccome non sono una bella persona ma semplicemente una educata bene, io questa cosa non l'ho mai sopportata. Dover essere carina quando vorrei un'accetta. No.
E non è per i regali. Non mi piace riceverne, perché un pensiero fatto a forza mi disturba e perché è difficile che qualcuno riesca ad azzeccare la cosa giusta. Per cui poi io comunque sono obbligata a fare un regalo in cambio, fatto per forza e probabilmente sbagliato. Preferisco comprarmi io quello che voglio e magari fare un pensiero a chi voglio e quando voglio, trovando il regalo giusto - che non è mai così semplice lo so - e facendolo nel momento dell'anno che voglio.
Non è perché non sono felice, sono esattamente felice quanto gli altri giorni. Non nascondo qualcosa che non c'è. Non è che odio il Natale per capriccio.
Trovo ipocrita ingozzarmi mentre c'è troppa gente che muore di fame, che scappa da guerre stupide ( a trovarne una furba), che cerca di arrivare a una vita dignitosa - io non so ma i bambini africani del video di "Do they know it's Christmas" con le mosche agli occhi e al naso non stanno bene a casa loro, proprio no - quando c'è chi si fa i soldi alle spalle di chi lavora onestamente e ci spinge a combatterci tra poveri, tanto non lo capiamo, rimbecilliti di fuochi d'artificio e illusi dal Superenalotto... Ecco, non c'è un Natale. C'è la vita, c'è il bello e il brutto e non c'è un giorno speciale comandato. Il giorno speciale c'è quando c'è. E non è oggi. O potrebbe esserlo.
Chi lo sa?

24.12.16

La mia verità

Quando ho sentito per la prima volta questa canzone ho pensato fosse la mia. Non mi piace la voce e non mi piace forse nemmeno la musica ma quello che dice mi ha toccato. Perché un tempo mi sentivo così. Come racconta lui.

Avevo bisogno di ballare per stare bene. Per sentirmi bella, più forte. 
Era un modo per sognare, per credere davvero di venirne fuori. Probabilmente senza quel sogno sarei morta. Mi sarei persa. 
A quel tempo era facile credere agli altri, o alla vocina, o a quello che pensavo di me. Ballare era la mia ancora di salvezza. 
Infatti, quando per un attimo le voci hanno avuto il sopravvento, ho smesso di farlo e sono crollata. 
La mia verità è che ho ancora bisogno di ballare, anche se sono cambiata molto in questi anni. Il contatto con il mio corpo, il costante guardarmi allo specchio - anche se cerco di guardare altrove, prima o poi mi vedo - il cercare di nuovo il movimento perfetto (sebbene la perfezione non sia di questo mondo), lo studiare passo dopo passo... Questo mi fa bene, mi fa concentrare sulla parte migliore di me nonostante quella peggiore. Che è lì, nello specchio.

Ora non mi resta che tornare a farlo, davvero, insieme alla pole. Che tanto è danza lo stesso. E credo che fosse proprio qui che dovevo arrivare. Il mio sogno, la mia "perversione". 
Ma aggiungere quello che per anni mi ha reso felice, quello che magari non mi avrebbe fatto diventare famosa - e mai lo farà - ma ho imparato con dedizione a amore... 
La mia verità è che voglio ballare, che sono stufa di occhi rossi quando è sera. 
Voglio tornare a essere felice.

11.12.16

Grinchitudine

Siccome mi sono svegliata con la polemica addosso, volevo scrivere - e lo stavo facendo - un post lunghissimo con lamentele e incazzature, roba di cui il web è ghiotto e pure pieno.


Così ho deciso di ridurre tutto a due brevi punti fondamentali:
1) Quelli che infestano i gruppi Facebook per autori con post che riguardano la loro opera/blog/articolo/poesia/citazione del giorno, notando che quei post non ottengono la benché minima reazione da parte del gruppo, perché continuano? Una domanda non affiora, riguardo a quanto interessi agli altri membri del gruppo? No, perché io se parlo da sola preferisco farlo sul mio profilo o al massimo sulla mia pagina "pubblica", così chi vuole viene a vedere cosa scrivo e altrimenti non frantumo i maroni a nessuno. Posso scrivere un post quando esce qualcosa di nuovo, uno se ci sono delle offerte particolari, ma non uno ogni santo giorno - ovunque - se continuo a collezionare zero like.

2) Sempre in merito all'auto promozione: che senso ha pubblicare nel gruppo chiuso del proprio editore ogni recensione, ogni salita in classifica, ogni intervista, ogni post già condiviso su profilo e propria pagina? Come se gli altri autori della propria "scuderia" dovessero acquistare tutti i libri pubblicati dal proprio editore. Ve lo immaginate un autore Mondadori che deve acquistare ogni volume della produzione? Va bene informare l'editore dei propri progressi, ma chi già segue la tua pagina autore queste cose le ha viste lì. Perché ripetere?
Detto ciò, pare normale che io mi stia cancellando da tutti i gruppi di autori, lettori, autolettori, protoscrittori, bloggers, fanatici di ogni genere... Non ne posso più.

1.12.16

La vocina

Sto crescendo, sto cambiando, il mio cuore ha paura.

Sono più forte di un tempo.

Ero lì che le guardavo. Belle, sul palco, sensuali (no, vabbè, alcune sensuali quanto un calzino ma anche questa cosa è talmente soggettiva...) e quasi sicure - che sicure non si è mai davvero anche se ognuna maschera a modo suo.


Le guardavo ballare e mi dicevo: "fanculo, devo smettere di preoccuparmi del mio aspetto".

Mi dicevo: "Ora si torna a casa e si comincia a lavorare sodo, perché ad aprile tocca a me e stavolta voglio dare il massimo".
Mi dicevo: "Io sono brava".

E sono tornata, carica di idee e di energia.
Ed è tornata anche lei: la vocina.

Stavolta l'ho beccata. Qualche danno l'ha fatto ma non voglio che mi rovini la festa. Lei vuole che smetta e che mi rinchiuda in un angolino a pensare di non potermi meritare di più.

La vocina quello fa: ti bisbiglia all'orecchio che non sei niente.
Ti dice: "Dove pensi di andare?", "Non lo vedi che sei ridicola?", "Non vorrai mica farti una figuraccia?"

Lo fa anche e soprattutto quando tu invece puoi farcela.
Lo fa per impedirti di sentirti bene.
Lo fa perché non puoi permetterti di essere felice.
Lo fa perché la felicità fa paura. 

18.11.16

Nebbia


Ci sono punti, nel nulla, che non ricordavo. È da tanto che non viaggio in treno. Mi ero dimenticata delle distese velate dell’inverno. Quei colori appassiti, il gelo sugli arbusti che costeggiano i binari. Gli strati sovrapposti di alberi sempre più sbiaditi.


Un tempo era il mio mondo, un paio di ore al giorno. Diverso, sì, ma sempre uguale.
La ultima volta che ho raggiunto Modena in treno ero quasi bambina, quasi adulta. Andavo a trovare mio padre, che allora ci viveva. Il “Treccia Bianca” non lo avevano ancora inventato e la giornata mi era sembrata lunghissima tra una stazione e l’altra. Potevo contare solo su un piccolo walkman, un paio di nastri nella borsa. Bagaglio leggero, anche allora.

In quel viaggio, come forse accade a ogni viaggio che si fa da soli, mi era sembrato di ricominciare. Cosa, non saprei. In definitiva la mia vita era un disastro. Avevo smesso di ballare, il mio unico sogno, avevo lasciato un fidanzato psicopatico, speravo di essere uscita da un tunnel da cui, invece, non ero uscita. Perché le cose non sono mai come sembrano.
Mio fratello era piccolo, ricordo di aver scritto poesie mentre lui dormiva nella stanza accanto alla mia, sentendo il suo respiro nel silenzio della notte fuori città. Avevamo girato il centro a piedi, era freddo anche allora, e in un negozio lì avevo comprato una gonna pantalone che ho amato per anni e una casacca tutta bottoni e sonagli che mi ha accompagnata in decine di serate in discoteca.

Anche allora avevo indosso degli stivali. Erano i “camperos” di Mara, neri e a punta leggermente squadrata. Li aveva lasciati a casa mia, li ho usati – come il suo pigiama e altri capi, come lei ha tenuto e usato i miei – per almeno un anno prima di incontrarla ancora. Usavamo così, tra noi. Non c’era un gran concetto di proprietà; ci si scambiava un po’ tutto. A volte troppo. Ma con le amiche si fa così.

È buffo come la nebbia stimoli i pensieri. Forse l’assenza di cose “vere” da guardare induce ad approfondire altrove. Ombre di case e alberi, cavi che corrono e si perdono nel vuoto. Dettagli più nitidi che richiamano a uno squallore tutto umano. Cartacce, rifiuti, bidoni, tutto dove esistono insediamenti umani è più triste ancora della nebbia.

Questa volta sono qui per altri motivi. La danza c’entra ancora. Non del tutto mia, o almeno solo in parte. Io vengo a imparare e a guardare Valentina. Che è così simile a quel che ero, che potevo essere un tempo, che non mi sono data il modo di diventare. Bella e fragile, in quel senso buono degli artisti, perfezionista e insicura. Perché alla fine se si vuole la perfezione non si può  essere sicuri. Non c’è mai quella certezza. E se c’è, è spavalderia bella e buona. Ma non è il suo caso.

E sono ancora io, nella nebbia, persa tra un ricordo e un rimpianto. Come se dopo questo viaggio in treno cambiasse la vita, come allora, mentre invece non cambia – se non impercettibilmente, se non come deve essere, col tempo suo – non ricomincia. Va solo avanti. Dritta sui suoi binari.
Biglietto pagato, ci si siede e si guarda fuori. Fino alla meta.

12.11.16

Abbracci

Giovanni si avvicina: stiamo scherzando sotto ai portici insieme a tutti gli altri.
Siamo nell'inverno del 1989, ho addosso la mia giacca viola e nera, fa freddo. A Pinerolo, poi, siamo quasi in montagna.
Giocando, Giovanni infila una mano nella tasca del mio giubbotto per prendere la mia.
Non so perché, ma reagisco malissimo. Lui non capisce, io non capisco. Il mio fidanzato dell'epoca nemmeno, ma non ha mai capito granché. Non se non gli serviva per ferirmi.
Si limita a sorridere, felice che la sua ragazza "metta a posto" un amico.

http://www.marcochiuchiarelli.com/

Non ci ho fatto caso a lungo.
Però oggi so che tendo a mantenere una distanza fisica tra me e gli altri, soprattutto se non sono persone che hanno con me un rapporto "fisico" - dove per fisico intendo persone che per motivi vari hanno bisogno di un contatto più ravvicinato, per esempio le compagne di pole dance con cui siamo abituate ad aiutarci a vicenda - o affettivo. Non mi lascio abbracciare, o toccare, volentieri.

A meno che non sia un certo modo di toccare o abbracciare tipico degli ambienti sportivi. Sono cresciuta tra ballerini e di certo il contatto fisico in questo caso non l'ho mai percepito come invasivo.
Invece, per il resto, e ci faccio caso da poco, la prossimità fisica mi infastidisce.
Forse perché prima non frequentavo molta gente, chiusa nel mio bozzolo a scrivere e a infarcirmi di telefilm; forse perché ora la mia vita si sta aprendo e il contatto è necessario.
In ogni caso mi lascio avvicinare da poche persone.
E ora credo di sapere perché, ma non è il momento di pensarci.
Solo, quanto arrivano in profondità certe cose...
Per quanto si elabori, è sempre uno scoprire un tassello in più della stessa storia: la tua.

1.11.16

Chiamale, se vuoi, rimozioni...

La collega, al lavoro, mi domanda in che anno abbiamo cominciato a lavorare per un cliente.
Non lo so.
Allora mi chiede in che anno ci siamo trasferiti, con la ditta, nell'attuale laboratorio.
Ancora non lo so.



Mi rendo conto in quel momento che sto di nuovo "perdendo gli anni", come quando ho smesso di ballare, quasi sempre qualche anno dopo un evento importante.
Funziona così: io prendo una mazzata e vado avanti. Vado avanti finché reggo, facendo anche finta che non sia successo niente. Non è facile accorgersi che qualcosa non va in me, non perché fingo con gli altri. Io fingo con me stessa.

Ho smesso di ballare tre anni dopo una mazzata. Non me ne rendevo conto ma avevo iniziato a perdere i ricordi. Gli anni si confondevano, sparivano i nomi, i volti tornavano in un bianco e nero sbiadito, senza emozione. Come un film guardato distrattamente. Ho lasciato che accadesse per anni.
C'è voluta una seconda mazzata per farmi risvegliare. A quel punto non sapevo chi ero, non più.
Chi ero e cosa volevo, cosa mi piaceva, cosa desideravo.

Dopo c'è stato un periodo di riscoperta, a volte dolorosa e altre volte piacevole. Ma non è bastato. Perché nella ricostruzione non ho tenuto conto di quel vecchio disastro e di quanto quelle ferite avessero lasciato il segno. Quindi ho fatto molta strada, sbagliando qualche tratto. Qualche.
Funziona così: rimuovo gli anni infelici. Quelli che fanno male.

Non gli eventi che hanno provocato il trauma, anche se a volte ci vuole un po' prima che io elabori la faccenda. Anche se tendo a rimuovere gli eventi, sono quelli meno prevedibili a farmi stare peggio. La morte, per esempio, non ha grossi strascichi, anche se mi fa stare male. Sono le delusioni e i tradimenti (no, non necessariamente quelli romantici/sentimentali/fisici), la mia incapacità di prevedere qualcosa, di evitare una brutta esperienza. E le brutte esperienze che capitano anche quando a me sembra di avere tutto sotto controllo.

Ho smesso di punirmi, anche se i meccanismi a volte partono da soli. Come la rimozione.
Gli anni precedenti la morte di mia madre, per esempio. Ho qualche ricordo, certo. Però confondo gli anni, non so cosa era prima e cosa dopo se non mi metto a pensarci seriamente. Non è alzheimer, se vi state chiedendo questo. Troppo selettiva per essere una malattia.
Vuol dire che sono viva, che sto cambiando ancora, che sto cercando finalmente quello di me che avevo perso, che vedo avanti. Perché ora vedo che sta succedendo. Mi rendo conto di quanto sto rimuovendo, so perché lo faccio.
Perché ho bisogno di uscire da questo bozzolo e volare via...

23.10.16

On sex - Singolare femminile 5

Un mio contatto Facebook ha iniziato ieri una discussione letteraria.
Da che mondo è mondo, noi eterni aspiranti scrittori ci domandiamo cose per cui non esistono risposte, la più frequente delle quali risulta essere "perché tizio sì e io no?"; domanda che può avere miliardi di risposte - tutte abbastanza seccanti - di cui tutte e nessuna esaustive.
Toccava spesso a Fabio Volo, spesso a Moccia, soprattutto quando uscivano i nuovi libri e c'erano le code nelle librerie. Ce lo si domanda per astrologi e chef, per sportivi ventenni che pubblicano autobiografie, ce lo si domanda spesso per chiunque abbia un pelo di fortuna più di noi.
Che passiamo mesi in attesa di risposte e alla ricerca di un contatto che ci dia speranza.


Ce lo si chiede tanto, ultimamente, riguardo all'esplosione di fenomeni quali la trilogia delle sfumature, riproposte in tutte le salse in ogni angolo del globo, con versioni italiane - sempre trilogie - con tentativi di imitazione inutili e "dannosi". Ce lo si chiede perché, in un'epoca in cui tutto dovrebbe già essere sdoganato da tempo, il sesso - soprattutto quello delle donne - ancora desta clamore, divisioni, sdegno, riprovazione e quant'altro.
Che non sia mai. A noi donne il sesso non piace, lo facciamo per dovere e per compiacere l'uomo... Come no. Cioè, forse qualcuna lo fa per questo, ma sarebbe ora di finirla.

Il "perché" del mio contatto Facebook, autrice e donna, riguardava Melissa P.
Essendo una questione letteraria, il mio intervento a riguardo si è limitato a quegli aspetti che a volte possono determinare il successo di un libro-autore-personaggio-filone. O a volte no, ma non essendoci una ricetta precisa ho espresso le mie supposizioni, facendo scattare comunque un susseguirsi di pensieri. C'è il fatto che Melissa P. era una ragazzina, ai tempi di "Cento colpi di spazzola...": bella, pulita, giovane e insieme capace di scrivere certe sconcezze. Il personaggio che contrasta visibilmente con il libro che presenta. Il personaggio, appunto. Il valore letterario dell'operazione è da tutti giudicato inconsistente. Dal mio punto di vista non è un romanzo erotico (non mi stimola alcuna curiosità o desiderio, non smuove un ormone) anche se posso capire che dal punto di vista del lettore maschio possa essere differente. Non mi scandalizza. Non lo faceva quando è uscito e oggi ancor di meno. Gli adolescenti sperimentano. Succede da sempre, succede a tanti, succede con maggiore o minore morbosità, ma succede. Inutile gridare allo scandalo perché l'autrice era tanto giovane. Ovvio che trovandosi un personaggio così e una storia che poteva turbare, mezza campagna pubblicitaria era fatta. Il fatto che poi la stessa autrice abbia pubblicato e pubblichi ancora (sulle vendite effettive non c'è mai certezza, ma la presenza in libreria c'è), che collabori con riviste e televisione è stata una sua buona capacità di inserirsi in un ambiente tutto sommato chiuso, tanto da sopravvivere e crearsi un nome. Buon per lei, che tra l'altro sembra pure simpatica.

Ora, le altre riflessioni...
Ha destato tanto scalpore, certo. Una ragazzina non dovrebbe conoscere quelle cose. Non dovrebbe parlarne con tanta libertà (e con troppo distacco, come fosse una donna navigata che non ha fatto altro tutta la vita) e in modo così crudo. Una ragazzina dovrebbe fare sesso con amore e per amore, provare sentimenti quasi eterni per La persona con cui lo fa. Ma siamo sicuri? Non è quello che ci piace raccontarci per sentirci bene? Per non sentirci sporche quando abbiamo un desiderio? Per rassicurare i possibili partner?
E chi ci fa sentire sporche? Chiunque ci giudichi. Quindi i partner, le amiche, i conoscenti, gli sconosciuti, il branco, la comunità. Che sono poi le stesse persone che ci offrono una ricarica telefonica per una foto di tette, o quelle che ci palpano il sedere in autobus pensando sia roba loro, o quelle che scrivono il nostro numero di telefono nei bagni pubblici, quelle che pubblicano on line i nostri video intimi, quelle che riprendono il nostro stupro. Sono quelle persone per cui noi finiamo per soffocare ogni istinto di vita. Quelle che "te la sei cercata".



Quelle che se ci stai sei troia e se non ci stai sei troia lo stesso.
Affidiamo il compito di vegliare sulla nostra immagine a queste persone. E non sempre sono maschi. A giudicare una donna sono più brave le donne stesse. Per quale motivo, tra invidia della libertà altrui e senso di inadeguatezza, tra ignoranza e sottomissione - reale - alle leggi dell'uomo.
E pensare che una volta eravamo "la Dea". Noi, creatrici, in ogni senso. Noi oggi incapaci di solidarizzare con le nostre simili e sempre più pronte a giudicarle e a educare a giudicarle.
Incapaci di lasciarci andare al nostro lato naturale e selvaggio per dei limiti che alla fine ci siamo auto imposte. Per cosa? Insicurezza? Paura?
E chi lo dice che a fare sesso non si provino sentimenti? E chi lo dice che il corpo e la mente sono due cose separate? E chi lo dice che a voler seguire i propri istinti - nel rispetto assoluto dell'altro e con consapevolezza - si sbagli qualcosa?
Rispetto e consapevolezza.

C'è qualcosa di male nel riprendersi con una videocamera? La cosa squallida è usare quei filmati per danneggiare qualcuno, non girarli e rivederseli a piacimento.
Qualcosa di male a sperimentare cose e posizioni? No, se si desidera farlo e non lo si fa solo per compiacere qualcuno.
Qualcosa di male nell'assumere un ruolo in un gioco sessuale? No, se è ben chiaro che quel ruolo fa parte di un gioco le cui regole sono scritte da chi gioca. Che possono essere discusse e cambiate nel momento in cui una persona coinvolta lo desideri. Che non c'è niente di male nel dire "sei mia" se con questo non si intende il possesso dell'altra persona vista come oggetto. Che non è l'essere sottomesse in qualcosa di piacevole che ci disgusta, ma il doverlo essere nella vita, relegate a un ruolo che ci è stato assegnato d'ufficio alla nascita insieme al fiocco rosa.

C'è che quando si parla di donne e sesso c'è sempre un doppio registro, un pregiudizio latente e una condanna se qualcuna di noi esce dai canoni. Condanna che siamo noi stesse ad autorizzare perché non siamo chiare nemmeno con noi stesse su cosa ci piace e cosa vogliamo. Se continuiamo a vedere ogni altra donna come una rivale, ogni uomo come l'unica realizzazione della nostra vita. Il principe azzurro sta solo nelle favole, per nostra fortuna.
I nostri panni potrebbero essere assai più comodi se cominciassimo a liberarci di paure stupide e se riuscissimo a farci rispettare ogni giorno per qualsiasi parte di noi.

12.10.16

Ricredersi - parte 1

Sono cresciuta con la fantasia della "donna guerriera", complice mia madre e i fumetti Lancio Story.
Non sono mai stata una combattente, o quasi mai. Ne parlavo con un'amica insegnante (ma una speciale) dopo aver esposto i miei dubbi sul sistema scolastico. Ne parlo spesso in diversi ambiti.
Credo che per combattere sia necessaria una forte motivazione, cosa che fino a un certo punto non ho avuto. Poi ho incontrato la danza.
La mia prima passione, quella più forte, quella per cui ho sacrificato ogni cosa per anni. Nemmeno sacrificato, dedicato le mie energie. Certo non è stato facile. Non tanto per la danza in sé, anche se il non essere né leggera né dotata ha avuto un certo peso. La lotta è stata soprattutto per convincere gli altri che, nonostante tutto, io potevo farcela. Ne ero più che certa e il tanto lavoro fatto dava certo i suoi bei risultati. Sì, probabilmente non sarei mai stata un'etoile, ma non era questo che volevo. Mi bastava poter danzare. E per convincere tutti ho dovuto faticare più che a imparare a muovermi.
In famiglia non erano d'accordo, avevano altri progetti per me, eppure ho fatto quello che ho voluto, lottando, per anni.
Non mi aspettavo il crollo, non mi aspettavo l'evento che ha in qualche modo - subdolamente - cambiato la mia vita. Tutta la sicurezza della lotta fatta fino a quel momento mi è mancata di colpo.
Con una, due, mille scuse, ho smesso di lottare. Ho fatto di tutto per smettere.
Di fatto, finita quella lotta sono morta.

Ho imparato l'arte di scorrere. Ci sono cose che evidentemente non sono per noi. Ci sono fatiche che non dovremmo fare. Ci sono altre cose che vengono naturalmente a noi e che sono fluide, lisce, ci vestono perfettamente e non costano uno sforzo gigantesco.
Quelle sono le cose che ho imparato a fare. Ringraziando anche la Vita per avermi aiutata a comprendere, questo attaccamento folle non è sano. Seguire il flusso e leggere (non nei fondi del caffè) i segnali, capire quando è il caso di insistere oppure è meglio mollare. Perché alla fine non c'è più stato niente, niente, per cui valesse la pena lottare. In nessun ambito.

Nemmeno ora, penso. Vivo la maggior parte delle cose come inessenziali. Mi piacciono, ci sono, ma non mi ci identifico. In certi momenti mi pare una conquista enorme. Niente la cui mancanza potrebbe farmi male. Scrivere, lavorare, dipingere, leggere, non solo. Il lasciare andare anche alcuni rapporti finora tenuti da conto. Amici, parenti, conoscenti. Entrano ed escono dalla mia vita lasciandomi ciò che devono, prendendo ciò che offro.
Ho notato che faccio meno differenze, mi racconto allo stesso modo e ciascuno sceglie il suo significato nelle mie parole. Si fermano, e io fermo, quelli che colgono più sfumature (basta che non siano grigio, nero o rosso), perché scoprire sfumature ha un fascino particolare e sono pochi quelli che si fermano a guardare davvero. Ma non li trattengo: se vedo che vanno, lascio che vadano. Non c'è scritto da nessuna parte che si debba stare insieme per forza.
Posso sembrare superficiale, frivola, sciocca, leggera. Eppure costa anche lasciare andare. A volte più che trattenere, ma anche qui non combatto.

Poi un pomeriggio sono a farmi coccolare dal mio acconciatore di fiducia e in tv passano un video. Mi infastidisce quella canzone, perché non mi piace il testo. Va contro il mio pensiero. Eppure mi trovo a piangere. Come se una parte di quel messaggio fosse arrivato a segno.


Ed ecco che riparte il mio pensare. Perché non credo che sia obbligatorio combattere per tutto. Non siamo fatti per questo. Siamo fatti per vivere, non per inseguire qualcosa perdendo di vista tutto il resto. Quindi?
Non credo che la vita sia una lotta, eppure ho lottato con tutte le mie forze, un tempo. Ed ero viva.
E c'è in me abbastanza passione per ricominciare a lottare? Qualcosa per cui valga la pena farlo? Bruciare. Dentro.
Senza sentirmi perdente in partenza, perché a un rapido calcolo di probabilità io non ne ho alcuna. Di avere ciò che desidero senza farmi molto male, magari troppo, magari senza alcun risultato.
Ecco, io in questo momento sto lottando (qui sì, mentalmente) tra la parte di me che mi dice che non posso e quella che mi dice "almeno provaci". Costi quello che costi.
Perché va bene scorrere, va bene cogliere i segni dell'universo, va bene seguire la via più naturale. Ma qualcosa che mi faccia sorridere come so di poter fare; averlo, quel qualcosa, conquistarlo...
Forse è vero che la vita non è combattere, forse è vero che le battaglie dobbiamo sapercele scegliere per bene - perché la passione brucia e consuma tutto - e che rinunciare non è un fattore di disonore; forse è vero che scorrendo si vive meglio.
Ma riscoprire la passione e correre incontro a quella battaglia, non sarebbe una fine gloriosa?

2.10.16

Ricomincio da me

Chi mi segue sa che non è stato un gran periodo.
Non lo è.
Certo, ci sono tante, tantissime cose di cui sono felice. Di me, soprattutto, in molte sfaccettature.
Sono contenta delle persone che frequento, che mi piacciono molto. Che stimolano, apprezzano, non sono competitive e capiscono quando parlo.
Sono contenta dei miei progressi, dei miei sforzi cocciuti per restare giovane. Del mio aspetto, che poi dimostra che il lavoro funziona. Abbastanza da insistere.
Sono contenta dei risultati ottenuti, anche di quelli minimi. Perché ho tanto, comunque.
E ho ancora tanta strada da fare, prima di essere libera.
Devo crescere.
E lavorare.
E imparare a rispettare le mie esigenze. Imparare a dire più no. Imparare a rinunciare.
E scrivere, scrivere ancora.
La mia storia, le mie storie.

9.9.16

L'analisi illogica del testo 10 - Ottusi e infelici

Un po' il filo conduttore di "Scream", in fondo, ciò che facciamo per cadere in trappola.
Quelle idee stupide che vengono quando si è colti dal panico; un po' come in amore, a volte, anche.
So che in qualche modo, a parte i primi episodi di questa strana serie di post di analisi illogica, finisco sempre per prendere come metro di paragone un horror. Tant'è.

L'horror insegna a vivere, o meglio ci insegna quanto siamo stupidi, brutti, cattivi e senza speranza. Inutile mascherarci.

Così lo sappiamo già che Louis Creed, il protagonista di Pet Sematary di King, farà un errore seppellendo il gatto nel cimitero indiano. Perché è una cosa stupida e terribilmente umana. Piuttosto che spiegare "la morte" alla bambina più grande preferisce l'incognita della magia. E infatti il gatto mica torna normale. Ma è un gatto. Un animale, sarà quello che ha fatto andare storto qualcosa. E il gatto si può sempre sopprimere...
Stupido e umano.
Così come è stupido e molto umano quando a morire è il piccolo Gage. Troppo piccolo per andarsene, troppo dolore per tutti. E lo capiamo che sta facendo un errore quando ripete l'esperimento del cimitero indiano, ma capiamo benissimo perché lo fa. Perché siamo umani e ci piacerebbe poter fare una scelta in un momento di dolore che invece di scelte non ne dà.

E infatti non funziona, nemmeno con Gage. Bellissimo demonio biondo. Glielo aveva detto di non farlo, quel maledetto fantasma che lo perseguita da quando è arrivato a Ludlow, più volte. E niente, anche se qualcuno più saggio di noi prova ad avvisarci noi andiamo imperterriti col nostro sacco in spalla fino al cimitero indiano. Perché l'altra volta è andata male, ma questa volta no. Invece sì, va male un'altra volta. Non può andare diversamente, lo sappiamo noi e lo sa lui - nel profondo - ma preferisce raccontarsi una storiella. Quindi, dopo il disastro, ecco che Louis ci casca per la terza volta, non pago delle perdite subite fino a quel momento.

«Steve», disse, con voce alterata e incerta. «Ciao, Steve. Vado a seppellirla. Devo farlo solo con le mie mani nude, credo. Ci vorrà fino a stasera, forse. Il terreno lassù è molto sassoso. Non mi daresti una mano?»
Steve aprì la bocca, ma non ne uscì neppure una parola. Nonostante la sorpresa, nonostante l’orrore, lui voleva dare una mano a Louis. Chissà perché, là in mezzo a quei boschi, sembrava ben fatto, sembrava molto… molto naturale.
«Louis», riuscì a dire alla fine, «cos’è successo? Lei era… era nella casa in fiamme?»
«Ho aspettato troppo a lungo, con Gage», ribatté Louis. «Qualcosa si era impadronito di lui perché ho aspettato troppo. Ma con Rachel sarà diverso, Steve. So che sarà diverso.»
Barcollava un poco e Steve comprese che Louis era impazzito: lo capì perfettamente. Louis era folle e di una stanchezza abissale.


Inutile dire che cosa succederà dopo.
Il romanzo non lo dice, non tutto. Ma certo lo sappiamo, come lo sa Louis, che non può andare bene.
Eppure lo fa: compie ogni singolo passo verso la follia e la morte. Verso il fallimento.
Verso quello che aveva cercato di evitare con tutto se stesso.
In questo caso la perdita della sua famiglia, la morte e la sofferenza, che sono poi buona parte delle cose che temiamo tutti.
Sono anche cose che succedono facilmente.




Sto ragionando da tempo sulla perdita, sul perché e come le cose finiscono. Non perché voglia evitarmelo, non si può. Noi cambiamo, inevitabilmente, e il cambiamento ci fa paura perché è più semplice restare attaccati ai pochi dati certi che abbiamo, ai meccanismi che conosciamo.
Una leggenda tibetana narra che l'uomo sia nato dall'unione tra una scimmia e un demone. Non mi è difficile crederci. Perché un po' animali lo siamo, pure tanto, ma pensiamo di non esserlo. Perché siamo un tantino ottusi, quando si tratta di combattere le nostre paure o realizzare i nostri desideri.
Tendiamo a compiere le stesse azioni anche quando non hanno dato buoni risultati.
Tendiamo a non imparare dai nostri errori, o dalle esperienze negative. Così possiamo ripeterle all'infinito e avere lo stesso risultato altre mille, duemila, diecimila volte.
Insistiamo diabolicamente, nella strana convinzione che modificando una sola variabile dell'esperimento il risultato sarà differente.
Così in tutto.
Come in amore. E anche qui torno ai miei classici (orrore e amore, che siano parte di una sola cosa?).

Perché non impariamo mai dai nostri errori e tendiamo a ripetere la medesima modalità relazione dopo relazione. Comunque vada. Anzi, peggiorandola a volte. Non tenendo presente che abbiamo di fronte persone diverse e che magari per ogni persona c'è un modo diverso di interagire per instaurare un rapporto decente.

Ma noi no, caterpillar. Ci piace un'idea di relazione e vogliamo appiccicarla alle persone con cui stiamo. Ci piace quell'idea e proviamo a ripeterla finché non sarà esattamente ciò che vogliamo. Per poi magari fallire ugualmente per una variabile differente dalla volta prima.
Nella scelta dei partner, nel comportamento che teniamo, nel mostrarci diversi da ciò che siamo pur di farci accettare...
Un po' come tentare di avere un bambino per incastrare un/una fidanzato/a, anche fingendo, per poi tentare di avere un bambino per salvare un rapporto, cosa che "ai miei tempi" accadeva spesso.
Usiamo giochetti, piccoli inganni, strategie. E roviniamo tutto, spesso.
Tutto perché "la volta scorsa ho aspettato troppo, ma con Rachel sarà diverso".

Invece di fare la cosa saggia ed evitare la catastrofe.
Perché appunto siamo tutti diversi, reagiamo a cose diverse, abbiamo paure e desideri simili ma non uguali. Abbiamo un passato che è inciso nella carne. Abbiamo bisogni differenti.
Quello che per un po' ha funzionato con qualcuno, non necessariamente funzionerà con noi.
Forse basterebbe non ripetere gli schemi, non fare ciò che ci si aspetta da noi (ciò che ci aspettiamo da noi stessi) e non cadere in trappola. Per non essere ottusi e infelici.

Siamo davvero condannati a ripetere sempre gli stessi errori?


24.8.16

Ero qui

Stavo sistemando alcune immagini su Canva per farmi pubblicità, per poter dire che ci ho provato.
Il sito offre una serie di possibilità e spunti, niente male. Poi il resto lo devi far tu. Come sempre.

Non ho fatto tutto quello che volevo, non ancora. Mi stanca abbastanza in fretta, perché i romanzi pubblicati sono storie terminate e tornarci su in continuazione mi deconcentra e annoia. Per quanto mi piacciano e sia felice di averli scritti e pubblicati, sono distanti da me.
Però credo che per un po' sia sufficiente. Manca "Gli attimi in cui Dio è musica", ma recupererò.
Ero qui e mi chiedevo quanto poi sia utile. Mi dicono di sì, io non ci credo molto, ci provo. Forse dovrei essere più convinta.
Le notizie al telegiornale non sono rassicuranti né piacevoli.
La posta non porta grandi novità, più che altro bollette e scocciature.

Sembra che io non riesca a liberarmi in fretta, ma prima o poi, non demordendo...

Poi ecco.
Ero qui e il mio editore ha appena comunicato che "molla" la casa editrice ai nuovi arrivati. Son segnali. Perché poi da quando non arrivati non è che le cose siano migliorate, quindi osservo e lascio che sia il tempo a fare ciò che deve. Per seguire il flusso. Non è che non me lo aspettassi. Quindi, come già era nell'aria da tempo, è ora di ricalibrare il tiro. E l'inquietudine riguardo allo scrivere di questi tempi era anche lei un segnale, le decisioni prese ultimamente credo siano arrivate sull'onda. In anticipo forse, ma in linea. Fine di un'era - piccola.

E non a caso ho ricominciato a scrivere e a progettare, senza immaginare uno sbocco sicuro per le mie storie. Perché di opportunità ce ne sono decine, forse centinaia. Quali siano valide e sicure da fregature e delusioni è difficile da dire. Ovviamente. Si basa tutto sull'esperienza altrui, che però a volte è un criterio soggettivo e che magari vale per il rapporto di chi ci parla con il "suo" editore, cosa che non garantisce lo stesso rapporto a te. Tutto troppo vago per farsi un'idea in poco tempo.

Come anche erano vaghe le risposte ultimamente. Le vendite nulle, le royalties in ritardo (anche qui, da pagarsi una colazione abbondante, mica comprarsi un paio di pantaloni), le comunicazioni diradate. Oggi anche altre novità, che a me non son piaciute granché. E in ogni caso già non ero più così entusiasta. Quindi si ricomincia, come ogni volta.
Con il cinismo e la curiosità felina che mi contraddistinguono. Senza inutili entusiasmi, con il solito duro lavoro. Ora aspetto una risposta per "Area..." e comincio l'editing di "Tutto...", e intanto scrivo.
Altro. Sempre.
Ero qui...

Sono qui.

Domani chissà.

12.8.16

Le relazioni pericolose - Singolare femminile 4

Certe volte il luogo più sicuro è quello in cui corriamo più rischi.
Questo ci è molto chiaro quando sentiamo parlare di femminicidio, di violenza domestica o cose simili. Ci è meno chiaro se sentiamo parlare di violenza psicologica, anche se molte persone ormai conoscono la portata di questo problema.


Certe volte il luogo più sicuro è quello in cui corriamo più rischi.
Sembra assurdo se paragonato a ciò che ho scritto prima, ma non è solo la violenza il pericolo che corriamo. Non parlo come donna ma come essere umano, perché le relazioni pericolose di cui voglio parlare sono normalissime relazioni, perlopiù sentimentali.



A cena discutevamo di come a volte per proteggerci creiamo dei muri che diventano prigioni. Una corazza, come a volte sono i chilogrammi di troppo, per difenderci dal mondo circostante. Utile, certo, nei momenti di difficoltà. Quando siamo feriti o depressi, quando abbiamo bisogno di limitare i danni per ripartire. Allora quelle difese servono, come le menzogne che raccontiamo a noi stessi per poterci perdonare un giorno. Perché non ci sentiamo all'altezza delle nostre o altrui aspettative, perché non abbiamo rispettato il nostro codice, perché non siamo stati abbastanza "vincenti".

Non sono però le relazioni che vanno male, quelle più pericolose. A volte sono quelle che funzionano a essere le più dannose. Sembra assurdo. Quelle che vanno male ci feriscono, torturano, ci fanno piangere e impazzire. Ci fanno passare ore a discutere con amiche o amici ma ci fanno crescere. Ci fanno crescere sempre. E questo non è mai un male.
Quelle pericolose sono invece più subdole. Sono quelle che ci fanno sentire al sicuro, sistemati e a posto. Tranquilli. Quelle che ci addormentano i sensi e la volontà, che in cambio di quella pace fittizia ci toglie ogni stimolo a crescere.
Quella calma che ci fa stare bene così, che non ci spinge a migliorarci, che non ci mostra i nostri difetti se non nelle parole dell'altro, perché di solito in queste gabbie ci si finisce in due. E si fa di tutto per mantenere quell'equilibrio così comodo e così rassicurante, tanto che ci si scorda qualsiasi necessità. Ci si adatta, ci si adegua, ci si muore in modo silenzioso.

Le relazioni pericolose ci intrappolano in un paradiso artificiale di sabbie mobili che se da una parte ci proteggono da qualsiasi possibilità di rischio, dall'altra ci tolgono la passione e la propensione al sogno. E senza sogni ci limitiamo a vegetare, sicuri dentro alle nostre mura difensive, fino a una morte opaca per carenza di stimoli. Perché se è vero che le passioni forti finiscono per logorarti, è anche vero che senza passione non si cambia e non si cresce, non ci si scopre altro da ciò che gli altri ci hanno sempre rimandato, non si vive.

8.8.16

Destino

Il 12 giugno scrivevo questo:
Nel sogno lui controlla i blog che segue. Il più importante, il preferito, ha un post in home page che dice: "Ancora 52 giorni e si chiude".Mai che mi arrivino più numeri in un sogno solo. L'unica volta che è successo non li ho ricordati. Un amico mancato da poco mi elencava le ragioni per cui sono una bella persona ma la numerazione di tali motivi non aveva un senso logico. Peccato non averli segnati al risveglio. Qualche istante dopo erano andati.

Il dubbio era se il numero fosse 52 o 56. Così mi sono segnata i giorni, contandoli sul calendario. Cinquantadue giorni erano il 4/8, il giorno prima del mio compleanno, il giorno della Luna nuova in Leone e di Marte in Sagittario. Secondo il mio astrologo di fiducia (Simon & the Stars) è un inizio importante, dopo mesi se non anni di pesantezza - che in effetti c'è stata.
Cinquantasei giorni sono oggi. Non so perché ma mi sembra che sia oggi il giorno giusto. Oggi inizio le pratiche per recedere dal contratto per "La caccia" e "La festa", i due racconti vampirico-erotici che avranno presto o tardi una vita diversa. Oggi ricevo il mio regalo di compleanno (nel ritardo canonico di Prime) dalla mia famiglia - che sarà di buon auspicio per le mie scritture future. Stasera festeggio con gli amici di sempre (e un infiltrato di fiducia) - e qui altri regali non meno importanti ma meno importanti della compagnia - e oggi, sì, mi sento "nuova".
Che a 47 anni è già parecchio.


Poi c'è stato un altro sogno, in effetti.
Il maestro e io camminavamo insieme e lui rideva e scherzava, e chiacchieravamo. Lui mi chiedeva qualcosa e io gli rispondevo. Poi gli ho chiesto: "ma questa cosa, quando la risolverò?" e lui ha risposto "aspetta dopo la cena".
Dopo la cena. Quale cena? Perché un "la" presuppone una cena specifica. E boh?
Insomma, se ascolto i miei sogni i presagi di un cambiamento ci sono.

Intanto ho fatto due chiacchiere con la mia amica ed editor, che mi aiuterà a concludere anche l'avventura di Antonella, Giulia ed Emiliano. Perché, come con la storia di Jack e Jane, potrei andare avanti all'infinito e non concluderla mai. Invece ho bisogno di chiudere.
Chiudere e respirare con qualcosa di nuovo, con personaggi e ambienti diversi. Anche se poi magari significa riprendere in mano il "tascabile" per l'ennesima volta e stavolta magari dargli una versione definitiva. Che un po' se la merita. L'ho maltrattato troppo, tra un torneo e una prima stesura. Deve avere la sua conclusione, o finisce che non lo farò mai - come il primo romanzo che ho scritto e che ancora sta lì all'ennesima riscrittura e non mi piace ancora.

E ho delle storie in mente, altre, oltre ai miei soliti progetti aperti. Due, prima di altre idee abbozzate. Solo ancora non so come svilupparle. Quindi attendo.
Un racconto da ampliare, anche.
Devo solo ricominciare.
Le strade sono tante, ma so che sceglierò quella giusta lasciandomi trasportare dall'istinto, come sempre. In un modo nuovo.
Più libera.

4.8.16

Giro di boa

Ci sono.
L'ultimo giorno dei miei 46 anni. Volente o nolente ho dovuto fare alcune considerazioni nel corso degli ultimi mesi e sono qui, ancora, a raccontare di me.
Grazie alla super-fanta-mega promozione della mia casa editrice, le versioni digitali di "Gli attimi in cui Dio è musica", "Addio a Bodhgaya" e "Sette stanze" sono in offerta per tutto agosto a € 0,99.



 Il che è già qualcosa, visto che ogni romanzo costa meno di un caffè e che in vacanza si legge più volentieri...
I racconti pubblicati, sempre con lo stesso editore, sono già a € 0,99 normalmente.

Vi consiglio di acquistare, se non lo avete già fatto, il racconto erotico/vampirico "La caccia". Ora vi spiego perché.
Per diversi motivi ho deciso di ritirarlo dal mercato, cosa che avverrà presto. Innanzitutto perché come racconto è già "fuori" da un paio d'anni e non ha più la visibilità di un tempo, soppiantato dalla miriade di uscite (di qualsiasi genere si tratti), poi perché il suo seguito era pronto da parecchio e per vari inconvenienti dovuti alla ristrutturazione/ampliamento della casa editrice, le collane di racconti non hanno avuto modo di uscire; nel frattempo c'è già in parte il terzo episodio e le idee per un quarto e quinto non mancano. Quindi ho pensato di riprendere tutto in mano ed eventualmente trasformare questi episodi in una storia unica. Dopo averla rifinita e corretta e ancora riletta.
Quindi... se ancora non l'avete fatto, prendetelo subito, che tra un po' sarà introvabile.

L'altro racconto, che resta una delle cose più belle che ho scritto, resterà lì. Non lasciatelo solo, sono sicura che potrebbe arrabbiarsi. Non per niente è una ghost story... "L'altra donna" vi aspetta.

Ho fatto un piccolo ordine di copie cartacee de "Addio a Bodhgaya" e "Sette stanze", non ho ancora programmato presentazioni e non voglio riempirmi la casa di libri. Alcuni amici ne hanno già prenotate un tot di copie, se dovesse interessarvi averle con dedica e al prezzo di copertina senza spese di spedizione potete contattarmi e ci metteremo d'accordo per spedizione e pagamento.

Ed ecco la parte succosa del post...
Siccome ho salvato dal macero qualche copia de "Gli attimi in cui Dio è musica" e non ho spazio in casa, ho deciso di fare una pazzia e di mandarne una copia a chi me la chiede con questa piccola richiesta: lo leggete, decidete quanto vi è piaciuto e pagate tramite Paypal di conseguenza. 
Diciamo che se vi è piaciuto zero io ci rimetto la spedizione e il prezzo del cartaceo da macero, se vi è piaciuto così così magari rientro delle spese e se vi è piaciuto davvero mi posso permettere cappuccio e brioche per un paio di giorni. Così, per fare un qualcosa di diverso.

Domani è il mio compleanno, ho deciso di non perdere troppo tempo dietro alla mia "Sindrome di Grisù il draghetto", di dedicarmi alle cose che mi piacciono e via così.

31.7.16

Il mio regalo di compleanno numero due

Venerdì pomeriggio mi sono concessa il mio secondo auto-regalo di compleanno.
Tre workshop di seguito con Daria Che (o Chebotova che dir si voglia), star russa dell'exotic pole dance.
Inizio alle 18 con "Exotic style", novanta minuti di sudore coreografato su palo fisso. Una fatica come raramente ho provato in vita mia. Bello, stile da imparare - Daria ha il suo, particolare - gli anni che si fanno sentire minuto dopo minuto. Piccolina, lei, se la vedi senza tacchi e in incognito mai penseresti che sia in grado di fare certe cose con tutta quella energia.
Fisicamente è la metà di me (ci va pochino) e anche a età secondo me ne faccio due e mezza. Ma io ostento indifferenza e cerco di seguire tutto. E ce la faccio, anche se ogni tanto una capocciata nel palo la prendo e se proprio le mosse alla Bruce Lee non sono il mio forte. Sì, insomma, Natalya mi dice sempre che devo scegliere musiche lente e non stancarmi troppo; un motivo Che... (non ho resistito, scusate) un motivo c'è - tanto si pronuncia uguale...
Nei miei leggins mimetici, con ginocchiere enormi e tacco 15 ho affrontato dignitosamente le evoluzioni per tutta la lezione.

Verso le 19,30 si parte con "Choreography by Daria", altre evoluzioni sul fisso, niente di altamente acrobatico ma tra il caldo e l'età comincio a cedere. Il polso destro, nonostante la polsiera ben salda, non regge così bene, mi si aprono i calli su dita e palmo, ho un colore che si avvicina al melanzana. Bello, cose che mai avrei pensato di riuscire a fare, anche se ogni volta più affannata. Alla fine cedo e le ultime due prove le salto e le registro solamente col cellulare.
Vedere Daria eseguire i suoi movimenti fa capire quanta strada abbiamo ancora da fare (anche se un paio di elementi promettono decisamente bene) e quanto alla fine ognuna di noi abbia un suo stile nell'eseguire la stessa coreografia, pur tentando di imitare il suo. Rivedo il video e ti prometti di riprovarci, magari un sabato mattina di practice time. Finché non sarà tutto fluido e naturale, come lo è per lei.

Per le 21 sono morta. E sta per iniziare la lezione più difficile. A questo punto abbandoniamo momentaneamente i tacchi e ci addentriamo nel mondo acrobatico di Daria, con i suoi "Exotic Elements".
Qui ho un attimo di sgomento.

Non sono preparata, né flessibile, né forte abbastanza. E sono stanca, sudata e dolorante. Polso, mano, crampi a polpacci e tiranervi ai piedi. Faccio qualche video, poi provo a imbastire il movimento. Daria mi vede in difficoltà e cerca di capire cosa fare per farmi lavorare come le altre, che almeno ci provano. Qualcosa faccio, più di quanto avrei potuto immaginare. Ma davvero, con le lacrime agli occhi (e qui rivendico il mio diritto di donna a piangere nei momenti complicati) più di così non posso. Non ce la faccio. A stare in verticale su una mano sola, tra l'altro saltandoci all'indietro, proprio no. Forse tra qualche anno, forse la prossima vita.
Però la adoro. Lei, il suo modo di ballare, di insegnare, di ridere quando sbaglia. Di aiutarti, o di ignorarti quando serve.

Tornerà in Italia a Novembre, forse sarebbe da fare un pensierino e rivederla, tentare di nuovo un tris oppure semplicemente fare la parte difficile e allenarsi nel frattempo per poterci provare davvero.
Chissà?

30.7.16

Offerte, non offerte e ulteriori news.

Eccomi qui, non che non abbia prodotto in vari modi diversi nel frattempo. Il fatto è che non sono particolarmente contenta e sto prendendo diverse decisioni.
Innanzitutto vi informo che sono usciti i cartacei sia di "Addio a Bodhgaya" che di "Sette stanze".

L'ho scoperto per caso, googlandomi, in entrambi i casi. Il che non mi è piaciuto. Anche il fatto che fossero dapprima su tutte le piattaforme sebbene su alcune non fossero dati come disponibili subito, e ora siano misteriosamente scomparsi. Tranne che su Youcanprint, che fornisce i cartacei del mio editore.
Comunque...

I cartacei sono usciti, ho fatto un piccolo ordine per rifornire gli amici che già me li chiedevano e informato i miei contatti di Facebook e Google Plus, e Twitter...
Non ho ancora organizzato presentazioni, quindi non conto di venderne tantissimi. Vedremo.

Per il resto, le versioni digitali di tutti i miei romanzi sono in offerta estiva a € 0,99 cadauno.
Chi non avesse ancora letto i miei lavori può approfittare ora. Un romanzo a meno di un caffè.

Non sono in offerta i due racconti, che già costano € 0,99 normalmente.

Non sono in offerta nemmeno i cartacei, a meno che non li richiediate a me personalmente.




Sto meditando su alcuni cambiamenti da apportare al mio modo di scrivere-propormi-vendere. Sul mio modo di pubblicare, anche. Appena ne vengo a capo di sicuro vi faccio sapere. Intanto vi ricordo che ci sono i miei racconti scaricabili gratuitamente qui sul blog. Non ne ho di nuovi, per il momento.

La mia pausa con la scrittura finirà, prima o poi. Le idee non mi mancano mai, ma l'urgenza del momento riguarda tutto il resto e non ho nessuna voglia di farmi abbattere proprio ora.

11.7.16

Non gioco più, me ne vado... (e mi porto via il pallone)

Tutte le volte che sento parlare del blocco dello scrittore mi spunta un sorriso, non credo mi sia mai successo. Sì, ovviamente ho avuto momenti in cui non avevo ben chiaro come procedere con un progetto ma ce n'era sempre un altro con cui andare avanti e troppe idee, a volte tante da non sapere da dove iniziare. Ho sempre amato scrivere, ho sempre scritto, da quando ho preso la prima penna in mano.
Amo raccontare storie, come amo leggerne. Amo inventarne, amo osservarle nel quotidiano e ripetermele come una bimba prima della nanna. Le storie che ho in mente spesso mi possiedono, mi perseguitano giorno e notte, ossessione di immagini che si ripetono nella mente e che di volta in volta si perfezionano. Tanto che quando scrivevo, perché non scrivo ogni giorno, venivano giù da sole.
Un tempo, almeno.
immagine presa dal web

Da quando ho pubblicato è cambiato tutto. Lentamente, fino a non farmi più felice. Fino a farmi decidere di smettere, se non mi ritrovo.
Finché scrivevo per me andava tutto bene. Per me e per chi aveva voglia di leggermi, pochi amici, senza grosse pretese. Se qualcuno aveva da suggerire correzioni, da fare qualche critica, l'ho sempre accolta con piacere e umiltà. Sognavo la pubblicazione, non la fama ma quel piccolo riconoscimento del mio lavoro.

Ci ho messo cinque anni a pubblicare il primo romanzo, dopo aver venduto un centinaio o forse più della mia raccolta di poesie. Non era il primo romanzo cui lavoravo, ma era il più personale. Poco commerciale, più un diario - o come lo definisco un "album fotografico" - senza grossi colpi di scena e con un suo svolgimento lento e monotono come i giorni che passano in una vita che non si ama contrapposta a un sogno in cui si desidera vivere. "Gli attimi in cui Dio è musica", a cui qualcuno attribuisce una profondità che altri non vedono, mi ha dato delle soddisfazioni.
C'è che pubblicare, soprattutto con un piccolo editore, ti porta a dover vendere in prima persona il tuo prodotto. Che va bene se non hai niente da fare ma se hai già un lavoro, una casa, una vita e altre cose da scrivere è un lavoro in più che finisce per farsi pesante. Poi ci sono gli altri, quelli con cui hai a che fare soprattutto sulle pagine social. Quelli che sfornano vendite, recensioni, pubblicità a oltranza, posti in classifica e milioni di fan. Tu magari manco ci pensi alla classifica, ma sentirti ricordare che esiste ogni due minuti prima o poi ti fa andare a vedere. E i report di vendita anche, se prima non te ne preoccupi affatto a un certo punto vai a guardare. E ti chiedi come fare per aumentare la visibilità, ma non è cosa tua e lo sai, non è quello che sai fare. Non solo, se lo fanno gli altri ti infastidisce e per principio non fai agli altri quello che non vuoi per te. Quindi ti dici ok, non spammo, non chiedo recensioni a destra e manca, non massacro gli amici con continui post su Facebook sul mio libro - tanto quelli che lo volevano comprare lo hanno già fatto e probabilmente hanno acquistato sia il cartaceo che l'ebook.

Alla seconda, terza, quarta e quinta pubblicazione mi rendo conto che faccio troppa fatica. Che non è questo che mi piace, che per soddisfare le aspettative devo diventare qualcuno che non sono e che non voglio essere. Terminato anche il romanzo che ho amato di più, al pensiero di ricominciare la trafila per non pubblicarlo come gli altri e non riuscire a venderlo ho cominciato a chiedermi se mi avrebbe reso felice. Non lo so.
So che aprire un file per continuare una storia già iniziata o terminarne una che è a buon punto, o iniziarne una nuova mi fa sbuffare al pensiero. Non ho più voglia, non vale la pena. Non così.

Io le mie storie le conosco e posso "rileggerle" nella mia mente ogni volta che voglio; anche quelle che non ho mai scritto, quelle che sono tra i progetti. Come se avessi una serie di tomi a disposizione, solo che non sono scritti. Ci sono talmente tanti libri che certo nessuno sentirà la mancanza dei miei romanzi o racconti. Ci sono talmente tanti aspiranti scrittori che sgomitano che non si farà caso alla mia mancanza.
Non è un gioco per me.
Probabilmente non lo è mai stato. In fondo a me piace sognare, non ho dimestichezza con la realtà.
Non ho nessuna voglia di unirmi al gruppo, di motivi per essere insoddisfatta ne ho già a sufficienza. Preferisco fare qualcosa che mi renda felice. 

8.7.16

1984

Colpa della radio.
Soltanto un'ora di trasmissione e... c'era tutto di me.
Che anno, il 1984. Non solo per il libro, il romanzo di Orwell non c'entra molto con quegli anni della mia vita.
Il 1984 è l'anno in cui il sogno è iniziato. L'anno dei miei 15 anni, il primo anno di libertà. L'anno dell'inizio del disastro, l'anno del mio diventare donna, scoprirmi femmina. L'anno del gridare "io esisto" ("Hear my roar", parlando da Lannister - e ogni adolescente ha tutti i diritti di sentirsi Lannister, per il breve tempo che gli è concesso).
Cinzia cantava in playback "Pride" degli U2, struccata e pallida nella mia camera da letto, prima di andare in discoteca. Ero sua amica, ma lei era il mio mito. Prima ballerina della scuola, dotata, bella, sicura di sé. Tutto quello che avrei voluto essere io. E io facevo l'amica "brutta", cosa che in seguito qualcuno avrebbe fatto per me.
Sognavo coreografie "erotiche" sulle note di "Relax" dei Frankie Goes To Hollywood, prima. E adoravo "The reflex" e "Smalltown boy" (ancora una delle canzoni che mi fanno venire i brividi), e ogni singolo brano uscito allora.
L'anno in cui ho abbandonato la mia "vera casa" e sono diventata profuga.
L'anno in cui ho sperato di avere una chance.
Come fosse una guerra mondiale io ho sempre considerato il mio periodo "15/18" come una parte unica della mia vita. Iniziata con un sogno e finita con un incubo e il relativo crollo.
Ma il 1984...
Quello è stato l'anno della mia vita.

Poi è arrivato il 2014, ma questa è un'altra storia.

5.7.16

Choc all'amarena

Come alcune canzoni restano attaccate a determinati eventi della vita, così succede che alcuni sapori rimangano legati indissolubilmente a degli episodi della vita.
Così alla mia infanzia mi ritrovo ad associare le lenti di zucchero colorate, che la bisnonna teneva i una scatolina accanto al letto e che mi dispensava con parsimonia. Non che siano eccezionali, hanno un sapore ormai del passato, ma ogni volta che ne mangio una mi torna in mente quella stanza e tutti i suoi oggetti preziosi, la collezione di animali di porcellana che teneva in vetrina, il suo tavolo da toelette, i nastri di velluto con cammeo che portava al collo.
Non è l'unico sapore che mi torna in mente; per esempio la pizza al padellino che compravamo mamma e io prima di andare in montagna, quando andavo alle elementari. Nella sua carta oleata, rigorosamente margherita, insieme a una lattina di birra e a una bibita gassata per me. Non ne mangio più, preferisco quella al mattone, ma ogni volta che penso alle nostre gite in maggiolino mi torna in mente quel sapore bruciacchiato e unto, la pasta che resta spugnosa e l'olio rosso che campeggia sulla carta. Oppure le pause pranzo quando andavo a Leumann con mamma, in una trattoria per camionisti e ogni volta ordinavo pasta in bianco: burro e parmigiano - ancora uno dei miei piatti preferiti. E la mia passione sfrenata per la pasta al pesto, che ho costretto a cucinare per mesi a pranzo e cena, altrimenti non mangiavo. Sono sapori che ancora mi rendono felice. Come il petto di pollo impanato, sottile sottile, che era l'ultima risorsa di famiglia per stimolare il mio appetito quasi inesistente. O i grissini "pucciati" nella Nutella, credo di averne mangiati a chili...

Allo stesso modo gli eventi negativi possono legarsi a determinati cibi e farceli odiare per sempre.
Come i Pavesini, che mi hanno portato dopo l'operazione alle tonsille - a quattro anni - e che non mangio se non sotto minaccia. Non so se prima mi piacevano, non lo ricordo. So che dopo il trauma della pre anestesia, che mi ha agitata e terrorizzata, una volta sveglia ho detestato le prime cose che mi hanno portato: i ghiaccioli arcobaleno e i Pavesini.
Forse erano sgradevoli a causa dell'anestesia, forse non li avevo mai amati troppo, però non riesco a guardarli con simpatia nemmeno ora che di anni ne sono passati parecchi.
Come la pasta col pomodoro, mangiata ogni sera a casa del fidanzato psicopatico. Tutto sempre affogato in un mare di pomodoro passato con al massimo una foglia di basilico, leggermente acido e indigeribile. Se vedo la pasta al sugo mi viene mal di stomaco in automatico.

Poi ci sono le aspettative deluse: la cosa peggiore.
Quei cibi che ti sembrano una cosa e per qualche motivo non rispettano le premesse. Se ti capitano da piccola sono veri e propri choc. Per esempio a me piacevano da morire i ricoperti al cioccolato. Parlo sempre di quando ero piccola, molto piccola. Addentare la copertura e i suoi pezzetti croccanti di nocciola per arrivare al gelato e sotto al cuore di cioccolato... mmmhhh...
Era una di quelle estati in cui mamma mi faceva andare a Castiglioncello con la tata un mese prima di raggiungerci. L'alloggio al pianterreno col giardino, il pergolato e la ghiaia. L'anno in cui ho scoperto che Montgomery Clift era morto da un pezzo anche se io potevo vederlo giovane e in salute in televisione. Quell'estate volevo un ricoperto al giorno. Ogni pomeriggio era una delizia.
Così quel giorno andai con la tata al bar a comprare il gelato. Tornammo a casa in fretta e io scartai il gelato assaporando il mescolarsi rapido di gelato alla vaniglia e cuore al cioccolato.
Non fu così. Per errore avevamo comprato la versione con l'interno all'amarena. Non me lo aspettavo. Un morso deciso e la bocca invasa dal sapore della frutta, che già detestavo all'epoca. Poi quel sapore in particolare, dolce e amaro insieme... Inutile raccontare la fine del povero ricoperto all'amarena.
Quello che però è rimasto è il sospetto che ogni ricoperto nasconda una terribile sorpresa, per cui ancora oggi non mangio ricoperti con l'aspetto di quel singolo gelato sbagliato. Non mangio nemmeno le amarene, la marmellata di ciliegie, qualsiasi dolce o yogurt o gelato che abbia l'amarena dentro.
Anche se sono convinta che alcuni alimenti che rifiutiamo li detestiamo perché in qualche modo ci fanno male - o ce ne faranno - penso che anche ciò che mangiamo resti in noi e si leghi a ciò che siamo, ciò che vorremmo essere e che non vogliamo più avere addosso. Come i vestiti e i tagli di capelli, come il ristorante in cui andavamo un tempo con il nostro ex.
Come quella canzone che ogni volta ci porta alle lacrime...

3.7.16

Ancora un saggio, emozioni non da poco.

Un anno, è già passato un anno dal mio primo saggio di pole dance. Sembra una vita: un anno di lezioni due o tre volte alla settimana, un anno in cui ho fatto entrare due gare e altri due mini-saggi, un anno in cui molto e molto poco è cambiato.

Rispetto all'anno scorso ho provato molto meno la coreografia e si vede, o meglio io lo vedo, ma i movimenti sono più fluidi comunque. Sono più sicura, ovviamente; non so se sono più brava. Se il primo saggio ha rappresentato una sfida - movimenti appena acquisiti e ansia da prestazione - questo vede il consolidamento di figure note e qualche piccola novità eseguita "in piccolo". Un po' per il caldo, un po' per stanchezza, non ho voluto esagerare. Ho viaggiato al minimo, valutando secondo per secondo quanto potevo fare senza farmi male. Alla fine era una festa, non era una gara.

Sono stata io ad aprire le danze, per così dire. Dopo di me, in ordine di "anzianità" scolastica, le mie compagne di viaggio di quest'anno.


Bello vedere il primo saggio di Alessia e Federica, che hanno preparato un pezzo in coppia. Bello perché le ho viste provare ogni sabato mattina e ridere e scherzare sempre, sia quando le figure riuscivano sia quando - per dirla con Alessia - "meglio se questa posizione la raggiungo di schiena, così non mi vedono l'espressione di dolore sul viso".
Loro, che hanno iniziato a settembre, hanno fisici differenti e una "storia di pole" diversa. La passione comune. Entrambe hanno accompagnato "il capo" Natalya sul palco di Roma per il Pole Theatre Italia (che Nat ha vinto nella categoria Classique) facendole da corpo di ballo insieme a Maria, Valentina e Giulia; in più Federica ha partecipato a Exotic Moon insieme a me. Il prossimo anno saremo tutte a Modena in gara nella stessa categoria.


Il trio birichino del corso intermedio, composto da Claudia, Christel e Sara, ha presentato un pezzo degno della categoria Comedy del Pole Theatre: un'infermiera, una studentessa e una colf in versione sexy che volteggiavano a gamba lunga (e che gambe) sulla musica dei Queen. Smorfie, gag e tanta energia mentre si alternavano in pezzi da solista o ancheggiavano in sincrono. Per dire che la pole non è solo essere femminili, ma anche saper ridere della propria carica sensuale e dei cliché che "rincorrono" questo sport.
Probabilmente non c'è cosa che dia più fastidio a una polerina di essere sempre considerata una stripper o una lap dancer. La differenza c'è. La cosa divertente è il poter giocare un ruolo per quei pochi minuti e poi tornare a casa come eravamo prima ma col sorriso sulle labbra.
Tra loro anche Claudia ha partecipato a Exotic Moon.







Prima esibizione da solista per Valentina, anche lei tra le nuove leve, fluida e sinuosa. Carica di energia, con una coreografia che riuniva tutte le "difficoltà" della pole: flessibilità, flow movement, handstand, forza e tecnica. Veloce, spiritosa e molto "danzerina". Una esibizione che poteva stare bene anche sui tacchi, che indossiamo insieme il sabato mattina, ma che aveva il suo perché anche senza, anzi.
Dall'alto della mia "veneranda" età, mi piace molto notare i progressi di chi ha iniziato la pole quasi all'età giusta, ogni settimana mentre noi ci scaldavamo, loro - le fanciulle - imparavano queste cose con una certa facilità (io poi certe posizioni temo che non le farò mai in questa vita, ma non demordo). Le si guarda, si ripassano alcune basi che a forza di tentare le figure più difficili si dimenticano un po', si capisce meglio il movimento, si studia come migliorarsi.
D'accordo, ognuno ha i suoi tempi, ognuno le sue caratteristiche fisiche e psicologiche. Nessuna di noi è uguale all'altra e nessuna impara in batteria. Ognuna mantiene il suo stile e c'è chi certe cose le ha innate e chi no e ci deve lavorare.
Quello che mi piace, qui, è che tutte le mie compagne di avventura sono bravissime, dalle novelline alle ragazze dell'avanzato.




Poi è stato il turno di Maria, che dopo aver vinto nell'intermedio a Modena e aver ottenuto un ottimo secondo posto all'Exotic Moon, ha improvvisato un pezzo nel suo completino marca Bembo. Con le sue linee, le spaccate, la naturalezza con cui si muove tra il palo fisso e lo spin, capelli al vento e sorriso sicuro. Non lo voleva fare, fino all'ultimo. Invece è stata fantastica come sempre. Dal suo cavallo di battaglia, il suo nomignolo ora è "Mary Jade", alla combinazione appena imparata. Dannatamente brava e adorabile.
Ora tocca vedere l'anno prossimo in cui saremo una marea di ragazze nello stesso corso e quello dopo, in cui loro andranno avanti come dei treni e io resterò un po' indietro come sempre. Meraviglie dell'età, temo. Grandissimi stimoli a crescere.











Il primo saggio di Silvia, che ha aspettato tanto, provando la sua coreografia e allenandosi sempre con tutta se stessa. Un bellissimo mix di forza e di grazia, linee lunghissime e sguardo dolce. Atletica e sempre bella da guardare. Aveva una fan di eccezione, possibile che tra qualche anno la piccoletta che la guardava estasiata si avvicinerà al palo con la stessa curiosità di ieri sera. Silvia, con cui faccio lezione regolarmente da quasi subito e che mi stupisce sempre per la facilità con cui arriva a fare le cose più complicate. Passerà altrettanto rapidamente per lei, il tempo tra questo e il prossimo saggio?









La prima delle veterane, una Silvia più bionda del corso avanzato, ha tentato una sfida: restare sul palo per tutta la durata del brano compiendo evoluzioni continue tra forza e flessibilità. Qualche intoppo iniziale prima della sua partenza poi, in completino leopardato, ha fatto di tutto senza scendere dal palo spin anche quando avrebbe dovuto spingersi con una mano. Come ognuna di noi non è affatto contenta della sua performance, ma ci siamo sgolate tutte per farle sentire il nostro entusiasmo.
Diciamo che rispetto all'anno precedente è stato un saggio che era più una festa tra noi, non affollato e poco caotico. Tanto il casino lo facciamo benissimo noi. Alcune delle ragazze tra il pubblico non hanno partecipato per mancanza di tempo, preparare una coreografia richiede un minimo di impegno e non sempre si riesce a far combaciare ogni cosa. Però erano lì a fare il tifo per noi e a incoraggiarci tutte. A fare festa, appunto.








La prima allieva di Natalya, le "gambe più lunghe della scuola", l'ultima a esibirsi è Margaret, anche lei con una improvvisazione. Anche lei secondo posto a Exotic Moon per la categoria semi-professionisti, ci ha fatto vedere alcuni dei suoi passaggi migliori, facendoli sembrare facili, con le sue spaccate e la sua flessibilità da ginnasta. Senza esagerazioni, nel suo stile, con il sorriso delicato che la contraddistingue.
Resto sempre a bocca aperta mentre la guardo fare cose che mi sembrano impossibili, scalza o con il tacco 20 - come se le servissero centimetri di gamba - tenendosi per un gomito o appoggiandosi su un'orecchio.
Siamo quasi una famiglia, alla fine. Da quando sono arrivata ho visto le mie compagne abbandonare pian piano, chi per un motivo e chi per un altro. Quelle che restano si stringono tra loro, si sostengono e aiutano senza risparmiare energia. Non importa di che corso siano.









Ovviamente a chiudere la serata è stata Natalya, che ha improvvisato una coreografia sulle note di una canzone russa. Morbida, sinuosa e con la sua innata eleganza. Da urlo, come sempre. Per tutto l'anno, agosto compreso, ci ha fatto allenare, ha spiegato passaggi, incoraggiato ognuna di noi a continuare nonostante la fatica o i momentanei insuccessi. Per noi che la conosciamo, che la vediamo allenarsi per le gare, che sappiamo quanta forza di volontà ci vuole a mettersi lì ogni giorno nonostante tutto, Natalya resta un esempio impareggiabile. Grazie a lei e alle ragazze con cui condivido questo viaggio, io sono qui che continuo a imparare. Noi siamo qui. Ed è bellissimo.



12.6.16

Speciale Sette Stanze - parte 2

Speravate che me ne fossi dimenticata, vero? Invece no. Insisto.

Siccome sono contenta per l'arrivo del cartaceo, non posso non ricordare quando la pubblicazione non era nemmeno prevista. Perché in un "ambiente" in cui le attese sono infinite - e ti permettono di scrivere e scrivere romanzi tra una pubblicazione e l'altra - a volte ti tornano in mente le risposte e le soddisfazioni che ti arrivano da ogni lavoro.

Ormai lo sapete, in "Sette stanze" c'è un tizio che vomita e c'è una giovane cameriera. Si tratta di un romanzo sentimentale e introspettivo, si tratta di una vita da ricostruire, come una casa, una stanza per volta.

Qui di seguito gli ultimi otto giudizi ricevuti per le prime 24 pagine di "Sette stanze" nell'edizione 2014 di IoScrittore...




Giudizio n°8 - Voto 7

Il personaggio principale mi ha colpito molto. Anton è un protagonista forte, a tratti anche cinico e burbero ma, si puo' leggermente intravedere in queste poche pagine, una sfumatura dolce e sensibile. Dietro ad un uomo tutto ad un pezzo, vi si nasconde un' anima fragile dal passato complicato e difficile. Questa storia pecca forse di originalità, considerato che, spesso veniamo a conoscenza di persone che, dopo un passato triste o complicato e oscuro, provano a migliorarsi e a pentirsi. Anton a parere mio, cambierà sicuramente, dopo aver svelato tutti i suoi scheletri nell'armadio, grazie all'amore che scoprirà avere per la ragazza che incontrerà. Ti consiglierei, considerato che, prende molto e coinvolge abbastanza, di rivedere la sinossi. E' a tratti, un pò ripetitiva: sottolinei tanto il lato oscuro del passato di Anton. Rivedilo e sistemalo per bene.

Certe volte mi spiazza l'essere giudicata da aspiranti scrittori con un italiano "creativo". Perché poi di questi voti c'è chi tiene conto e non controlla che a giudicare un mio scritto, anche dal punto di vista grammaticale, ci sia qualcuno che non si esprime granché bene. Comunque: devo riscrivere la sinossi (che non ho conservato) il romanzo non si sa. Poco originale, ma considero che ne ha lette solo ventiquattro pagine e non sa il come...


Giudizio n° 9 - Voto 7

Buona impostazione del racconto: coinvolgente. L'incipit termina lasciando nel lettore la gustosa curiosità di come possa evolvere il romanzo. Il protagonista "Anton Eastman" ,scimmiottato dal personaggio "Edward Lewis" interpretato da Richard Gere nel film "Pretty Woman", cinico e spietato uomo d'affari della City londinese, rientra in quel classico che tanto piace al pubblico femminile del bello ,ricco e potente che nell'immaginario collettivo ha tutto; invece nel bel Anton qualcosa di grosso viene a turbarlo fino al punto di distruggere perfino la sua stessa esistenza....... Scorrevole lo stile dello scritto, semplice di facile apprendimento. Buon uso del virgolettato e grammaticamente corretto. Trovo ripetitivo gli "era" e gli "aveva". La frase: odorato di profumo di bucato aleggiava per casa, la trovo in contraddizione nella descrizione fatta della stessa come luogo chiuso, buio, polveroso, inabitato; poi riferito alla governante Maria nella frase: ne aveva fatte negli anni, credo sia da intendere: ne aveva viste negli anni. Avrei, infine, dato un nome alla città di mare dove si svolgono i fatti, forse l'autore lo mette nel proseguio del romanzo. 

A parte la difficile scimmiottatura da parte di Richard Gere (visto come "sta scritto" nel commento), il piacere dell'essere di facile apprendimento pur essendo pieno di verbi è inenarrabile. Al di là di tutto, la casa è disabitata e una persona passa due volte a settimana più per abitudine che per fare pulizia, cosa che comunque fa come chiunque abbia a cuore un luogo. Qualche volta si lavano i teli che coprono i mobili, qualche volta si tolgono le ragnatele. La signora Maria è lì da quando Anton era piccolo... E, nella frase "ne aveva fatte, negli anni" il soggetto era "telefonate", sottinteso lì, ma scritto bello evidente nella frase precedente. A volte basta leggere. Sì, la città non era essenziale, non all'inizio. Infatti la si scopre dopo e continua a non essere fondamentale.


Giudizio n° 10 - Voto 6,33

Anton non mi cattura piuttosto m'infastidisce!! E' un personaggio spento, forse ha qualcosa da nascondere. Scappa dal suo futuro ritrovando rifugio in un passato che aveva snobbato....Ma che dire...fai casini e scappi... oppure ti sei rotto i coglioni di vivere da riccone e sfruttare il mondo e adesso che lo hai fatto vuoi tornare nella vecchia casa di mamma.. .. Ma che personaggio è? Comunque arriva...qualcosa arriva e si comincia a delineare...anche perché se ne parlo in maniera infastidita significa che qualcosa è arrivato. C'è poca originalità nella storia.

Colpito. Anton non deve essere simpatico e non lo è. Nemmeno dopo è proprio il massimo. Non ho mai pensato che la storia in sé fosse originale. Lo sono in qualche modo i personaggi, la storia che c'è sotto e che nell'incipit non si può vedere. 


Giudizio n° 11 - Voto 4

Scritto sospeso - non compare mai il nome del luogo - e pervaso da imprecisioni - il protagonista entra in acqua al mattino e ne esce al tramonto (?) - che riconfermano continuamente la sensazione di inconsistenza. A questo si uniscono toni altisonanti ("Impotente, distrutto, solo") e melodrammatici (come nel paragone tra protagonista e bicchiere, "opachi e sopravvissuti"). In opposizione, un eccesso descrittivo e un uso abbondante di espressioni precostituite e immagini note, gettano trama e protagonista in rigidi cliché che collidono con le inesattezze che rendono lo scritto fluttuante (che lavoro fa il protagonista?). Nel complesso, è un lavoro ancora poco armonico. 

Aridaje con il nome del luogo. Ma se fosse New York, o Bali, o Tunisi? Cosa cambierebbe nel "sentire" del protagonista? Melodrammatico, altisonante, descrittivo. Sono colpevole. Ma non c'è un rigido cliché, in realtà. E il lavoro del protagonista si scopre nel resto del romanzo, come la città, come il suo oscuro segreto, come i segreti dei suoi genitori e della signora Maria... Per quel che riguarda poi il protagonista che entra in acqua al mattino e ne esce al tramonto, bastava leggere. In quel punto Anton si sveglia a casa di sua madre che il sole è già alto in cielo (ergo non è in spiaggia), percorre a piedi e senza fretta i dodici chilometri che lo separano dal mare (a passo regolare sarebbero 12x12,5 minuti a Km, quindi circa due ore e mezza), resta a lungo su un muretto a guardare il mare poi si immerge sperando di riuscire a lasciarsi andare quel tanto da annegare ma non ce la fa. Non è che va a divertirsi, è confuso, disperato e stanco. Quando si rende conto che non si lascerà morire in quel modo esce dall'acqua e il sole sta scendendo. Mi pare che, non essendo estate, si possa fare. Comunque ok.


Giudizio n° 12 - Voto 6,67

C'è un'aria molto tetra in questa storia, in fondo è l'aria che tira tutte le volte che ci ritroviamo a fare i conti con una coscienza che ha bisogno di rimettere a posto dei tasselli prima di tornare a brillare della luce di cui è fatta. Un uomo duro che inizia a far entrare luce dentro se stesso dalle crepe che proprio lui ha prodotto. Storie che hanno molto da comunicare, sia a chi ha già intrapreso un percorso di auto consapevolezza che a chi non se ne lascia sfiorare; le parole lette non possiamo dimenticarle, archiviarle si.

Un enorme boh? Almeno dal punto di vista letterario. Poi, per il resto, avrò comunicato qualcosa?


Giudizio n° 13 - Voto 6,33

La scrittura ha un buon ritmo e buoni spunti, tuttavia spesso fanno capolino alcuni luoghi comuni tanto nella descrizione dei personaggi quanto nello stile espositivo. 

Pulito, chiaro, corretto. Almeno utile a migliorare il romanzo.


Giudizio n° 14 - Voto 2,33

Che noia tutti questi personaggi che si svegliano una mattina, aprono la finestra, hanno un brivido di angoscia e fumando una sigaretta guardano al futuro immediato di una giornata che cambierà loro la vita! Tutti così adesso gli incipit? Già visto e già letto in almeno cinque incipit, questo testo ha anche lo svantaggio di non essere scritto in maniera coerente. Prima il flash sul protagonista (o personaggio principale) poi in cinque righe la storia passata (e infodump come se non ci fosse un domani). Quindi di nuovo il senso di smarrimento e infine la spiegazione di quando era iniziato il tutto (tutto? tutto cosa?) Il testo è scritto in maniera disorganica, come se l'autore volesse scrivere qualcosa ma non sapesse né bene cosa né, soprattutto, a quale aspetto di questa "cosa" dare maggiore importanza e coerenza. Dispiace molto ma testo negativo su tutta la linea. Si fatica in maniera incredibile ad arrivare alla terza pagina. 

Ok, qui non so da dove iniziare. Il protagonista - o personaggio principale che dir si voglia - non si sveglia una mattina e apre la finestra. Certo, una mattina si rende conto che l'ha fatta grossa (e non si sa cosa fino a ben più avanti) una volta di troppo e scappa. Senza prospettive e senza un minimo di amor proprio. Ma certo dopo aver letto ben cinque incipit diversi con lo stesso protagonista non si può andare oltre la terza pagina. Disorganico? Introspezione, il protagonista ha una vita a pezzi e non sa se farla finita o meno. Ovvio che un minimo di spiegazioni vanno date nell'immediato, credo. Altrimenti come la spieghi la disperazione? Non la spieghi? Poi come con la storia della città (come se i romanzi dovessero iniziare con "Torino, esterno giorno") se la spieghi è perché l'hai accennata, se non lo fai è perché non ne parli. E tutto, il tutto cosa, è iniziato almeno quaranta anni prima. Costruzione, distruzione e ricostruzione di un uomo. Ma certo non sta tutto nelle prime tre pagine che hai letto...


Giudizio n° 15 - Voto 6,67

Il linguaggio utilizzato è semplice, ma riesce lo stesso a tenere alta l'attenzione del lettore. Bisognerebbe ripulire l'incipit dalle ripetizioni (es. "mare grigio-azzurro" / il mare che "respira"), dai luoghi comuni e dalle frasi fatte (es. "...qualcosa gli si era rotto dentro" / "era scappato da Londra e dal lavoro in un lampo"), e incongruenze di fatti e immagini (la casa "polverosa e scura" cozza con quella della donna delle pulizie che la pulisce due volte a settimana e per di più senza che nessuno la sporchi visto che è disabitata!). Il malessere del personaggio principale si coglie tutto ma, a mio avviso, le retate in bagno per vomitare l'alcol ingerito sono eccessive. Nel complesso è un incipit più che sufficiente, suscita la voglia di proseguire la lettura.

Sono più che sicura che questo giudizio lo abbia scritto un uomo: una donna sa che anche una casa disabitata si sporca in un attimo e che può benissimo essere polverosa e scura anche se passi due volte a settimana a dare un'occhiata. L'ho già detto nella puntata precedente, credo. Le ripetizioni, quando c'erano, le ho sistemate e le frasi fatte qualche volta ho scelto di lasciarle lì. Scelte di scrittrice da sottoscala, probabilmente. Ma l'incipit comunque suscita la voglia di proseguire... 


Ok, abbiamo finito. Io mi sono divertita a rispondere, senza alcuna incazzatura. Beh, forse per il 2,33. Non per altro ma perché non è un voto da dare a chi ha almeno la capacità di usare un italiano corretto. Io stessa, partecipando, ho letto degli strafalcioni mostruosi ma credo di non aver mai dato meno di 4. Alla fine ho sempre cercato di motivare ogni voto con riferimenti a frasi e passaggi. Certo no perché altri incipit erano simili. Probabilmente il mio prossimo romanzo inizierà con "era una notte buia e tempestosa" (cit.)