31.12.20

Buoni propositi e cattive intenzioni

Non sono mai stata brava a chiedere.

Non sono mai stata capace di metter giù, nero su bianco, obbiettivi e scalette. Sono incostante - la mia amica Krizia suggerirebbe di dire sono stata incostante, perché non bisogna fissare definizioni che poi ci rimandano a dare un'immagine di noi stessi fissa e immutabile invece di aprire la mente verso nuove modalità - e istintiva, seguo comunque la sensazione del momento e niente, nessun obbiettivo resta fisso per più di un nanosecondo nella mia mente.

Se vogliamo, in carenza di passione speciale, nessun tipo di obbiettivo mi pare abbastanza importante da dedicarci più di tanto e se invece la passione c'è, il tempo già lo dedico a quella, quindi perché inseguire sempre qualcosa? Ho poi la stramaledetta abitudine alla bastiancontrarietà (perdonate il neologismo non petaloso) per cui se mi impongo di fare qualcosa di specifico, riesco immediatamente a fare tutt'altro anche se non necessario. Indi per cui non ho più tentato l'impresa di scrivere un elenco di cose che non farò perché mi distraggo o mi boicotto da sola.


Non che io non desideri cose, eh. Li vedo anche io i post su Instagram dei miei riferimenti nella pole e mi ripeto sempre "oh, che bello, ora lo provo", poi salvo il video e non provo mai più quella figura anche se sul momento morirei pur di avere la mia foto in quella posizione lì. Anche se vorrei quell'apertura, quel fisico, quella leggerezza, quel saper volare in modo fluido, mentre io cado, rotolo, mi aggrappo - il più delle volte, perché ho anche i giorni sì - sempre con i miei 135° di spaccata. Sono sempre stata pigra, una volta almeno avevo solo la danza da fare tutto il tempo che volevo, ora ho lavoro, casa e un'età che mi fanno stancare a sufficienza e non ho più voglia di rincorrere le cose.

Quindi?

Siccome con i buoni propositi non funziona dovrei dedicarmi alle cattive intenzioni. Tipo tornare a vivere, non appena la situazione globale lo permetterà e soprattutto dopo aver concesso tutta la mia attenzione alla "canappia" tumorata che pian piano se ne sta andando. 

Tornare a pole, appena possibile con un rinnovato abbonamento open in modo da restare fuori casa e non avere mai più una vita sociale al di fuori dello sport. Vedere se riesco anche a fare danza, perché mi manca. Tornare a scrivere senza strafare, lasciando la parte sadica di me a sfogarsi altrove. Terminare gli incompiuti e fare come un tempo. Mandarli al buon vecchio Fabio che mi porta pure bene ma che non ama il mio fantasy. Smettere di non crederci.



Fare in gran segreto le cose che finora non ho osato fare e sentirmi libera da giudizi e pregiudizi miei e altrui. Sondare, capire, curare, crescere.

Ma soprattutto tornare a pole, a vivere. Perché una certa Anna, in un file nel cassetto, ha bisogno di arrivare a fare una figura particolare, che sarà metafora della sua vita da personaggio e che libererà me da un'ossessione in più.

Tremate.

Della maggior parte di queste cose non avrete notizie mai. E non vi dispiacerà.


(Le foto sono provini del fantastico genio del male Yuri Bote, scatti grezzi. Non vi dico quanto ho pianto nel riceverli e quanto mi sento idiota in questo momento, tanto a chi importa?)

30.12.20

Rabbia e Pace

 Se c'è un titolo da dare all'anno che volge al termine è questo.

Non è iniziato benissimo, gli strascichi di una lunga crisi personale e artistica, scontenta di me - dall'aspetto all'intento espressivo, alla mia ossessione, alla mia debolezza irrisolta - e dei risultati che non ottengo mai come vorrei. Il mio mondo come prigione, il vuoto di possibilità - vuoi per situazione, vuoi per non aver mai voglia di uscire dalla maledetta comfort zone - la necessità di essere/avere qualcosa di più completo, la sensazione di non essere "piena".

E la non voglia di essere imbrigliata in progetti non miei, il non voler far parte di qualcosa che non mi "prende" completamente. La lenta ripresa dopo un lungo periodo di infortunio, la fatica e la frustrazione.

Poi, ancora, uno stop forzato a causa della prima reclusione. Che poi vera reclusione non è stata, se non affettiva, ché tutte le persone che avrei voluto vedere erano troppo lontane fisicamente seppur vicine in altri modi. La scuola di pole, le ragazze con cui mi allenavo quasi ogni giorno, le nuove amicizie di danza, il mio mondo. Sì, ero preoccupata per l'aspetto economico - già lo stipendio è quel che è, ancora in cassa integrazione e con i soldi che non arrivano, dopo il primo mese cominciavo a essere in ansia - come chiunque si sia trovato a casa da un momento all'altro; preoccupata per le conseguenze della chiusura e per l'impatto che il rientro avrebbe avuto. D'altra parte il non avere l'obbligo di andare a lavorare ogni giorno mi ha dato la possibilità di chiudere un progetto di scrittura e pubblicare quel trionfo di zozzaggine che è "Il gioco dei vampiri" - cosa di cui mi vanterò e vergognerò a morte per tutta la vita - e di riflettere su me stessa e su chi voglio essere.

La pace di marzo-aprile-maggio, l'avere tempo di respirare senza essere fagocitata da impegni, corse, obblighi e fatiche improbe, mi ha dato modo di sentire che mi stavo/stavano chiedendo troppo. Che dovevo rallentare e scegliere - cosa che poi volente o nolente ho dovuto fare a causa della suddetta cassa integrazione ritardataria - e rispettarmi un poco di più. Godermi la casa e le mie due amiche pelose, qualche chiamata via Skype - poche, comunque - o Whatsapp, musica, film e cucina. 

E sì, il rientro è stato ancor più difficile del previsto, tra il rallentamento economico e le nuove regole ossessive da rispettare. Fogli, moduli, firme, con la sensazione di esser presa per i fondelli, come se firmare un modulo mi avesse potuto preservare da qualsiasi cosa. Ho faticato a fare ogni singolo passo da metà maggio ad agosto, in attesa delle ferie - che avrei comunque passato a casa come ogni anno - con la sensazione che mi si chiedesse di correre ben più di prima ma nemmeno allo stesso prezzo. Non ne faccio una questione prettamente economica, anche se lavorare serve perlopiù a guadagnarsi da vivere e vivere non è lavorare. La questione sta nella qualità della vita e quella è peggiorata. Non poco. 

Così, dopo la pace, la consapevolezza di aver bisogno di più spazio e tempo, e aria, è arrivata la rabbia. Che forse era latente nella preoccupazione precedente, sì, ma che è cresciuta nel tempo fino a diventare evidente. Insofferenza, senso di impotenza e di essere solo un numero. Le immagini nella mia mente vagavano da Matrix a Blade Runner, a Cloud Atlas. Essere carne da macello, sacrificabile nel nome del dio denaro, senza alcuna possibilità di venirne fuori. Non migliore, almeno viva.

Fino al secondo giro di ruota, in cui ero - stavolta - tra chi poteva uscire per lavorare e poco più. Quindi niente palestra, niente allenamenti a casa di amiche, niente cene, qualche panino in piedi fuori dal bar, ancora qualche chiamata Skype, un paio di lezioni on line e il cane che peggiora poco a poco. Ecco. Il mio ultimo trimestre è stato il delirio al lavoro e a casa senza possibilità di distrazione, tanto che a sto punto non so nemmeno chi sono. E ancora mi sento presa in giro e usata e obbligata in una vita non mia, in cui la mia unica voglia è chiudere tutto, lasciare il mondo fuori e vaffanculo. Non comunicare più, non dire, non scrivere, non ballare, non dipingere. Eppure allo stesso tempo la voglia è lì, il bisogno di usare la mia voce ancora e ancora, ma sempre più vera. 

Quello che lascio qui, alla vigilia della vigilia di un nuovo anno che non promette granché, è una persona che non ce la fa più. A non essere. A non esistere. A non valere. Con lei vorrei chiudere. Cosa vorrei per il prossimo anno? 


P.