22.1.21

Confessioni di una mente poco geniale

 A quasi 49 anni ho fatto il mio primo - e probabilmente ultimo - Pole Theatre.


L'ho fatto poco convinta, è vero. Ho mandato il video entry come avevo già fatto per altre gare, ma ho mandato il video fatto al cellulare da una mia amica del saggio di Natale quasi del tutto improvvisato e ripreso in un bad angle assoluto. Ho fatto il meno possibile per partecipare eppure mi hanno scelta. A quel punto non potevo più tirarmi indietro, così ho dovuto partecipare. 

Nel bel mezzo di una crisi, tra l'altro, in cui niente di ciò che facevo mi piaceva più. Non come ballavo, non come mi vedevo, non ciò che scrivevo. L'idea per la coreografia mi è venuta subito, comunque, come accadeva ancora all'epoca. Idea, brano, costume, qualche combinazione di passi...


Contrariamente al mio solito ho anche fatto qualche prova, pur saltando quasi sempre una parte della coreografia con l'idea di perfezionarla all'ultimo momento. Per due motivi, soprattutto: paura e vergogna. Bizzarro, perché la parte più difficile mi era venuta al primo colpo alla prima prova - anche se non era perfetta - e con un buon numero di prove avrei fatto quel trick a occhi chiusi e invece no, alla fine non l'ho nemmeno tentato; l'idea di provare davanti alle mie compagne mi provocava un tale disagio che ho preferito cazzeggiare, come sempre, aspettando i pochi momenti in cui ero sola per provare qualcosa. 

Non sono forte, non ho una gran resistenza e la mia flessibilità rasenta il livello "tronco centenario". Avrei dovuto allenarmi meglio, chiedere aiuto a Natalya (la mia insegnante, il capo) e rischiare di sentirmi prendere a male parole, di faticare oltre ogni mio limite e di dover cambiare tutto, proprio tutto, della mia coreografia. Avrei dovuto affrontare la gara veramente. Perché ho mille difetti e non sono una poler eccezionale ma non sono malaccio, solo non mi impegno. 

Ho fatto il mio primo Pole Theatre a quasi 49 anni.


A dispetto dell'età e della mia cazzonaggine estrema sono stata selezionata per farlo, tra decine di persone. Avrei dovuto avere un minimo di maturità in più. Invece, per paura e vergogna che erano frutto della mia crisi non solo non ho affrontato la cosa seriamente ma ho ulteriormente peggiorato la mia autostima facendo di tutto per arrivare ultima. Non che la classifica sia veramente il punto: probabilmente sarei arrivata ultima anche impegnandomi di più, ma almeno ci avrei provato. Davvero.

Su quel palco, alla fine, dopo aver perso la presa di ginocchio sul fisso - ed evitato il trick incriminato - ho dovuto improvvisare quasi tutta la coreografia, con le braccia che tremavano per lo sforzo e per la paura di cadere, arrivando alla parte finale talmente stanca da scegliere di non fare l'ultima spaccata, che certo non avrebbe salvato la gara ma il mio benessere psicologico sì.

Ho fatto il mio Pole Theatre a un mese dai 49. C'è gente con la metà dei miei anni che ci ha provato e dall'Australia hanno scelto me col mio video sghembo. Posso pensare che mi abbiano scelta perché in fondo ci vuole qualcuno che arrivi ultimo, ma non so se è questa la storia che mi voglio raccontare.




18.1.21

Riflessioni sparse in un campo minato

 Prima di ogni altra cosa voglio dire che lo so che sono fortunata.

Ho una casa, innanzitutto. Ho la possibilità di contattare gli affetti tramite web e telefono, anche se vivo sola. Ho un lavoro che nonostante i due mesi di cassa integrazione della primavera scorsa - i cui soldi sono arrivati con la calma e la lentezza di un bradipo in letargo, posto che vadano in letargo ma rende bene l'idea - ha ripreso a girare non senza fatica. Quella che era stata la preoccupazione principale del primo periodo di chiusure forzate ha lasciato il posto ad altre, forse meno immediate ma non meno importanti. 

Io non ho mai sofferto la solitudine e non è esattamente solitudine quella che ho sentito. Certo, non poter vedere la dolce metà, non poter frequentare la scuola di pole, non avere la possibilità di trascorrere una serata con le amiche di sempre o gli "amici del sabato sera" alla lunga hanno pesato sul mio umore, ma almeno all'epoca ero abbastanza sicura che le cose sarebbero cambiate. Non speravo nemmeno che tornassero come prima, e se avete frequentato questo blog lo sapete, ma dopo aver avuto lo spazio e il tempo per pensare a come avrei voluto vivere  ero decisa a iniziare a farlo.

Invece no. Da una parte perché c'era l'ansia generale di dover recuperare tutto il tempo "perduto" che ci ha fatto correre - volenti o nolenti - ancor più di prima e non concedendoci in cambio niente più di ciò che avevamo; dall'altra perché si è fatta sempre più chiara l'idea che non era finita affatto e che prima o poi sarebbe stato il momento di richiudere ogni cosa. 

Così i progetti che alla prima volta avevo iniziato a mettere in moto si sono congelati. Io mi sono bloccata. Di nuovo, e peggio.

Ci sono persone che sono abituate a pianificare, a scrivere scalette e rispettarle, a decidere con largo anticipo tutto ciò che desiderano. Io sono istintiva, come artista - se mi passate il termine - non riesco a produrre molto se non vivo. Le cose che mi ispirano arrivano spesso da "fuori": da un sorriso rubato per strada a un gesto, a una voce o un tramonto intenso, ogni istante può suggerirmi le parole per il mio prossimo romanzo o uno spunto per una coreo di pole, o la linea per un disegno. Anche solo limitare il mio sguardo sul mondo mi toglie aria al cervello.

Ma c'è di più. 

Non sono mai stata una persona con progetti a lungo termine, con obiettivi e scadenze, non mi è mai piaciuto fare programmi: mi fa sentire ingabbiata in qualcosa - anche se non è vero - senza possibilità di uscirne. Non che lo sia diventata nell'ultimo anno, ma almeno prima c'erano miliardi di possibilità ogni giorno e questa cosa io non la sento più. 

È come se mi avessero tolto la possibilità di progettare. Di alzarmi con la motivazione per fare qualcosa in più che andare a lavorare e tornare a casa già stanca. Di immaginare, svegliandomi, che la sera a pole potrei tentare questa o quella figura, chiedendo a Nat di aiutarmi o aiutando qualcuna delle mie amiche a fare qualcosa. Di chiedere a Marisa se dopo lezione le va una birretta, o un panino. Di stare fuori dalla fermata della metro a cantare le sigle dei cartoni animati anni '80, anche se non abbiamo assolutamente più l'età. Non solo, è come se con tutto il resto compresa la motivazione a scrivere si fosse spenta in un grosso "a che pro?";  come non ci fosse più niente da dire, o da immaginare, se non un infinito ripetersi di settimane al lavoro e poi casa. Come se la vita fosse già tutta lì e non mi dovessi più aspettare altro. 

E per me, dicevo, va ancora di lusso. Perché più andiamo avanti e più sento amici e conoscenti che perdono speranza e passione, e voglia di lottare ancora, perché ora sembra tutto inutile. Tutto ciò che si è fatto finora nella speranza di costruire qualcosa e tutto ciò che si desiderava aggiungere a quel progetto di vita. Perché alcune persone hanno avuto il coraggio di lanciarsi, investire, faticare e indebitarsi nella certezza di poter fare qualcosa di davvero loro e ora tutto è fermo, tutto è in bilico, tutto rischia di crollare da un momento all'altro.

Come se vivessimo cristallizzati nel tempo, senza possibilità di "fare". Di vivere. 

Ecco, io mi spavento un po' quando mi sento così vuota dentro. Se non posso nemmeno immaginare un domani, oggi è un giorno sprecato. E pur avendo in mente tante storie da scrivere, pur avendo voglia di allenarmi, pur volendo ancora creare io mi fermo, lo sguardo fisso e il pensiero assente, e non riesco a smuovermi da qui. Come se mi avessero portato via il futuro, un boccone per volta. 

Lo dico con tutto il rispetto per chi sta peggio di me e chi mi conosce sa benissimo che non sono mai stata cieca o sorda alle sofferenze altrui; lo dico con rispetto perché leggo e ho letto le vostre storie, le vostre esperienze. Lo dico sapendo che ci sono state cose terribili in questo anno. 

Ma ho paura che ce ne saranno ancora, e non direttamente legate al virus. 

6.1.21

L'analisi illogica del testo (senza testo) 14 - La forza e la magia

 Avevo già parlato, a caldo, delle mi impressioni sulla nuova trilogia - all'epoca appena iniziata - di Star Wars in un post qui.


Dopo aver visto il primo della serie J.J./Disney, ho evitato di spendere i soldi per andare al cinema e mi sono accontentata della versione in dvd appena reperibile a un buon prezzo. Il secondo, e dopo qualche tempo infine il terzo. Quello che forse concluderà la storia. Quello che, forse, salva l'ultima trilogia.


Per i ragazzi della mia generazione, per una buona parte di essi almeno, la saga di Guerre stellari ha rappresentato molto. Non solo a livello tecnico, ché all'epoca non eravamo tutti in grado di capire la magia del cinema e degli effetti speciali, ma anche per un modo di intendere la narrazione e il sogno, la sospensione dell'incredulità più totale cui avessimo assistito fino a quel momento, la meraviglia, la spiritualità un po' spiccia ma intensa che conteneva. Per me, bambina, è stato davvero un colpo di fulmine. Immagino che lo stesso effetto lo abbia avuto Matrix, qualche annetto dopo.

Non del tutto priva di difetti e incongruenze, già dall'inizio la prima saga  aveva il pregio di farle dimenticare tutte. Certo, a risentirle ora le mille ripetizioni di "c'è un conflitto in te" fanno quasi venire l'orticaria. Chi di noi non vive un costante conflitto tra "bene" e "male"? Tra ciò che ci piacerebbe e ciò che dobbiamo fare? Nei sentimenti che proviamo quotidianamente? Insomma, se sei il prescelto in una cavolo di guerra per salvare la galassia, vorrai mica scamparti la maledetta crisi di coscienza? Il problema di sentirlo ripetere millemila volte in nove film è più che altro un rischio di scadere in una semplice e ridicola macchietta. In questo, almeno, l'ultima serie ha un minimo di autoironia che strizza l'occhio al pubblico più giovane che sicuramente risente meno dell'effetto nostalgia e prende meno sul serio il percorso di un Jedi* - qui sbrigato in un paio di allenamenti nella foresta e nel tentativo di incontrare i fantasmi dei maestri miseramente fallito fino quasi alla fine. 

Da fan della vecchia guardia mi sono spesso domandata - e già lo accennavo nel post linkato sopra - perché, con tutte le possibilità che un universo così immenso potevano offrire (e che invece in qualche modo sta cercando di sfruttare George Lucas con gli spin off), perché offrire una ripetizione aggiornata della prima trilogia ricorrendo anche al fantomatico Imperatore di sempre se non per attirare noialtri anziani appassionati? Perché tra la prima e l'ultima continuano a esserci troppe somiglianze tanto da renderle quasi uguali nonostante le apparenze. 

Unico tratto distintivo - a parte l'autoironia che nella prima trilogia era dote del contrabbandiere Solo - è la faccenda del legame tra Rey e Ben, che invece di essere gemelli di nascita sono, diciamo "gemelli nella forza", cosa che come altri spunti interessanti viene liquidata con l'utilizzo dei suddetti come batteria vitale. E, al netto di mille ammiccamenti, la mancanza di una storia d'amore (nuova).

E questo trono?



E il novello quasi cattivo Kylo Ren che al pari di suo nonno è perennemente imbronciato e altrettanto capriccioso e infantile pur  nascondendo così un enorme ego da bambino ferito, utilissimo per lasciare aperta la porta al lato oscuro ma alquanto ridicolo a vedersi?

In quanto al titolo dell'ultimo episodio, che dire? Perché "l'ascesa di Skywalker" quando il solo e unico Skywalker è sempre Luke? E se era inteso come famiglia, perché non "degli"? 


Ma, diciamolo, forse io sono invecchiata.

Forse col meccanismo del prescelto, con il percorso spirituale che non è uguale per tutti, con il conflitto padre-figlio e con quello col maestro, con la lotta tra il bene e il male, con l'ambivalenza dei protagonisti (mai del tutto buoni,  mai del tutto cattivi), con le storie d'amore mal riuscite (mai dichiarate o mai vissute) e con tutte le trappole narrative tra archetipi, cliché e varie... beh, forse ci ho già fatto i conti abbastanza. 

Sull'estetica dei personaggi non vorrei dilungarmi, da tempo trovo brutti gli attori che altri trovano bellissimi e alla fine non è più importante (visto che per me IV, V e VI restano l'unica vera trilogia) perché la bellezza, in fondo, poco ha a che fare con la bravura. 


Quindi che dire? Continuo a pensare che la Forza non sia protagonista di questa trilogia come sembrava essere nella prima, penso comunque che la magia del cinema, sebbene sia difficile che io guardi un film con lo stupore di quella prima volta, la si può percepire e che quindi alla fine - anche per amore - la trilogia la salvo. Sperando che sia l'ultima, ché la prossima volta sarò troppo vecchia per fare una critica intelligente.




*Sul percorso di un Jedi, come sull'attuale scarsa resistenza a tutto ciò che non è immediatamente "godibile", sulla civiltà del "tutto e subito" e del divertimento a tutti i costi ci sarebbe da fare un discorso assai più lungo; se nella prima trilogia l'addestramento di Luke aveva preso quasi tutto il secondo episodio, il successivo - in ordine di uscita - di Anakin era già stato quasi del tutto saltato, ora è davvero inesistente un po' perché Rey sa già tutto (a questo punto poteva essere autogenerata come Anakin in versione 2.0) e un po' perché a uno spettatore giovane la cosa sarebbe di certo sembrata noiosa...