14.8.21

Favole - Singolare femminile 7

Come spesso capita con gli argomenti "sensibili", mi trovo a scrivere e riscrivere questo post senza riuscire a dire tutto esattamente come lo sento. 

Ero partita da un romanzo che ho letto di recente - ispirato a una vicenda di cronaca, che tratta di femminicidio - e dalle mille domande irrisolte che mi aveva lasciato in testa. Domande cui ovviamente non so rispondere e che riguardano il complesso rapporto tra i sessi e il problema culturale che coinvolge tutti noi. Il romanzo in questione è "Credi davvero (che sia sincero)" di Roberto Ottonelli e racconta la storia di Martina e Antonio dall'inizio a dopo il tragico epilogo usando con estrema sensibilità un punto di vista alternato tra i due protagonisti che da una parte rallenta la lettura e dall'altra forse concede spazio a una maggiore riflessione. Il romanzo è breve e si legge rapidamente, se vi interessa l'argomento lo trovate qui.



Al di là del romanzo, però, c'è una serie infinita di questioni, sfumature, reazioni. Da una parte è vero che per natura tendiamo tutti a semplificare, catalogare e suddividere le cose in modo da "controllarle" di più, dall'altra siamo martellati da un'informazione più morbosa che realistica che tende a rimetterci in pace con il mondo inquadrando buoni e cattivi e fornendo loro giustificazioni e alibi. Una forma di catarsi di cui probabilmente abbiamo bisogno per non soccombere all'idea che questo mondo sia incontrollabile.

Come siamo arrivati fin qui è difficile da comprendere, visto che ci sembra di vivere in un mondo civile. A me pare che i rapporti tra i due sessi - ma anche tra esseri umani se andiamo a guardare in profondità - siano andati peggiorando. Non voglio parlare ci colpe o motivi, comunque.



C'è che, comunque, ogni volta che ci si trova davanti a una vittima si cerca di capire perché quest'ultima non si sia resa conto di cosa stava succedendo nonostante gli avvertimenti di amici, parenti, le notizie che ormai ci arrivano addosso da qualsiasi media. A mio parere questo è uno degli innumerevoli modi di incolpare la vittima una seconda volta (lo stesso vale quando nei casi di violenza sessuale si sta a contare i centimetri di gonna indossata dalla vittima quasi fosse una questione di matematica) e di non valutare l'aspetto psicologico profondo che sembra unire vittima e carnefice in un gioco terribile. Per esperienza personale e per aver sentito e letto parecchio in merito, mi sono fatta l'idea che tra i due elementi che compongono una coppia "tossica" ci sia una complementarità inconsapevole e che entro un determinato limite fa funzionare la coppia ma il cui equilibrio non è sempre stabile e soprattutto, visto che le persone sono in costante mutamento, con il tempo tende a modificare le esigenze di ciascuno. 

Allo stesso modo, ogni volta che ci si trova davanti a un carnefice c'è la tendenza a ricercare un punto di origine per il sue essere "il male"; maltrattamenti, abusi, esperienze negative diventano una sorta di alibi che a volte creiamo per non accettare l'atto violento come parte dell'essere umano. Certo, l'omicidio è una cosa terribile e in un mondo civile non verrebbe mai in mente a nessuno di commetterne uno. In un mondo civile ed equilibrato, cosa che esiste solo nei peggiori film anni '50.

Le relazioni sono complicate. Sempre.

C'è da dire che fin da piccoli siamo tutti bombardati da concetti e ideali riguardo all'amore e alla coppia che sono tossici quanto alcune relazioni. Il pensiero di essere gli unici a poter rendere felice qualcuno, per esempio, o quello di trovare un senso alla propria vita solo avendo un partner; l'idea che tutto resti sempre uguale e che una volta stabilito un legame questo non possa cambiare; l'idea che le esigenze proprie e altrui resteranno immutate rendendo una relazione momentaneamente perfetta - perché al momento soddisfa le necessità di ciascuno - eterna. L'idea che in questa ricerca non si possa fallire, che le cose siano o debbano essere sempre come le desideriamo, che per mantenere questa stabilità occorra compiere sacrifici immensi, l'idea di possedere l'altro o di controllarlo (cosa che è ancor più evidente nel modo in cui viene concepito il corpo delle donne ancora oggi). Si tende a non tenere conto del fatto che in una coppia rientrano due persone con esperienze, caratteri, ideali, visioni, obiettivi diversi. Che non per tutti "coppia" significa la stessa cosa, che non per tutti è "il" punto d'arrivo di un percorso. Non si tiene conto del fatto che si cambia e che a volte ci si ritrova con uno sconosciuto al fianco, che pur amando qualcuno sia necessario a volte lasciarlo andare, che le necessità di un giorno non sono le stesse dieci anni dopo. Che non esiste "e vissero tutti felici e contenti" ma che da lì nascono mille percorsi diversi e difficili in cui possono esserci incomprensioni, liti. In cui a volte si scopre l'incompatibilità e bisogna porre un rimedio prima di essere infelici in due, o tre, o cinque.


Sono figlia di genitori divorziati e non c'è un giorno in cui non ringrazi - avendo vissuto da più grande il nuovo rapporto di mia madre con il suo compagno - per avermi risparmiato liti e musi lunghi quotidiani e per avermi fatto capire che si può smettere di amarsi e restare civili. Che si può iniziare una vita nuova senza "uccidere" nessuno. Che si può superare un rifiuto, che un rifiuto non implica una mancanza. 


Che non esistono le favole, ma che certe volte siamo tentati dal loro appeal. Che certe volte siamo stanchi, o deboli, o scoraggiati, o depressi, arrabbiati col mondo, soli, spaventati. Certe volte ci arrendiamo e ci lasciamo cullare dall'idea che esista davvero un paese lontano lontano in cui per una volta ci va tutto bene e vivremo per sempre felici e contenti. Questo è uno dei motivi per cui non ci rendiamo conto, o scivoliamo lenti nelle sabbie mobili di una relazione malata. Vogliamo crederci e scegliamo di non vedere che, avvolti nel nostro mantello rosso, stiamo andando a spasso nel bosco con il lupo cattivo...


Come al solito non ho detto tutto, non ho probabilmente reso l'idea. Ma almeno ci provo.



12.8.21

L'analisi illogica del testo 15 - Mondo cannibale

 Vi direte, ancora horror...

Vi dirò: in parte, ma mai peggio del mondo in cui viviamo.

Ho iniziato la prima quarantena con gli zombie. Da una parte erano già nell'aria (l'anno scorso ho dato il via alla visione di "Fear the walking dead") e pur non essendo mai stata un'appassionata del morto vivente in generale, alla fine come il buon Romero, trovo una certa somiglianza tra il mondo in cui viviamo e una qualsiasi storia di zombie. 


Restando per ora fuori dal testo, che horror non è, la visione di zombie che affollano il centro commerciale  o che vengono distratti dai fuochi d'artificio, l'idea di un virus arrivato da chissà dove che fa risvegliare i morti diciamo che può ricordarci la nostra attualità. Ora io non sono un'esperta di zombie, ho sempre avuto una certa predilezione per i vampiri, ma questi "cannibali" hanno innescato in me una serie di riflessioni. 


Il virus, la massa, le nostre abitudini, i comportamenti indotti da necessità e da abili manipolazioni, l'impossibilità di uscire da un circolo vizioso che ci lega stretti, il sistema consumista, i falsi miti. L'illusione di avere un potere decisionale, di poter governare la nostra vita come ci piace e non come siamo obbligati a fare fin dalla nascita. L'obbligo a stare nella media. Al nostro posto senza scalpitare, facendo il nostro dovere e godendoci il piccolo premio che ne deriva. Dagli zombi siamo passati a una sorta di "Matrix", in cui fungiamo da batterie umane che alimentano un sistema esterno, felici di stare nel nostro limbo. Allo stesso tempo mi è tornato in mente anche "Essi vivono" e la sua serie di messaggi subliminali volti a tenere a bada una società intera affinché sia produttiva fino a farla consumare. 



Certo, è il nostro sistema a renderci così. Necessario e inevitabile che si debba produrre e consumare, anche se la corsa ci costa più di quanto ci gratifichi. Più di quanto buona parte di noi possa farlo, almeno, mentre una piccolissima parte si gode i frutti del nostro lavoro. In questo ultimo anno ho come l'impressione che la forbice che distanzia le due parti si sia ingigantita e che la pandemia ci abbia impoveriti, spaventati e resi ancora più "schiavi" del sistema. Che non può cambiare senza stravolgimenti e che probabilmente non cambierà nemmeno stavolta, lasciandoci ancor più alla mercé dei pochi che hanno il potere di decidere per noi. 

Le immagini degli alieni del film di Carpenter, delle human factory di "Matrix" e quelle degli zombie messe insieme dipingono una parte della nostra realtà. La nostra evoluzione. Vittime di illusioni, di falsi dei e  pronti a divorarci l'un l'altro. Oggetti, prede, meccanismi.


Poi, finalmente, sono tornata a Sonmi.

Ricordo di aver guardato "Cloud Atlas" con lo stupore negli occhi. Il film, più che il romanzo da cui è tratto, per la sua trasposizione che ne semplifica la visione d'insieme. Ricordo l'immediata sensazione che dietro alle "mangerie" di Papa Song ci fosse lo specchio della nostra condizione. Non tanto in quanto cloni, ma più per il nostro destino - della maggiorparte di noi che lo si voglia o meno - di vittime sacrificali di un sistema. Nati per lavorare tanto quanto i polli da batteria sono nati per farsi mangiare. Illusi, continuamente imbottiti di stimoli a consumare, di modelli cui conformarsi, di ideali di uguaglianza e libertà che mai raggiungeremo. Siamo, come tutte le Sonmi, destinati a lavorare, a produrre, a consumare e poi a diventare inutili. Numeri, braccia, gambe, energie da spremere finché ne resta. Il premio, l'illusione di riceverne infine uno che valga la fatica, sembra venirci ricordato ripetutamente. Cose tipo "un giorno, se ti impegni, anche tu puoi diventare questo" se da una parte sono uno stimolo al miglioramento personale, dall'altra ci illudono che valga per tutti mentre è chiaro che le nostre fatiche non sono tutte uguali e che non necessariamente tutto si può ottenere solo con l'impegno. Ché a volte una botta di culo è necessaria, perché non siamo tutti uguali.

Allo stesso tempo, non solo siamo obbligati a lavorare come automi per reggere il peso del sistema non importa come - e le morti sul lavoro che si contano ancora e sempre ne sono purtroppo un segno - per i pochi che ne gioveranno di più - e la gestione delle grandi industrie negli ultimi anni, impostata più sul punto di vista dell'economia che della qualità (e del prodotto, e della vita del lavoratore) è cosa ben evidente - ma siamo indotti a una sorta di cannibalismo tra noi, come succede con le Sonmi che vengono ritirate a fine carriera. In una costante "lotta tra poveri", in cui siamo spinti a incolpare chi sta peggio di noi per ciò che a noi non arriva come se fossero loro a portarcelo via, siamo come cannibali che si nutrono dei propri simili senza accorgerci dei tizi che da sopra ai grattacieli ci osservano mangiando caviale e aragosta  godendo dello spettacolo manco fossimo gladiatori in un'arena. 

Non so descrivere meglio l'immagine che ho in mente della nostra società negli ultimi anni. Forse è sempre stato così e il mio software si è danneggiato solo ora permettendomi di vedere oltre. Forse ho inconsapevolmente inghiottito la pillola rossa di Morpheus - perché mai lo avrei fatto di proposito - e ora mi è più chiaro il mio ruolo di "non eletta" ma di semplice "forza lavoro" in un mondo in cui non ho alcun potere né possibilità di scegliere, checché se ne dica. 



Il volto di Sonmi 451 quando scopre che per tutta la vita si è nutrita letteralmente dei suoi simili mentre aspettava di poter ricevere finalmente la sua ricompensa dice tutto. E se è vero che tutto è connesso - e lo è - rendersi conto per tempo di ciò che stiamo facendo sarebbe decisamente meglio.