31.12.20

Buoni propositi e cattive intenzioni

Non sono mai stata brava a chiedere.

Non sono mai stata capace di metter giù, nero su bianco, obbiettivi e scalette. Sono incostante - la mia amica Krizia suggerirebbe di dire sono stata incostante, perché non bisogna fissare definizioni che poi ci rimandano a dare un'immagine di noi stessi fissa e immutabile invece di aprire la mente verso nuove modalità - e istintiva, seguo comunque la sensazione del momento e niente, nessun obbiettivo resta fisso per più di un nanosecondo nella mia mente.

Se vogliamo, in carenza di passione speciale, nessun tipo di obbiettivo mi pare abbastanza importante da dedicarci più di tanto e se invece la passione c'è, il tempo già lo dedico a quella, quindi perché inseguire sempre qualcosa? Ho poi la stramaledetta abitudine alla bastiancontrarietà (perdonate il neologismo non petaloso) per cui se mi impongo di fare qualcosa di specifico, riesco immediatamente a fare tutt'altro anche se non necessario. Indi per cui non ho più tentato l'impresa di scrivere un elenco di cose che non farò perché mi distraggo o mi boicotto da sola.


Non che io non desideri cose, eh. Li vedo anche io i post su Instagram dei miei riferimenti nella pole e mi ripeto sempre "oh, che bello, ora lo provo", poi salvo il video e non provo mai più quella figura anche se sul momento morirei pur di avere la mia foto in quella posizione lì. Anche se vorrei quell'apertura, quel fisico, quella leggerezza, quel saper volare in modo fluido, mentre io cado, rotolo, mi aggrappo - il più delle volte, perché ho anche i giorni sì - sempre con i miei 135° di spaccata. Sono sempre stata pigra, una volta almeno avevo solo la danza da fare tutto il tempo che volevo, ora ho lavoro, casa e un'età che mi fanno stancare a sufficienza e non ho più voglia di rincorrere le cose.

Quindi?

Siccome con i buoni propositi non funziona dovrei dedicarmi alle cattive intenzioni. Tipo tornare a vivere, non appena la situazione globale lo permetterà e soprattutto dopo aver concesso tutta la mia attenzione alla "canappia" tumorata che pian piano se ne sta andando. 

Tornare a pole, appena possibile con un rinnovato abbonamento open in modo da restare fuori casa e non avere mai più una vita sociale al di fuori dello sport. Vedere se riesco anche a fare danza, perché mi manca. Tornare a scrivere senza strafare, lasciando la parte sadica di me a sfogarsi altrove. Terminare gli incompiuti e fare come un tempo. Mandarli al buon vecchio Fabio che mi porta pure bene ma che non ama il mio fantasy. Smettere di non crederci.



Fare in gran segreto le cose che finora non ho osato fare e sentirmi libera da giudizi e pregiudizi miei e altrui. Sondare, capire, curare, crescere.

Ma soprattutto tornare a pole, a vivere. Perché una certa Anna, in un file nel cassetto, ha bisogno di arrivare a fare una figura particolare, che sarà metafora della sua vita da personaggio e che libererà me da un'ossessione in più.

Tremate.

Della maggior parte di queste cose non avrete notizie mai. E non vi dispiacerà.


(Le foto sono provini del fantastico genio del male Yuri Bote, scatti grezzi. Non vi dico quanto ho pianto nel riceverli e quanto mi sento idiota in questo momento, tanto a chi importa?)

30.12.20

Rabbia e Pace

 Se c'è un titolo da dare all'anno che volge al termine è questo.

Non è iniziato benissimo, gli strascichi di una lunga crisi personale e artistica, scontenta di me - dall'aspetto all'intento espressivo, alla mia ossessione, alla mia debolezza irrisolta - e dei risultati che non ottengo mai come vorrei. Il mio mondo come prigione, il vuoto di possibilità - vuoi per situazione, vuoi per non aver mai voglia di uscire dalla maledetta comfort zone - la necessità di essere/avere qualcosa di più completo, la sensazione di non essere "piena".

E la non voglia di essere imbrigliata in progetti non miei, il non voler far parte di qualcosa che non mi "prende" completamente. La lenta ripresa dopo un lungo periodo di infortunio, la fatica e la frustrazione.

Poi, ancora, uno stop forzato a causa della prima reclusione. Che poi vera reclusione non è stata, se non affettiva, ché tutte le persone che avrei voluto vedere erano troppo lontane fisicamente seppur vicine in altri modi. La scuola di pole, le ragazze con cui mi allenavo quasi ogni giorno, le nuove amicizie di danza, il mio mondo. Sì, ero preoccupata per l'aspetto economico - già lo stipendio è quel che è, ancora in cassa integrazione e con i soldi che non arrivano, dopo il primo mese cominciavo a essere in ansia - come chiunque si sia trovato a casa da un momento all'altro; preoccupata per le conseguenze della chiusura e per l'impatto che il rientro avrebbe avuto. D'altra parte il non avere l'obbligo di andare a lavorare ogni giorno mi ha dato la possibilità di chiudere un progetto di scrittura e pubblicare quel trionfo di zozzaggine che è "Il gioco dei vampiri" - cosa di cui mi vanterò e vergognerò a morte per tutta la vita - e di riflettere su me stessa e su chi voglio essere.

La pace di marzo-aprile-maggio, l'avere tempo di respirare senza essere fagocitata da impegni, corse, obblighi e fatiche improbe, mi ha dato modo di sentire che mi stavo/stavano chiedendo troppo. Che dovevo rallentare e scegliere - cosa che poi volente o nolente ho dovuto fare a causa della suddetta cassa integrazione ritardataria - e rispettarmi un poco di più. Godermi la casa e le mie due amiche pelose, qualche chiamata via Skype - poche, comunque - o Whatsapp, musica, film e cucina. 

E sì, il rientro è stato ancor più difficile del previsto, tra il rallentamento economico e le nuove regole ossessive da rispettare. Fogli, moduli, firme, con la sensazione di esser presa per i fondelli, come se firmare un modulo mi avesse potuto preservare da qualsiasi cosa. Ho faticato a fare ogni singolo passo da metà maggio ad agosto, in attesa delle ferie - che avrei comunque passato a casa come ogni anno - con la sensazione che mi si chiedesse di correre ben più di prima ma nemmeno allo stesso prezzo. Non ne faccio una questione prettamente economica, anche se lavorare serve perlopiù a guadagnarsi da vivere e vivere non è lavorare. La questione sta nella qualità della vita e quella è peggiorata. Non poco. 

Così, dopo la pace, la consapevolezza di aver bisogno di più spazio e tempo, e aria, è arrivata la rabbia. Che forse era latente nella preoccupazione precedente, sì, ma che è cresciuta nel tempo fino a diventare evidente. Insofferenza, senso di impotenza e di essere solo un numero. Le immagini nella mia mente vagavano da Matrix a Blade Runner, a Cloud Atlas. Essere carne da macello, sacrificabile nel nome del dio denaro, senza alcuna possibilità di venirne fuori. Non migliore, almeno viva.

Fino al secondo giro di ruota, in cui ero - stavolta - tra chi poteva uscire per lavorare e poco più. Quindi niente palestra, niente allenamenti a casa di amiche, niente cene, qualche panino in piedi fuori dal bar, ancora qualche chiamata Skype, un paio di lezioni on line e il cane che peggiora poco a poco. Ecco. Il mio ultimo trimestre è stato il delirio al lavoro e a casa senza possibilità di distrazione, tanto che a sto punto non so nemmeno chi sono. E ancora mi sento presa in giro e usata e obbligata in una vita non mia, in cui la mia unica voglia è chiudere tutto, lasciare il mondo fuori e vaffanculo. Non comunicare più, non dire, non scrivere, non ballare, non dipingere. Eppure allo stesso tempo la voglia è lì, il bisogno di usare la mia voce ancora e ancora, ma sempre più vera. 

Quello che lascio qui, alla vigilia della vigilia di un nuovo anno che non promette granché, è una persona che non ce la fa più. A non essere. A non esistere. A non valere. Con lei vorrei chiudere. Cosa vorrei per il prossimo anno? 


P.

7.11.20

Questa non è più camera mia...

Ho usato parole antiche per cercare casa.

Per cercare lei, anche, che a quelle parole aveva affidato tutto mentre io, come sempre, mi ribellavo. Per quanto abbia provato a liberarmene non ci son mai riuscita. Così, mentre la mente cercava una via di fuga dai pensieri riguardo al futuro, tornare a un certo passato è servito a rassicurarmi.

Le stesse parole per anni, ripetute ancora. Gli stessi errori di un tempo, le stesse domande.

È che in un sogno mi son resa conto che dietro a un velo c'era una stanza della mia casa che finalmente mi rassomiglia. Era lì, così sotto al mio naso da non vederla a lungo, presa dal guardare altrove. Lì, luminosa e calda, con il parquet tirato a lucido e le finestre ampie e lunghe inondate dal sole. E una pianta gigante nell'angolo a sinistra, e la voglia di fermarmi lì. Dove, non so.

Qualcosa di me cui non sono cosciente, qualcuno che sono e che non è arrivato. 

Non è un buon momento. Un anniversario intenso, con un riemergere di pensieri legati al cane e alla sua vecchia padrona. Uno stop forzato a ogni possibile distrazione, anche se io poi so distrarmi con ogni cosa, che mi costringe a fare i conti con la mia vita. Con la sensazione di non essere adatta a questo luogo, con la sofferenza di una vita che in fondo è imposta (nonostante le opportunità di scegliere), con la necessità di evadere e gli acciacchi dell'età.



Mentre cucivo in laboratorio, combattuta tra la voglia di piangere e la rabbia del sentirmi imprigionata, mi è tornato in mente "coerenza dall'inizio alla fine" e la sua provenienza. Ho ricordato di aver fatto studi e approfondimenti senza mai ascoltare davvero fino in fondo. E mi son chiesta se io sono davvero questa qui, se esprimo tutto ciò che sono, se lo faccio correttamente, se il mio aspetto rappresenta davvero il mio "animo", se uso le mie capacità nel modo giusto, quello che più si accorda col mio essere. Ed è un no, confuso e ancora arrabbiato come un tempo. Un no che in parte deriva dal mio non volermi mai mettere in gioco, mai del tutto, per paura di non piacere o di non essere capace. Da qui l'auto ironia alle stelle, da qui la necessità di "nascondermi" dietro a personaggi che non mi somigliano mai del tutto per studiare il prossimo, per disturbarlo, per non trovarmi mai esposta e vulnerabile.

(foto di Fabrizio Maffioletti)

Mia madre ha contribuito molto a questo mio atteggiamento, da una parte con l'esempio e dall'altra presentandosi sempre come persona risolta e invincibile. Essendo, ai miei occhi, una guerriera sempre pronta all'ultima battaglia. Nel vederla morire, nell'assistere alla sua lenta e inesorabile agonia, ho compreso molta della sua fragilità. L'ho amata follemente e l'ho odiata tanto. L'ho vissuta come modello scomodo da seguire, certa che il suo fosse l'unico modo di esistere possibile: in lotta perenne con il mondo circostante, come se esso fosse costantemente una minaccia. In quarantun anni non mi ha raccontato esattamente cosa sia stato a renderla così, so di lei tante cose e troppo poche. E mi manca. Soprattutto ora che so che anche io posso farcela in questo mondo, che anni fa mi sembrava troppo complicato e che ancora non amo. 

So che mi sono fermata. So che non posso restare ferma. So che ho una serie di passi da fare per essere me apertamente e senza paura. Se spero di imparare qualcosa  da questo periodo di merda è solo questo che mi viene in mente.

Questa non è più camera mia, la mia vera casa è proprio qui, dietro al velo.

26.10.20

Fuori dalla ruota

 Forse dovrei riprendere il Prozac.

Rassegnarmi.

Fare il mio lavoro di bravo criceto, produrre e tornare a casa nel carro bestiame come dovrei fare secondo il sistema. Dimenticare i sogni, i desideri e le poche cose che mi fanno andare avanti. Annebbiarmi.

Spegnermi.



Alla fine non è una cosa nuova, l'essere solo un numero. Lo so da tempo e l'unica cosa che mi ha salvata è stata la mia capacità di sognare e di aggrapparmi a ciò che vedevo di bello e leggero. Diverso da me.

Mi sono illusa di poterne stare fuori, di galleggiare nelle mie mille cose fino a quando il mio obbligo nella grande ruota della società non fosse finito. E poi è arrivato quest'anno.

Non lo nego: il lockdown mi è servito per pubblicare il romanzo che altrimenti non avrei pubblicato. Avevo deciso di non farlo più. Può essere perché in fondo non amo mettermi in gioco sul serio e dopo i primi libri pubblicati ci voleva un vero salto di qualità, che implica un lavoro extra, un impegno maggiore mentre per me scrivere è facile, pure troppo, e io sono pigra e insicura.

Ma chiusa in casa con le mie parole in testa è stato semplice. Ho lasciato tutto il carico che aveva dentro e ho sorriso pensando a che facce avrebbero fatto i lettori. Scrivere "Il gioco dei vampiri" è stato facile, divertente. Fluido e liberatorio. Rileggerlo mi ha resa consapevole di quanto di più io possa fare ma a oggi non ho la forza di compiere il salto. 

La forza che ho sempre avuto finora era data dal tempo che passavo fuori dalla ruota. All'aperto, con gli amici, in palestra. Non più del necessario, mai in mezzo alla gente - non mi è mai piaciuto - e in modo quasi religioso. Ma ora...

E sì, sto parlando solo di me. Ma tra le persone cui voglio bene ci sono alcune che di sport ci vivono, come di arte, come di ristorazione e le vedo colme di una disperazione sempre più grande, come quella che sento io e mi chiedo fino a che punto dovremo essere schiavi di questo sistema in cui il profitto e la produttività contano più del benessere psicofisico della maggior parte degli individui che lo compongono a beneficio di pochi e vuoti, cinici mostri.


24.10.20

Ho perso le parole (cit.)

 Da qualche tempo mi mancano le parole.

Sono state soffocate dalla chiusura di marzo, da tutti i pensieri di aprile e dalla riapertura di maggio, senza criterio nel considerare le vite degli individui come tali; sono morte nell'attesa di giugno - 200 Euro per tutto un mese - e nell'affanno di luglio per recuperare quel poco di speranza di una ripresa del lavoro; non hanno trovato modo di tornare ad agosto né un minuto nella corsa di settembre e ora...

Le prospettive così poco allettanti per il futuro mi lasciano fiacca e disadattata. Non sono preoccupata per la mia salute, mai stata.

Pur avendo spento la tv e la radio sono sommersa da numeri di cui non mi importa assolutamente niente. Non sono negazionista ma rifiuto di vivere nel terrore. So che si muore, so anche che fa parte della vita e che pur non andandosele a cercare le cose succedono ugualmente: prima o poi, di qualcosa, morirò anche io. E non è poco rispetto per chi c'è passato o ci sta passando, per chi ha perso qualcuno, per chi sta male. La vita è fatta di questo, anche. Di malattia e morte, come di nascita e di vecchiaia. Inutile correre a Samarcanda, inutile immaginare un mondo in cui saremo tutti giovani e sani per sempre. Quindi faccio il possibile per evitare il pericolo ma voglio continuare a vivere la mia vita, qualsiasi cosa capiti.

Non credo nei complotti, eppure so che da ogni cosa c'è sempre qualcuno che sa trarre profitto. So di essere solo un ingranaggio piccino in un mondo di cui non ho una comprensione così ampia. So che "devo" produrre necessariamente, per il mio e l'altrui sostentamento. So che da quando sono tornata al lavoro sto facendo il triplo della fatica per il medesimo pezzo di pane ed è questo che non mi dà pace. Essere niente a parte quel piccolo ingranaggio per chi sta sopra di me e decide. 

Sono fortunata. Un lavoro da dipendente e a tempo determinato. Ma non è tutto nella vita e per me da sempre è solo ciò che mi permette di fare tutto il resto. Che non è chissà quale folle cosa. Pagare le spese, mangiare, curare le bestie di casa, pochissimo shopping, sere in palestra, a letto alle 23,30 quasi sempre. Pochi amici ma buoni, con cui passare il tempo libero senza assembramenti. Una cena fuori, due passi, un gelato, una fuga di un giorno al mare. Più che altro qualche allenamento casalingo e qualche birra in più con quella che ormai è "la mia congiunta" pur non essendo l'amore mio. Non chiedo molto. Sono una a "basso mantenimento" come dicevano forse in "Harry ti presento Sally".

Mi scoccia la burocrazia assurda tesa a far scarica barile nel momento giusto, tipo la firma ogni mattina al lavoro riguardo alla salute. Che poi io la febbre la misuro da quando è iniziata 'sta storia, visto che ho il raffreddore 12 mesi l'anno. Mi scoccia dover portare la mascherina quando sono sola per strada se poi vedo la gente gomito a gomito in pizzeria vicino al lavoro e nessun problema a riguardo. Mi scoccia vedere gli amici ristoratori in difficoltà perché con alcune restrizioni lavorare diventa davvero un'impresa. Mi scoccia che non passi un tram e che la metro nelle ore di punta sia piena e nessuno decida di tentare di sistemare le cose. Mi scoccia vedere le code per entrare a scuola.
Mi dispiace che si parli di chiudere palestre e parrucchieri. Per la pole poi, dove siamo immerse nell'alcol con cui puliamo i pali costantemente e con sale poco capienti mi pare ancora più assurdo. E il non riuscire già oggi a fare la spesa on line... manco avessi chiesto lievito di birra.

Mi sento un criceto tra milioni di criceti, bloccato in un ingranaggio da cui non posso uscire. Un numero utile a far girare la baracca e niente più. Il sistema mi pesa addosso. Hai voglia a fuggire con la mente in luoghi immaginari per salvare quel minimo di felicità; hai voglia a sognare momenti, soddisfazioni. Non mi basta più tutta l'immaginazione che ho. Non riesco nemmeno più a scriverla.


28.9.20

I tre aspetti degli amori che scrivo...

 Attenzione, contiene spoiler che riguardano "Il gioco dei vampiri"

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Mi sono accorta che in due dei miei romanzi esiste uno schema particolare. Non era voluto in nessuno dei casi, l'inedito fanta-horror e "Il gioco dei vampiri" eppure in entrambi i romanzi la protagonista si ritrova in un ménage poco tradizionale che mi ha portata a riflettere sulla diversa natura sia dei personaggi che dei sentimenti che per loro nutrono le protagoniste.

Credo che in entrambi i casi le protagoniste incontrino aspetti dell'amore differenti che nei romanzi assumono l'identità di uomini diversi. Ho letto spesso storie in cui c'è una sorta di lotta tra due personaggi per conquistare la protagonista femminile, solitamente rappresentano passato/presente oppure bene/male per far propendere il lettore per quello dei due che sembra "migliore". Tutto, almeno nei romance, porta a un naturale lieto fine. Ora, visto che io non amo il classico lieto fine e nelle mie storie c'è comunque una forte componente sentimentale, in qualche modo ho sempre complicato le cose. Per prima cosa non c'è mai un personaggio completamente buono o cattivo, nonostante tutto. Almeno non i protagonisti principali della storia. 

In questi due romanzi, a differenza degli altri miei scritti finora terminati, non c'è un innamorato migliore dell'altro, non uno peggiore. Ci sono maschi tendenzialmente Alfa - per quanto io trovi assurda la definizione - ognuno con caratteristiche precise e molto diversi tra loro. In buona sostanza, però, posso distinguerli in tre diversi tipi d'amore (e ho detto di amore e non di amante per un buon motivo).

C'è l'amore viscerale o romantico in senso filosofico (Michael, nel caso de "Il gioco dei vampiri"), quello senza senso e tutto sensi che travolge e trascina via tutto ciò che trova. Sia qui che nell'inedito, questo personaggio coinvolge la protagonista e la costringe a vivere qualcosa cui non era preparata ma cui evidentemente era predestinata. Non è mai un rapporto sereno, ha un che di patologico ma serve da tramite per lo sviluppo sia della storia che del personaggio femminile. È in sostanza una guida, un maestro e un complice. Nell'inedito questo tipo di uomo ricopre il suo ruolo inconsapevolmente, essendo in pratica se stesso senza un secondo fine, cosa che invece Michael sembra avere - forse anche la consapevolezza di essere per Wendy sia dannazione che rivelazione - nell'utilizzare la donna amata per eliminare il nemico. Per quanto forte sia comunque il legame, alla fine è difficile che questo tipo di rapporto vada oltre la sua funzione.  

C'è un amore impossibile o romantico in senso più comune; quello perfetto alla Principe Azzurro per intenderci (e qui è il turno di Lucio, ne "Il gioco dei vampiri"), che avvolge e fa sognare la protagonista. La fa sentire amata e "perfetta" come nessuna. Nell'inedito la protagonista ne viene affascinata pian piano mentre per Wendy è un vero e proprio colpo di fulmine pur portando con sé i mille dubbi riguardo alla natura di Lucio e all'impossibilità di vivere un rapporto normale in una situazione tanto complessa come la loro. Stesso problema nell'inedito, in cui però la protagonista non si ferma a pensare alle conseguenze delle sue azioni, troppo presa dal suo percorso e dalla necessità di capire. Lucio è tutto ciò che Wendy vorrebbe in un mondo ideale. L'abbraccio rassicurante di qualcuno che la ama così com'è e per quello che è. 

L'ultimo è l'amore concreto, quello che c'è e che cresce con la storia. Un incontro casuale, un salvataggio, una specie di controparte maschile di ciò che è o vorrebbe essere la protagonista. Una presenza forte che non necessita della relazione in sé ma che viene coinvolto suo malgrado dagli eventi e sceglie nonostante le difficoltà e le differenze di intraprenderla. È, ne "Il gioco dei vampiri", il caso di Mirko - anche se la parola amore nel suo caso non viene mai pronunciata - che ha annusato il potenziale di Wendy ma non ha mai cercato di conquistarla, curioso di conoscerla ma non ossessionato da lei. Nell'inedito è un uomo che fatica ad accettare la protagonista e le sue stranezze ma che alla fine cede ai propri sentimenti, nonostante tutto. Certo è diverso da Mirko e non è ben definito il suo destino ma è quello che resta, dopotutto. 

Ognuno di questi tre "caratteri" ha sia aspetti positivi che negativi, può risultare interessante e piacevole pur non essendo quello destinato a rimanere. Forse ne "Il gioco dei vampiri" sono un po' più marcati, meglio delineati rispetto all'inedito - che tra l'altro ho terminato molto prima della storia di Wendy ma che non ha ancora visto la luce della pubblicazione - ma lo schema è lo stesso. 

Alla fine sono convinta che ognuno di noi incontri questi tre tipi di persone, tre amori diversi, ognuno con un suo valore e peso specifico nella propria storia personale. Per quanto forte ci appaia il legame viscerale, per quanto sia perfetto quello romantico, alla fine è quello concreto che resta. Ci vorrebbe un pizzico di ognuno dei tre per avere il compagno perfetto, immagino. Trovo interessante scoprire, comunque, somiglianze e differenze nelle storie che scrivo. È un bellissimo gioco introspettivo e non mi stanca mai. Così come lo faccio con i romanzi "seri" che leggo, amo riflettere sui miei. Un esercizio infinito...

27.9.20

Inadeguatezza

Ho smesso di ballare, anni fa, perché all'improvviso mi sono sentita inadeguata. 

Non era questione di esserlo davvero o di quel che pensavano gli altri: di colpo lo ero. O mi ci sentivo, o comunque ho pensato che tutti quelli che mi avevano detto che non ce l'avrei mai fatta - e che io ho impiegato ogni energia a contraddire - di colpo avessero ragione. Probabilmente non l'avevano, perché dall'altra parte avevo diverse persone che mi dicevano il contrario, ma non è mai quello che pensano gli altri a fare la differenza. È solo che in un attimo è cambiato tutto, dentro di me.

Le motivazioni sono molteplici. Da una parte sicuramente è un problema di insicurezza che per un periodo è sparita sotto il controllo dell'adolescente incazzata che ero, tutta tesa a dar battaglia a un mondo che vedevo nemico e ingiusto. Quella ragazza decisa è sparita di colpo dopo un'esperienza disgustosa, rendendosi conto di non avere una corazza abbastanza dura, di non avere il controllo su niente, di non avere la natura di un caterpillar. Nel turbinio di pensieri confusi del momento, l'idea di non meritare il mio stesso sogno e anzi di meritarmi una punizione per aver osato tanto ha preso il sopravvento.

C'è anche il rapporto complicato con il corpo e con l'immagine che arriva dallo specchio. Facile sognare, ma ciò che poi ci torna rivedendoci è altra cosa. Ho sempre pensato al mio corpo come a una presenza ostile, un peso inutile, una zavorra che mi impediva di "volare". Questo anche quando non avevo problemi di peso o di cellulite. Il primo amore della mia vita - decisamente platonico - è stato il pattinaggio artistico su ghiaccio. Amavo la leggerezza che traspariva da quei movimenti, i costumi sospesi nell'aria e il vento tra i capelli... So che in realtà, come ogni cosa, pattinare, saltare e volare implicano uno sforzo muscolare non indifferente ma da bambina ero estasiata dall'idea di non avere un peso, di non avere limiti fisici o qualcosa che mi tenesse al suolo. Ecco, nella mia ansia di leggerezza il corpo è sempre stato un altro nemico e come tale mi si è spesso rivoltato contro. Le mie oscillazioni costanti, l'incapacità di gestire emozioni in modo consapevole, il desiderio - perché no - di farmi male. Ricordarmi che non mi piaccio, ogni tanto, fa parte del mio modo perverso di punire la mia imperfezione. Non mi sono mai concessa un errore e tutti quelli che ho fatto - non importa se per colpa mia o di altri - o che ho considerato tali, io li ho sempre pagati per auto-tassazione.

Allora sì, ho smesso di ballare perché ho commesso un errore e di colpo mi sono ricordata di quanto non fossi meritevole, di quanto avessero ragione i miei detrattori, di quanto fossero illusi o interessati i miei "fan" e di quanto fossi stupida e sporca. Inadeguata ai miei sogni.

Poi sono cresciuta.

Qualche anno fa ho incontrato la pole dance. Immagino che se qualcuno di voi mi segue da un po' già lo sappia. Sei anni, per la precisione. Anni in cui ho ripreso a lavorare "sul" corpo. Non solo per una questione di allenamento o di sex appeal, era una cosa più profonda che andava a toccare giù giù il punto esatto da cui partono le insicurezze. Capire, osservare il proprio corpo mentre esegue figure, mentre balla, un lavoro allo specchio e con altre donne, tutte diverse per fisico, età, capacità atletiche e artistiche. Dopo un paio d'anni stavo da dio. Davvero. Lezioni, saggi, esibizioni, gare... Una cosa che alcuni non avrebbero mai pensato e pur non essendo particolarmente magra o "figa", senza problemi.

È stata una palestra importante per l'autostima e, come per la danza, una vera a propria passione. Quasi una droga. Mi è servita in un momento di decisioni difficili, in un momento di crisi personale, lavorativa e in un certo senso esistenziale. Mi è servita molto, perché ha occupato i miei pensieri e il mio corpo mentre io "andavo avanti" e crescevo una nuova versione di me. In questa versione di me ho capito che non sono una nullità, che sono in grado di fare cose che non pensavo e che nonostante tutto - il mondo continua a non essere un gran posto, le delusioni esistono, gli ideali non salvano dall'avvento della realtà, niente è separato e niente è eterno così com'è - sono contenta di me. Lo sono.

Ma ancora una volta è successo qualcosa e io sono quasi tre anni che cerco l'errore. Improvvisamente, in questo mio nuovo e più adulto percorso, mi sono sentita inadeguata. 

Ero nella sala superiore del Female Arts Studio a Modena, a prepararmi per la mia ennesima gara. Una gara di exotic a cui si partecipa con selezione e a cui l'anno prima non avevo avuto accesso. Ero lì con una bella coreografia della mia insegnante Natalya Ryzhikh che mi aveva già fatto ottenere un settimo posto tra gli amatori in un'altra gara internazionale (Exotic Moon, una garanzia), quindi non particolarmente in ansia per l'esibizione. Chi mi conosce sa che non sono animale da competizione, di solito mi accontento di fare il mio pezzo al meglio e va come va. Ero pronta col mio costume, truccata e in fase di riscaldamento. Sola - in mezzo alle altre millemila concorrenti - con le mie borse e la valigia accanto. Ho alzato gli occhi allo specchio e in quel preciso momento ecco che è tornato il mio demone. Mi sono vista e mi sono sentita fuori luogo, sbagliata, quasi ridicola. Non perché più in carne di altre, non perché più vecchia o peggio truccata o che ne so. Chi frequenta le gare di exotic lo sa che è tanto spettacolo e che c'è di tutto un po', e soprattutto lì niente sembra eccessivo. Quindi, oltre al fatto che nessuno mi ha detto o fatto nulla che potesse farmi sentire così, non avevo nessun motivo per sentirmi in quel modo. Ma mi ci sono sentita. È stato un attimo, eh. Scacciato via il pensiero ho fatto tutto quello che dovevo ma una volta tornata alla mia vita normale la sensazione è rimasta. Fuori luogo, sbagliata, quasi ridicola. Poi ho iniziato a non guardare lo specchio, poi a non riprendere più le prove, poi a non gareggiare e non esibirmi, poi a sentirmi incapace di muovere anche solo un passo nel modo giusto. Non è reale, lo so. È tutto nella mia testa, ma mi sta bloccando e il desiderio di smettere ogni cosa si fa sentire. Come allora.

Solo che stavolta la conosco, la bestia. Sì, sto cercando di capire cosa abbia scatenato di nuovo questo meccanismo. Perché nel frattempo ho preso dieci chili, ho avuto una tendinite, ho mal di schiena, il soffio al cuore e avendo sospeso per infortunio ora al palo sono una ciofeca come avessi appena iniziato. E la tentazione di mollare è costante; la rabbia, il dolore, la sensazione di aver sbagliato tutto e ancora sbagliare... Può essere iniscurezza, in fondo ora sono una cinquantenne in un mondo di ventenni, può essere depressione, può essere un milione di cose ma non voglio smettere anche questa cosa. Perché smettere di ballare mi ha uccisa già una volta e non voglio morire più. Ci ho messo una vita a capire cosa era successo allora e ci ho messo tanto per riprendermi, ho elaborato e accettato ciò che ho vissuto. Sono cambiata, mi sento diversa, non ho più la rabbia di quei giorni e nemmeno la voglia di farmi male, ma ho bisogno di capire perché non voglio perdere un'altra vita nel rimettere insieme i pezzi. 

Vorrei smettere questa inutile battaglia con la mia inadeguatezza, perché è tempo sprecato. Perché nessuno di noi è inadeguato solo che è facile sentircisi. Abbiamo modelli sotto il naso tutti i giorni cui dovremmo adeguarci per sentirci "vincenti" ma poi, anche quando abbiamo vent'anni e pesiamo 48 kg e niente potrebbe fermarci, in realtà cerchiamo una perfezione che non esiste, un corpo che non esiste, una bravura che magari non è la nostra. Possibile che non riusciamo a essere semplicemente ciò che siamo senza tutte queste idee assurde nella testa? Io non lo so, voi ci riuscite?

13.9.20

Lo so

 Un po' come fossi uscita da me stessa, ultimamente non ho aggiornato il blog, né le pagine Facebook, né altro.

Ne avevo bisogno, ne ho bisogno.

Davvero il 2020 è un anno strano, altro che il 2018 - che definivo "l'anno che non c'è" - e speriamo che porti qualche frutto. Sì, la pubblicazione de "Il gioco dei vampiri" mi ha dato un po' di soddisfazioni, nonostante sia un lavoro complesso. Non so dire quanto ancora andrà avanti (sempre con il mio modo di non farmi pubblicità), ma sono d'accordo con una mia amica- lettrice quando dice che è il romanzo più "maturo" che ho scritto - o pubblicato finora.

"Il gioco dei vampiri" è stato scritto volutamente un sopra le righe. Visto che non intendevo pubblicarlo ho pensato di evitare qualsiasi filtro alle immagini che avevo in mente. Perché poi è una cosa che dovrei fare sempre, invece di preoccuparmi di piacere a chi legge (ovvio che poi sarebbe meglio se piacesse, ché altrimenti sarebbe puro esercizio). Le reazioni sono state varie (dal "sono arrossita leggendo" al "Ferrero tu sei pazza", al "è più pornografico che erotico" fino al paragone con un altro lavoro disturbante qual è "Eyes wide shut") e di sicuro molte delle persone che lo hanno letto non ne faranno una recensione sulle piattaforme web. In realtà l'ho scritto senza pensare a cosa stavo scrivendo, ho solo seguito le idee nei tempi morti (in pausa pranzo al lavoro, per esempio) e quando avevo voglia di distrarmi. Non avevo idea di cosa stessi scrivendo, di cosa sarebbe stato il lavoro finito; l'ho capito rileggendolo per eliminare gli errori (e scrivendone una parte col tablet non vi dico cosa non ho trovato grazie al T9) e mi è piaciuto quello che ci ho trovato. Un viaggio iniziatico, quasi tantrico, in cui l'immersione graduale e non sempre "volontaria" nel proprio inconscio fatta da Wendy diventa un viaggio alla scoperta di sé e della propria natura, cui arrendersi non senza dolore o fatica.

In un certo senso, anche se non esattamente quello di cui racconta il romanzo, pure io sto facendo un viaggio simile. La mia vita è cambiata molto negli ultimi anni. Ho fatto progressi, ho fatto passi indietro, ho preso decisioni, ho fatto errori e scoperte e in qualche modo sono soddisfatta di me anche se non tutto è come immaginavo. 

Sto assolvendo al mio compito di mamma di cane terminale e ciò implica un nuovo addio e vecchi ricordi, risveglia parti di me che erano sopite e mi fa porre domande su cosa sarò dopo. No, non è il primo cane che devo salutare, non il primo animale che lascio. Cali però è diversa, lo è sempre stata, e vivere senza di lei sarà più difficile comunque. 

Sto imparando a convivere con il mio corpo che invecchia - faccio fatica, ovviamente, ad accettarlo - e con le cose che non riesco più a fare senza uno sforzo immane. Sto cercando ancora un nuovo equilibrio in cui la spinta creativa non cozzi così prepotentemente con la vita da distruggerla. Il fatto è che ogni volta cambia, che se soffoco una delle due pulsioni blocco immediatamente l'altra e mi ritrovo ferma; viva ma ferma. Tranquilla, ma non soddisfatta. E avrei voglia di scrivere, di dipingere, di ballare eppure in questo momento non ci riesco perché ho paura di "rompermi". In me tutto esplode, sempre, solo che sono stanca di raccattare i miei stessi pezzi ogni volta e rimetterli assieme per poi esplodere di nuovo. 

Una volta il mio monaco (ne ho uno pure io, come Wendy, ma terribilmente umano) mi ha detto che devo cercare di non fermare questo vento, anche se è difficile imparare a controllarlo. Ed è vero: se lo lascio andare distrugge soltanto pur di fare la sua strada, ma non sempre ho la capacità di convogliare tutta la sua forza verso una sola direzione. Sono tempesta. 

Sono quattro e non ho ancora imparato a essere uno.

 

4.7.20

Ci ho messo un po'...

Non so se sia a causa di Mercurio retrogrado, ma l'ultimo periodo è stato segnato da ritardi, contrattempi e scocciature che mi hanno anche un po' tolto l'entusiasmo.
Durante la chiusura ho avuto tempo di fare l'editing e di preparare il mio ultimo divertissement per la pubblicazione. Dopo una serie di esperienze non del tutto positive e di considerazioni e meditazioni furibonde tra me e me, ho deciso che avrei pubblicato questa storia in self. Sì, è vero: non sono capace di farmi pubblicità e alla lunga può essere controproducente, ma cercare un editore è ogni volta estenuante e ogni volta qualcosa non mi rende soddisfatta di ciò che faccio.
Non è una questione di guadagni; alla fine se coi proventi dei libri ci faccio sì e no una pizza all'anno, non è che ci sia da immaginare chissà quali risvolti. Più che altro è che quello che scrivo non è mai solo quello che sembra e spesso non ha un genere ben definito, oppure ha un genere definito ma esula dai parametri di quel genere e non è pubblicabile, oppure è scritto appositamente per risultare un "fumettone" e non mi interessa se non è originale a sufficienza perché non cerco di fare Letteratura, a me preme di raccontare storie.



Quindi ho scritto la storia di Wendy.
Non so se la ricordate (o almeno se quelli che hanno acquistato il racconto "La caccia" anni fa se la ricordano), ma è una signorina che va a caccia di vampiri in postacci a luci rosse e che durante una delle sue missioni incontra tale Michael. Vampiro, cattivo, sexy, perverso.
Ecco, siccome avevo in mente di scriverne più episodi, poi il mio editore vecchio ha ceduto l'azienda ad altri e mi è un po' passata la voglia, a un certo punto ho ritirato il racconto e l'ho tenuto al caldo, coperto da un panno, finché non è cresciuto.
La mia pagnotta è diventata un romanzo che è sì erotico, ma come al solito è tante altre piccole cose e che mi è piaciuto moltissimo scrivere. A volte un po' esagerato, forse, ma pieno di sfaccettature e di introspezione (detto di un erotico in effetti suona strano).
Quindi ci ho lavorato e ora è un ebook carino, confezionato tutto da me. Aspetto di stringere il cartaceo in mano per dire se la sensazione è quella giusta, ma per me il lavoro vale la pena.
Ci ho messo un po' anche a dirlo, perché non so farmi pubblicità. Non ci riesco e probabilmente non ci riuscirò mai.
Però è qui. Io ve lo consiglio. Si chiama "Il gioco dei vampiri" ed è una cosa importante per me.
A voi il piacere. Tutto...

14.6.20

Sangue

Pic: Globalist
Poi c'è il sangue, poi la musica.
Poi ci sono vene in evidenza sulla pelle, poi c'è l'azzurro cangiante, poi c'è il verde tutto intorno.
Poi c'è il bosco, poi la luce che gioca con le ombre.
Poi c'è il cuore diviso.
Poi c'è il desiderio forte. E la pelle che brucia, e i baci la notte e le braccia ad accoglierti.
Poi c'è la voglia, la brama, la fame di tanta gioventù ormai sopita.
Poi c'è l'assenza, il vuoto, la vita che scorre.
Poi c'è l'amore folle.
Poi c'è una mente senza controllo, un corpo che non risponde, la presa che sfugge.
Il dolore, la paura, il silenzio, la consapevolezza.
Tutto. Qui. Niente.
Scorre, altrove, lontana.
E il sangue, e la musica, e il viaggio vorticoso fino a casa.
E, vicino, possibile, nulla.
Il destino. Il non temere, affidarsi. Fidarsi.
E il cuore diviso, e la musica e il sangue...

14.5.20

Noi e loro

Il mondo ci vuole contrapposti.
La nostra mente ci vuole contrapposti.
La nostra paura ci vuole contrapposti.


Ci siamo noi e ci sono loro.
Ci sono io e c'è chi è altro da me. C'è ciò che è mio, c'è cosa riguarda solo me.
Ci sono io, gli altri sono un problema.


Anni di buddismo mi hanno insegnato che nella vita tutto è interconnesso.
Allora qual è il punto?
La paura.
Solo la paura è in grado di governare così bene la sensazione di divisione dal mondo. Io non so spiegare, non ho le parole, non ho conoscenza. Non ho un testo cui appigliarmi. Ma vedo.

Questa paura che hanno usato contro di noi per anni sta facendo effetto. Ci guardiamo tutti con diffidenza, puntiamo il dito, allontaniamo.
Non siamo più disposti a vivere.
Non siamo più capaci di restare da soli eppure mai come ora ho respirato tanta distanza dagli altri che diciamo mancarci.
Non è così che deve funzionare.

Il meccanismo serve a sopravvivere, a far sopravvivere un Io. Ma tanti Io non fanno un Noi da tempo. Tanti Io restano separati e negano il mondo.
Quanto odio, quanta rabbia, quanta paura.
Come siamo finiti quaggiù?

6.5.20

L'analisi illogica del testo 13 - Quarantena

Dal primo giorno di quarantena avevo in mente questo racconto di King (sì, lo so, sempre lui) ma non sapevo ancora perché e forse non lo so nemmeno adesso.
Sono molto affezionata alla serie della Torre Nera, che permea ogni altro lavoro di King come traccia sotterranea non sempre percepibile se non si è letta una quantità sufficiente dei suoi lavori. Questo racconto, "Le piccole sorelle di Eluria" è parte della storia di Roland Deschain anche se può essere letto indipendentemente. Fa parte della raccolta "Tutto è fatidico" (S&K, 2002) ma risale al 1997 ed è collocabile all'inizio del percorso di Roland, prima quindi del primo libro della serie.



Perché mi è venuto in mente? Bella domanda.
Mentre tornavo a casa dopo l'ultimo giorno di lavoro, l'atmosfera intorno a me era molto cambiata. Fino al giorno prima era tutto abbastanza normale ma quella sera, mentre camminavo verso casa, l'ululato continuo delle ambulanze mi aveva dato l'impressione di trovarmi altrove. Il vento, poche macchine, la luce che calava e la gente un po' più curva del solito che rientrava a casa. Non so, sarà stata la desolazione che ho sentito addosso ma il paesaggio western è arrivato subito dopo.
Quel west poco sano, di un mondo che è andato avanti, una dimensione parallela che si regge su energie che noi non comprendiamo. Quell'aria sabbiosa, densa, che soffoca il respiro. E l'abbandono della città di Eluria, fatiscente e densa di morte, in cui attendono cose che un tempo erano uomini; mutanti lenti e dal colorito malsano, né zombie né vivi come erano un tempo... E l'aggressione, e quei morti che cercano di prendersi il vivo. La massa contro il singolo in una lotta impari, la resa dolorosa.

Poi la tenda d'ospedale, la luce che l'avvolge, la sensazione d'essere sospesi. Quelle inquietanti religiose e il loro cibo drogato, e gli insetti che cantano. L'idea che a salvare la vita sia l'uomo Gesù che così poco piace alle Sorelle. E un finto fratello che la menzogna non protegge abbastanza, e il tradimento di uno dei mutanti e quello della prescelta. Il popolo e le istituzioni e in mezzo Roland; ferito, confuso dalla droga, a tratti innamorato di Sorella Jenna, inorridito da ciò che ha intorno. Non salvezza ma morte certa, e una morte sporca e spiacevole del tutto priva di onore. E l'orrore cui è costretto a non poter porre termine, per sé e per gli altri ricoverati. Un'attesa lenta nel dormiveglia e furiosa nella speranza di uscirne presto, e vivo.

Ed ecco, quando tutto sembra perduto l'occasione arriva e pare ci sia un orizzonte sicuro al di là delle colline di Eluria, per lui e per Jenna - che tutto perde del suo mondo e del suo futuro assicurato - e per un randagio sopravvissuto e macilento che per un po' li segue. Ma non può esistere un lieto fine, non con quelle premesse, non per Roland che ancora deve vedere tanto di quel mondo, che ancora deve partire per la sua ricerca e che da tanto tempo non ha tempo per l'amore...

Ecco, forse ho capito che non c'era niente da capire. Forse questo racconto è semplicemente un racconto di quarantena, di desolazione e di sofferenza, di solitudine e di paura per il futuro. Per ognuno ha una sfaccettatura differente, questo momento. Ed è bello sapere che nelle pagine di un anziano e meraviglioso scrittore c'è già tutto il mondo. Il nostro e l'altro.
C'è la vita con tutta la sua meraviglia e l'orrore. C'è quel senso di impotenza di fronte al ka, al destino, al futuro, che ci appartiene. C'è la storia dell'uomo. E non è questione di genere letterario.

20.4.20

Ciò che popola i miei sogni

Prima c'erano ascensori senza gabbia, ondeggianti in uno spazio vuoto, che a prenderli rischiavi di cadere. E scale senza ringhiera e senza finestre, pianerottoli in penombra e scure porte di legno. E c'erano atrii in marmo con spirali di scale che se ti sbagliavi non arrivavi mai più al piano; il lusso, uomini in giacca e papillon che incrociavo in corridoi infiniti.



Non mi sono mai persa, non sono caduta, ho avuto paura. Ma le case mi hanno sempre accolta.



Prima ancora c'era una casa che ne era molte insieme. Ampia, iper moderna, con vetrate immense e un giardino esterno che copriva gli sguardi del mondo. Ci andavo spesso di notte, dove la luce gialla dei lampioni esterni entrava da quelle che sembravano veneziane verticali in un salone bronzo con divani minimal dalle zampe di metallo e con tante piante verdi, e un camino. Attraversando le sue stanze ti trovavi in un'ala abbandonata, in un bagno bianco e azzurro con una vasca enorme e lunghe finestre fino al soffitto, e un balcone. E una zona segreta e ancora scale, piani ammezzati e libri dappertutto.

E ancora un alloggio con una sala in cemento e vetro con un tappeto zafferano, in un palazzo a conca, muri ruvidi e una feritoia quasi al soffitto da cui entra la luce, e una cucina con un terrazzo, un pianerottolo verandato e scale bianche verso il cortile ampie e piene d'aria, e prato inglese e un bosco al limite. E una composizione di rocce al centro del giardino.


E ancora una casa dal corridoio scuro che termina su un terrazzo di pietra sull'orlo di un giardino selvaggio e cupo, con aghi di pino a terra e un sentiero che porta a un enorme leone di pietra su cui arrampicarsi, bambine.

E quella il cui terrazzo si scioglie in mare, lambito dalle onde, di legno e sassi. E quella con il salotto oro e verde militare, le tende pesanti e le finestre antiche. Quella con il pergolato in terrazzo e un tavolo in ferro battuto e piccole piastrelle colorate. E quella con l'atrio immenso e alto fino al cielo, una parete a rettangoli di vetro su tutto quell'azzurro, quella le cui scale portano a un ufficio bianco e a una testa mozzata e viva. E che a discenderle raggiungi la piscina.

La casa accanto al fiume con le tre sorelle e l'alluvione. E altre che ricordo e non ricordo e che si perdono tra un sogno e l'altro, e che tornano a volte con i loro misteri e il significato nascosto di ognuna di esse...

Anche stavolta, salendo una scala barocca ampia e luminosa sono arrivata dove volevo.
Una casa enorme che necessitava di ristrutturazione. Bella, soffitti alti e quadri e arazzi, ma mal tenuta. Infiltrazioni d'acqua, crepe e pezzi d'intonaco cadenti. E io, da dentro, con persone diverse a seconda del momento, a controllare i danni e il lavoro da fare. E mia mamma, e il mio ex marito, e padroni di casa sconosciuti. L'acqua che scende lungo le pareti e niente che si rovina in casa.

Poi una coppia di ospiti che faccio accomodare su un divano di velluto color curry. E un'aquila reale, brillante d'oro, che cerca di trascinare via uno di loro, mentre un animale indefinito fa cadere l'altro ospite. Il desiderio di esser sola, in fondo, nei miei luoghi. E la luce dai fori nei muri, e il bello di vedere le pareti cedere. Sapere che non succederà niente di brutto.

Al fondo della sala un pannello che si stacca. Tiene tutta la parete, sopra ci sono due figure austere, tra la divinità greca - tunica porpora per lei, ocra per lui - e una coppia regale. Dei o regine, si staccano dalla parete che li ha sorretti finora. Un altro crollo, altra luce che arriva da dietro. Il senso di qualcosa di ineluttabile e necessario, eliminare il vecchio.


Io che temo chiusura sogno di aprire la mia casa alla luce. Se c'è bisogno, e c'è, saper lasciare la propria oscurità, il proprio desiderio di nascondere l'anima al mondo. Se c'è bisogno, e c'è, cedere alla vita senza paura di rinunciare a ciò che dava certezza. Se c'è bisogno, e c'è, cambiare la propria anima e accogliere il bello, accogliere la luce, lasciarsi illuminare dal nuovo. Crescere. Diventare chi sono.

10.4.20

Ciò che si muove dentro, un'analisi ancor più illogica senza il testo 12

Stavo cercando una foto per l'ennesima sfida su Facebook, cosa che di solito non faccio ma che - un po' come mettermi a prendere il sole sul mio mini terrazzo - in questo periodo mi fa passare un po' del tempo immersa in cose che amo.
Stavolta riguarda i 10 film (ma contemporaneamente ne sto facendo una che si occupa di libri) che in qualche modo mi hanno toccata. La prima considerazione, cercando le foto giuste, è stata che finora i film cui ho pensato sono tutti di fantascienza e fin qui ci sta (sono "Star Wars" - il primo storico, quindi l'episodio 4 e "Blade Runner", per poi arrivare al terzo che cercavo appunto stamattina). Non ho mai avuto dubbi su cosa mi ha catturata fin dal primo sguardo.
Poi ho scelto il film che mi ha stimolata di più tra quelli della sua serie, perché tra i tre che si salvano è davvero difficile trovare quello giusto: tutti sono gran film, ognuno con caratteristiche differenti, scelte registiche particolari e spunti di riflessione diversi.


Ho sempre amato "Alien".
Forse perché ho subito il fascino del proibito (quando è uscito nelle sale io ero troppo piccola e ho invidiato i miei cugini poco più grandi di me per averlo visto al cinema mentre io l'ho sempre visto in tv), forse perché poi era un mostro bellissimo - le linee di Giger, quell'armonia particolare che richiamano, la simbologia fallica, anche - e spaventoso. L'ho amato nel film originale di Scott, claustrofobico e molto "freddo"; l'ho amato nel sequel di Cameron così macho e sudaticcio; l'ho amato nel terzo episodio di Fincher, di nuovo claustrofobico e più intimo; l'ho amato meno nel quarto capitolo più per la mancanza di estetica del "mostro" finale che per altro.

Per alcune persone, il mostro del film rappresenta il cancro, la malattia che cresce in te e che ti uccide. Io non l'ho mai visto così, mentre è più facile vederlo come il lato primitivo nascosto in noi. Quella rabbia che vien fuori dallo stomaco e che distrugge ogni cosa non gli somigli. Una specie di "Es" primordiale, l'istinto puro, il lato cacciatore e omicida della nostra personalità, quello che a volte sembra governare la gente negli ultimi anni. Lo avevo detto in un vecchio post, qui. Non ho sviluppato l'idea ma all'epoca mi sembrava convincente più della malattia.
Però per me "Alien" è un'altra cosa ancora, più profonda. L'idea di questo semi parassita che necessita di un corpo altro per crescere, per poi venirne fuori letale e velenoso mi ha da sempre fatto pensare alla maternità. Lo so che sembra strano associare una creatura tanto pericolosa a un qualcosa di simile, in molti mi hanno fatto notare che il mio istinto di maternità non è proprio così spiccato, però oggi, cercando una foto per il contest ne ho riviste molte e mi pare che il rapporto con la maternità, con la figura materna e con l'istinto protettivo che si ha nei confronti delle madri sia più che evidente in tutti i film.


Cominciamo dal modo in cui si viene infettati: cosa sono i parassiti "stringifaccia" se non delle specie di spermatozoi  che volano verso un ospite e impiantano la vita? Ci somigliano anche e il loro unico scopo è, appunto, portare a termine una fecondazione, dopodiché si staccano e muoiono. Da lì, un piccolo vermicello cresce nell'addome di un ospite, per poi uscirne in modo molto violento e spiacevole e diventare un individuo a sé. Nel terzo episodio, poi, scopriremo che a seconda dell'ospite in cui l'alieno cresce, il DNA cambia assumendo anche le caratteristiche della creatura che lo ha portato a maturazione. Però esce, nasce proprio - non come una malattia che resta nascosta il più possibile e distrugge l'organismo da dentro - e nel nascere "termina" il suo creatore.


Nel secondo film, il tema della maternità è trattato in due filoni contemporaneamente: da una parte Rilpey trova la piccola Newt e il suo istinto materno la porta a proteggere la bambina a ogni costo; dall'altra c'è la Regina Madre degli xenomorfi, che entra in conflitto con Ripley che nel salvare Newt distrugge le uova col lanciafiamme. Il suo istinto materno si scontra con quello umano fino alla fine tragica sia dell'equipaggio che della Regina stessa, in un inseguimento e in una lotta tra le due madri che ricorda quello animale.
Succede poi che Ripley, nel terzo film, si ritrovi a essere lei stessa ospite di una Madre e che per questo motivo nessuno degli xenomorfi presenti sul pianeta prigione la attacca. La scena finale del suicidio di Ripley la vede trattenere al petto la Regina neonata mentre si lancia nelle fiamme in un gesto che sicuramente al di là del trattenerla per ucciderla ha un non so che di materno in sé.




Nel quarto episodio, i cloni di Ripley hanno DNA alieno e la creatura "nuova" ha un volto quasi umano (molto quasi) e l'ultima Ripley è di fatto riconosciuta dall'ibrido come la sua vera madre (mentre l'ultima Regina Madre ormai non depone più le uova ma partorisce direttamente).
Ad alimentare l'idea, dal punto di vista estetico, c'e la forma doppiamente fallica che Giger ha dato agli xenomorfi, in cui non solo la testa può ricordare quella del sesso maschile ma anche la "lingua" dentata che scatta a penetrare la vittima.
Poi sicuramente io avrò da andare ancora dalla psicologa, ma l'analisi mi pare sensata.
A voi la palla.

6.4.20

Nessuno, centomila, ma non quell'uno...



"Noi non siamo chi siamo", ripete incessantemente lo scienziato nell'episodio dal titolo Morte tra i ghiacci, nella prima stagione degli X-Files.
Al di là dei risvolti fantascientifici, la domanda su chi siamo in realtà è forse una delle più interessanti che possiamo porci.
Possiamo dire che siamo una persona diversa per ciascuna delle nostre conoscenze, che ciascuno tenderà non solo a vedere in noi solo quello che desidera vedere (che sia un pregio, un difetto, una necessità, qualche segno) ma anche a proiettarci addosso la propria fantasia.
Così diventiamo fanciulle indifese, persone terribili o dee di bellezza inusitata a seconda di chi ci osserva, senza peraltro essere nessuna di queste cose - o tutte insieme.

Oggi i social rendono ancora più complicata la faccenda. In una perenne ricerca di consenso, alcuni tendono a mostrare solo il meglio - foto ritoccate, premi vinti, attestati di virtù e qualità - altri a esibire il proprio lato tragico, altri il proprio successo spropositato. Nessuno però è solo ciò che mostra e pensare di conoscere una persona perché posta solo selfie sorridenti su Instagram o perché a volte esprime una lamentela su Facebook è quantomeno fuorviante.
Scegliamo quotidianamente cosa mettere in piazza e cosa no. A volte ciò che scriviamo è dettato da un'urgenza personale, altre volte riflette i pensieri che vorremmo far valutare ad altri, oppure ancora è solo la milionesima parte di ciò che stiamo vivendo.

Spesso mi capita di usare grandi parole per piccole cose, perché giocare con le parole è in qualche modo uno dei mestieri che mi sono scelta. Quando invece c'è qualcosa di grande (buono o cattivo che sia) è possibile che io non usi le parole ma la musica, la danza, il colore. Perché dolore e felicità non sempre si possono dire. E nemmeno leggere in uno sguardo.
Le nostre vite sono così complesse, a volte, che i momenti più difficili sono anche i più felici. Momenti in cui sappiamo che la nostra felicità avrà un prezzo, ma per quante siano le difficoltà è proprio lì che vogliamo andare e per quanto tutto ci spaventi, dentro lo sappiamo quale sarà la ricompensa.
Ma è difficile intuire la vita di qualcuno da due foto ritoccate e da un paio di post su Facebook, troppo facile appioppare ad altri le proprie facili conclusioni e fare commenti inopportuni. Perché per quanto pensiamo di conoscere una persona ci saranno sempre mille cose di lei che non sapremo mai e che non sappiamo neanche se ci viviamo insieme.

Siamo ognuno un pianeta a parte, controllato dalle stesse forze e composto degli stessi atomi in quantità diverse. Siamo interconnessi ma non per questo uguali, ognuno con la sua storia addosso e con un modo diverso di interpretare i segni. Fin troppo facile affibbiare a ciascuno i nostri stessi modi. Pensare che una persona sia come ce la siamo dipinta è molto più facile di quanto pensiamo. E da lì far scaturire un giudizio è altrettanto semplice.



Eppure ancora, nonostante tutto, noi pensiamo di avere un'immagine unica e univoca. Pensiamo di essere uno. Quell'uno lì, non un altro. Mentre l'altro a volte ci pare nessuno.
In realtà siamo tutti centomila. Poco da fare.
Ce ne accorgiamo quando all'improvviso le persone che abbiamo accanto non sono più come le vedevamo, quando ci danno etichette invece di guardarci e accettare l'insieme. Come se le etichette che ci diamo, la classificazione con cui ci semplifichiamo la vita, fossero realmente applicabili alla vita...


31.3.20

Scegliere

Fin da piccola ho avuto a che fare con i miei demoni personali.
Li chiamavo "Le tre P": pigrizia, pancia e paura.

Erano, e sono in parte anche adesso, i motivi per cui non faccio quasi mai più del necessario e così mi va bene perché alla fine bisogna anche imparare ad accettarsi per quello che si è: imperfetti.
Così, anche se sembro una persona attiva e dinamica, dentro di me la spinta a non fare è quasi sempre la più forte di quella opposta. Ci vuole una grande passione per farmi muovere.

Se però penso a me negli ultimi anni, mi rendo conto che tendenzialmente le "P" sono solo più due. No, non è che abbia sconfitto del tutto il mio terzo demone. Solo che, in un mondo in cui mi arrivano da tutte le parti gli stimoli ad avere paura, io ho scelto di non volerne avere. E no, non sono una persona tanto fortunata da poterlo fare per non aver mai subito avversità; non sono incosciente e mi rendo conto che la vita è un costante rischio. Ma non ho voglia di rovinarmela perché devo avere paura che qualcosa non vada come vorrei.
La vita non va quasi mai nella direzione che vogliamo, tocca farsene una ragione. E se, consapevoli che ogni giorno potrebbe capitare qualcosa che questa vita ce la cambia, invece di guardare la cosa come un problema la vivessimo con curiosità, non sarebbe meglio?
Invece di aver paura di perdere, pensare di acquisire qualcosa. Che sia esperienza, che sia un cambiamento in positivo, che sia lo stupore di una cosa inaspettata...

Stamattina scorrevo la home di Facebook e ho trovato, nel post di una vecchia amica, un'immagine, che pubblico qui sotto con tanto di "bollino" per la fonte. Riferita alla situazione attuale, a come reagiamo di fronte a questa incognita, all'isolamento, all'idea di ammalarci o di perdere gli affetti... Mi ha fatto riflettere.
Fin da subito non ho avuto paura di ammalarmi. Lo so che essere sana e fisicamente attiva non è una garanzia e che potrebbe capitare comunque, ma non mi spaventa - e non mi spaventa l'idea di morire. Non ho avuto nemmeno particolare timore per i miei familiari, che non vedo da un mese circa e che mi mancano come è normale che sia. Non ho affrontato le restrizioni pensando alla mia libertà minata da un decreto - liberi non siamo comunque, in questa società che ci vuole prima di tutto consumatori.
Non mi sono lasciata sopraffare dallo sconforto per il lavoro che non so se e come riprenderà. Sarà che in vita mia ho già perso quasi tutto più volte e sono ancora qui a raccontarla. Non mi sono lasciata andare alla tristezza perché, diciamocelo, al di là di sporadici incontri sotto casa mentre portavo il cane e qualche video chiamata da Skype io sono chiusa qui da più o meno tre settimane sola col mio cane e il gatto.

Ho iniziato spegnendo quasi tutto. Radio, tv e social in parte. Ho ascoltato il silenzio e le sirene intorno. Ho pensato alle persone che conosco che lavorano in ospedale e nei supermercati e ho provato gratitudine e "compassione" per chi questo momento lo sta vivendo peggio di me. So che stanno facendo quello che devono fare pur avendo paura ed essendo stanchi.
Ho cercato di non fare acquisti on line se non strettamente necessari, perché d'accordo che in questo momento i negozi sono chiusi per la maggior parte, ma pure i corrieri rischiano di brutto e non mi piace l'idea di farli rischiare perché io, a casa, ho voglia di un cuscino da arredamento. Quando sarà tutto più facile per tutti, sarà il momento di pensare ad abbellire la casa, che nel frattempo ho approfittato per sistemare meglio - cosa che rimandavo da tempo. Di tutte le notizie che mi sono arrivate, ho controllato se fossero attendibili e, nel dubbio che non lo fossero non le ho condivise. Già ci vogliono spaventati e disposti a fare qualsiasi cosa pur di salvarci, se devo proprio condividere qualcosa, che almeno sia utile a migliorare.

Ho ascoltato tutte le voci. Non credo assolutamente nel complotto, credo che in parte stiano scaricando a noi il barile delle responsabilità di un'economia volta solo ai guadagni di alcuni e credo anche che non impareremo a essere responsabili nonostante tutto il disastro che saremo chiamati ad affrontare. Però credo che lasciarsi sopraffare dalle emozioni sia la cosa peggiore da fare. Non mi interessa che il numero dei morti sia più alto o più basso di una normale influenza, non è mai stato questo il punto, soprattutto vista la condizione in cui lavorano medici e infermieri (il cui contratto nazionale è fermo da chissà quanti anni eppure sono lì, per noi). Il punto è che a forza di cercare qualcuno - "altro", "forte", "deciso" o "di successo" che fosse - che gestisse per noi le cose in modo da toglierci oneri e doveri, abbiamo lasciato il nostro mondo in mano a chi ci ha mangiati vivi per anni. Il punto è che stiamo pagando ora la scelta di adeguarci al meno peggio, il punto è che abbiamo smesso di imparare e ci siamo abituati a leggere i titoli e non gli articoli, che abbiamo smesso di scegliere. Ed è questa la cosa peggiore.

Io so che non è facile e che non sarà facile affatto, ma ho scelto di non avere paura o, almeno, di non lasciarle tanto spazio nella mia vita. So che ci saranno cose cui dovrò rinunciare. So che voglio vivere questo cambiamento in modo che mi faccia crescere.


29.3.20

Comunicare, vincere...

Ricevo stamattina una newsletter cui sono abbonata.
Ne scorro il testo, salto tutti i link cui mi rimanda e chiudo.
Mi rendo conto che, se già da tempo ho qualche problema con le "comunicazioni importanti" che tentano di vendermi qualcosa o di istruirmi a seguire il loro metodo per essere vincente.
Io non voglio essere vincente, questo è chiaro a chiunque mi frequenti.

Poi ripenso alla mail.
Comincia con una sorta di aggiornamento sulla situazione riguardo al virus, come per mettere in evidenza l'empatia dell'autore e farmi sentire che anche lui è qui. Coinvolto, presente e attento. Tre righe dopo mi scrive dell'argomento della newsletter e mi sottolinea più volte quanto sia importante quello che mi sta dicendo, ma io sono ancora disturbata dalle prime righe.
Mi torna subito in mente un post di "Talento e felicità", un team di persone che conosco bene e che si occupano di consulenze di carriera  (se volete seguirle su Instagram), in cui si parla di parole di plastica, ovvero quelle parole e quei modi di comunicare che sono diventati uno standard e che non necessariamente comunicano qualcosa. La formalità, la forma invece della sostanza.
Quello che mi ha sempre dato fastidio, come con le pubblicità, è questo tentativo di coinvolgere le mie viscere per farmi agire secondo un fine. Ora capisco che sia normale, se vuoi vendermi un prodotto, che tu me lo faccia percepire come assolutamente necessario. Altrimenti potrei non desiderarlo, ovvio. Capisco anche che ci siano studi approfonditi su come arrivare a questo scopo e che sia uso comune in politica, in pubblicità, sui social; siamo esposti ogni giorno a questo modo di comunicare e spesso cerchiamo di usarlo anche noi per "venderci".



No, non che io mi venda. Ma ho una pagina Facebook pubblica in cui promuovo i miei libri (ma non solo) e certe volte mi chiedo se dovrei adeguarmi anche io al sistema. Cioè, io vorrei vendere libri ma non mi piace affatto l'idea di dover usare come paravento la situazione emotiva di chi mi legge.
Ognuno di noi ha dei problemi, ognuno affronta ogni giorno delle difficoltà, che siano personali, di lavoro, di relazione, di soldi, di desideri irrealizzati, di frustrazione per non essere chi si vorrebbe.
Quando si vive una situazione che fa sentire a disagio è normale diventare vulnerabili ed è su questo che molta della comunicazione attuale si fonda. Farci avere paura, farci crescere un bisogno, farci seguire il loro modello per tenerci buoni. Funziona così da sempre.

Il gioco del mondo è creare uno status, scatenare una crisi per innescare il panico, ristabilire uno status simile al precedente ma con maggiori vantaggi per sé, aspettando che il panico diventi dolore, perché nessuno ama il dolore.

Questo lo pensavo cinque anni fa. All'epoca era dovuto a una lite con risvolto psicologico - io tendo a frequentare manipolatori, sto cercando di smettere e il primo passo è sempre e fondamentalmente accorgersi del meccanismo - ma, appena formulato il pensiero, mi è sembrato applicabile alla realtà del nostro mondo.
Così è ovvio che tutti gli spot urlati "contro" chi ci sta togliendo il poco che abbiamo (ma davvero abbiamo così poco?), contro chi minaccia il nostro status, contro chi o cosa non importa basta che sia  un "altro da noi"; tutti questi spot io li patisco. Mi fanno rabbia, certo, ma più verso chi li fa che verso le persone cui sono rivolti. Ovvio anche che mi faccia rabbia vedere molti seguire questo schema per paura di perdere qualcosa. Perché, e siamo alle solite, è troppo facile guardare fuori da sé e trovare il nemico.
Non nego che, nel momento in cui sono partite le attuali restrizioni, io abbia pensato a un tentativo di scatenare una crisi generale per poi trarne vantaggio. Probabilmente è anche così. Il Dio Denaro continua a governarci e trovarci tutti con le pezze al culo non farà che farci adeguare a lavorare anche di più per meno soldi di prima - perché non ci sono, dicono, quando in realtà ci sono sempre delle soluzioni - o impedirci di vivere "come prima", come se prima vivessimo bene e non strozzati da un giogo che ci impedisce di realizzarci.

Cosa c'entra con la newsletter?
Ecco, è il modo. Questo volermi convincere che si è preoccupati per la situazione prima di ogni cosa. Probabilmente è così che ti insegnano nelle scuole di web marketing. Non ne ho frequentate ma, visto che lo schema sembra sempre lo stesso in qualsiasi contenuto volto a farmi acquistare un bene o un prodotto, anche qui mi è sembrato "vuoto".
Se sono iscritta alla tua newsletter è perché mi interessa conoscere i tuoi contenuti, non farmi aggiornare da te sulla salute del mondo. Per questo esisterebbero i giornali o i canali specifici che (stendiamo un velo anche qui) dovrebbero informarmi senza cercare di vendermi alcunché - nemmeno una visione del mondo. Allora se mi vuoi sembrare più umano, o almeno più normale, lascia che siano loro a occuparsi del virus; lascia che io mi informi come e dove desidero senza cercare di farmi vedere che sei umano, Stai facendo il tuo lavoro: la newsletter mi serve per essere aggiornata rispetto a quello. Che tu sia profondamente colpito dalla situazione di paese non mi riguarda e se ti pare puoi condividerla con chi hai accanto materialmente.
Se mi sono iscritta alla tua newsletter è perché mi interessa la tua competenza, poi spero anche che tu sia umano ma non è da tre righe in una mail che me lo dimostri. Le parole sono importanti (cit.), mi piacerebbe che fossero usate meglio anche da chi mi circonda.
Perché sono stufa di essere trattata come una stupida, qui come altrove; sentirmi dire di cosa ho bisogno e cosa mi farebbe bene, sentirmi raccontare quanto sono bravi loro a fare qualsiasi cosa - compreso l'essere umani - e farmi mettere nella posizione di obbedire al diktat perché altrimenti non vinco.

Sapete che c'è? Io non vinco, non me ne frega niente. 

21.3.20

L'analisi illogica del testo 11 - La grotta e la paura

In questi giorni è come se i miei vecchi classici tornassero a titillarmi i pensieri. Così, prima di finire in cassa integrazione e chiusa in casa - dove peraltro sto benissimo da sempre - mi era già venuto in mente un racconto di King (ma devo ancora capire perché, altrimenti che analisi del piffero sarebbe?) che sto rileggendo ora.
Ora, però, al di là di tutto mi è tornata in mente una scena ben precisa de "L'Impero colpisce ancora" che ho sia in dvd che in versione libro e che mi pare faccia da specchio a una situazione che mi pare di leggere in giro di frequente.
La cosa parte da qui:
Luke faceva progressi, e lo sapeva.
Correva attraverso la giungla - con Yoda appollaiato sul collo - e scavalcava con l'agilità di un'antilope il fogliame e le radici disseminati nell'acquitrino.
Aveva incominciato finalmente a liberarsi dell'orgoglio. Si sentiva più leggero, schiuso completamente all'afflusso della Forza. Quando il minuscolo istruttore gli lanciò una barra d'argento sopra la testa, il giovane reagì fulmineamente. In un attimo, si voltò e tranciò la barra in quattro segmenti, prima che cadesse al suolo. Compiaciuto, Yoda sorrise. "Quattro questa volta! La Forza tu senti."
Ma luke non gli diede ascolto. All'improvviso aveva percepito qualcosa di pericoloso, di malefico. "C'è qualcosa che non va" disse. "Sento pericolo... morte." Si guardò intorno, cercando di scorgere ciò che irradiava quella sensazione potentissima. Si voltò e scorse un albero enorme e nodoso, con la corteccia annerita e scrostata. La base era circondata da un piccolo stagno, e le radici gigantesche formavano l'apertura d'una cavità buia e sinistra." (Donald Glut, L'Impero colpisce ancora, Mondadori P. 120)


La prova che lo aspetta è nota ai più. Entrare nella grotta e affrontare quello che vi troverà, qualsiasi cosa sia. Ed è così che la grotta, quel posto così oscuro, funziona. Un test importante, che determinerà la maturità del suo allievo, che gli chiede:
"Cosa c'è là dentro?"
"Solo ciò che tu porti con te."
 Come chiunque di noi in questi giorni. Chiusi in casa per decreto o per necessità, con tutto questo vuoto intorno che rischia di farci impazzire, siamo come Luke che entra nella grotta e affronta questo rito di passaggio. Soli, con solo quello che "ci portiamo dietro" a farci compagnia, o a proteggerci, o a distruggerci a seconda di ciò che è.
Lo stile di vita, le necessità, le priorità sia economiche che spirituali. La paura.
Del contagio, del prolungarsi delle restrizioni, dell'impatto sul lavoro di ciascuno e di quanto accadrà quando tutto sarà finito. Di non poter riavere la propria vita. Forse anche senza pensare davvero se era quella che desideravamo o se siamo stati inghiottiti dal vortice dei ritmi quotidiani tanto da dimenticare chi siamo.



E sì, mentre camminiamo nel buio della nostra grotta, il cuore in gola sembra soffocare il nostro respiro giorno dopo giorno. Perché siamo entrati con troppe cose e ora pesano, pesano troppo. Non siamo abituati a questo, non lo siamo quasi mai nel momento in cui capitano le cose.
Ed è così che se entriamo in questa grotta armati per difenderci, ci troveremo di fronte tutti i nostri demoni, tutte le incertezze di questa vita e del futuro. Ci troveremo a non dormire la notte, a indebolirci, a urlare contro quelli che stanno in strada senza pensare che hanno la stessa paura che abbiamo noi, o forse no.
Ma contro chi stiamo lottando se non contro noi stessi perché abbiamo paura che tutto quello che ora ci manca sia la nostra identità? E, una volta accesa la nostra spada laser, una volta battuto il "nemico", siamo sicuri che il volto che vedremo non sia il nostro?

19.3.20

Il tempo libero che ci fa paura

Rieccomi.
Sono qui che mi preparo il pranzo, con la dovuta calma, contenta di non dover correre. Di non avere solo un'ora di tempo per preparare, mangiare e portare fuori il cane ancora col boccone in bocca perché la pausa pranzo non mi consente di fare diversamente. Di non dover pensare la sera prima o la mattina stessa a cosa voglio per pranzo, perché non sarò a casa fino a sera - tendenzialmente sera tardi - e devo uscire con tutto, proprio tutto, a posto. Che quasi quasi sembro uno sherpa, tanto sono carica di cose.

 


Riflettevo su mille post visti tra Facebook e Instagram, sul fatto che il più delle volte ci lamentiamo di non avere tempo libero e ora che il tempo ce lo hanno liberato a forza stiamo impazzendo - chi più, chi meno - perché così, tutto di un botto, non sappiamo che farcene. Perché il tempo libero, di solito, siamo abituati a "impegnarlo" quasi come il tempo che non è libero. Riempiendolo di cose, di attività. di gente, di pensieri, come se "libero" non andasse bene. Come se la nostra vita, se non stessimo lì a riempirla di cose, non fosse importante già da sola.

Invece lo è. Eccome.
Da tanto, tanto tempo, mi interrogo sul ritmo che mano a mano ci hanno abituati a tenere. Un ritmo che non sembra mai rallentare, anzi. Un ritmo che non è più umano e che sempre meno lo sarà.
(O lo sarebbe, bisogna vedere come usciamo da questo momento di difficoltà estrema, perché ho dei seri dubbi che si possa tornare a quella che era la nostra "normalità" a breve - e io spererei di non tornarci)
Da tempo mi domando se sia io quella che sbaglia a reclamare una vita più naturale, più lenta, più godibile. Un ritmo che non costringa a correre costantemente e non riuscire mai a fare tutto quello che si dovrebbe fare - o vorrebbe. Una vita che non diventi più pressante ogni giorno nel farci sentire inadeguati, lenti e spaventati. Perché essere "alieni" non è divertente, essere "fuori".
Mi domando perché sia tutto organizzato per renderci la vita invivibile, piena di modelli inarrivabili e di obbiettivi folli. Mi domando perché noialtri ci stiamo adeguando - chi più, chi meno - a queste richieste. Essere veloci, vincenti, attivi, "smart".


Così, per molti, questo tempo libero "imposto" sembra essere diventato un tempo interminabile, non "riempibile" nel modo in cui siamo abituati, non affollato e privo di scappatoie.
Un tempo libero che è effettivamente libero e che per qualcuno è molto pesante sopportare. Allora fioriscono post in cui chi era abituato a leggere non riesce più a farlo, chi a scrivere, chi a fare quelle piccole cose di cui abitualmente si riempiono i ritagli di tempo.
Certo, c'è l'ansia se non per la salute almeno per la situazione economica che ci troveremo ad affrontare quando tutto questo sarà finito, perché senza dubbio saremo tutti un po' meno stabili. Possibile che si cerchi di dimenticare le preoccupazioni dandosi dei compiti quotidiani da eseguire per occupare la mente.

Eppure io trovo che questo tempo di solitudine - e io vi scrivo da casa, senza telelavoro e senza compagnia se non il cane e il gatto - mi sia salutare. Per recuperare un rapporto con me stessa e i miei silenzi, per non inseguire il tempo, per non cercare nella tv, nei social (che pure frequento, ovviamente, come tutti, ma ultimamente più come spettatrice passiva che come assatanata in astinenza da contatto), nei flash mob, nella ginnastica via Skype, quella sicurezza fittizia che le "cose normali" possono dare. Perché le cose che mi sembravano normali una settimana fa ora mi sembrano spezzoni di "Le comiche", girate a un ritmo accelerato e falsificate dalle risate di sottofondo.
No, c'è molto di "innaturale" nel modo in cui abbiamo vissuto finora. L'ho sempre pensato e probabilmente ne sono sempre più consapevole. Ne sono sempre più distante, anche se devo farne parte comunque perché io vivo "qui e ora" e non posso rifugiarmi altrove.
Questo di oggi è il mio rifugio, quello che dovrebbe essere sempre. La casa, la quiete, i tempi morti che posso anche decidere di non riempire per ascoltare il mio corpo e la mia mente, per decidere se è ancora tutto come dieci giorni fa oppure no. Per sapere cosa voglio davvero tenere per dopo e che cosa posso abbandonare qui, in questo tempo che mi hanno liberato apposta.

Quello che penso è che sarebbe bello saper utilizzare i momenti di crisi come questo per crescere e non per rifugiarsi in mille altre cose pur di non pensare, perché già ci fanno vivere così ogni maledetto giorno della vita, in un modo o nell'altro. Perché vedere che l'inquinamento si è ridotto drasticamente, che il mare è più pulito, che gli animali tornano a occupare i propri spazi, che il cielo è pieno di stelle e non di aerei che vanno su e giù a ogni ora mi sta facendo pensare che sia meglio così, Noi chiusi in casa e la natura che si ripiglia il pianeta...

15.3.20

Ora

C'è il mio adorato silenzio, intorno.
L'unica cosa che ora mi inquieta è il suono delle ambulanze, ogni tanto, nel debole fruscio del traffico pressoché inesistente.
C'è tempo per mettermi a gambe conserte e respirare, mentre gli animali di casa dormono soffici accanto a me. C'è il modo di pensare a quanto sia piena questa vita, anche nel momento in cui sembra svuotarsi di mille e più cose che da sempre ho "da fare".
Come fosse un obbligo, morale e ancor più pressante di quello attuale, il dover correre a destra e manca dietro a qualcosa che nemmeno più so cos'è.
Il lavoro, la casa, la spesa, la palestra, l'esercizio, lo svago, il cane, il veterinario, il gatto, le pulizie, le mille ricette che non riesco mai a provare, gli amici, le cene a cui portare l'ultima torta che mi è venuta bene... E di nuovo, leggere, scrivere, guardare l'ultimo film di Tizio, avere da esprimere un giudizio su qualsiasi cosa, controllare le notizie, ascoltare musica, i compleanni, gli inviti a cui dirò di no, le attività che in mille pensano possano interessarmi...



Ma per chi?
Per chi lo faccio? Per chi c'è bisogno che io metta l'ultima foto su Instagram, il video in cui faccio vedere che sto al passo, che non mi fermo nemmeno sotto tortura, che sono indomita, coraggiosa, forte. Che non mi stanco mai...
Invece no, capita che io sia stanca. Magari non è tanto una questione fisica, magari è più un fatto mentale. Lo dico da tempo: questo mondo non è il mio, io non sono di qui.
Non proprio, mi dicono gli altri.
Sembro normale e a mio agio, qui. Mi adatto, seguo ciò che il buonsenso mi dice, sono "social" senza esagerare, non mi esprimo mai chiaramente, non prendo posizione. Non mi indigno, non mi lamento più di tanto.
Ecco, in questo momento in cui posso davvero fermarmi e pensare, mi chiedo se davvero è giusto continuare a correre. Io so chi sono, non ho niente da dimostrare. Eppure sembra che ci sia bisogno di farlo costantemente, altrimenti qualcosa non va.
Che poi fermarsi non vuol dire "arrendersi", non vuol dire smettere di fare tutto. Vuol dire solo smettere di correre dietro a tutto e scegliere per cosa correre e per cosa camminare.
Perché siamo esseri umani, non macchine, siamo persone e non animali da traino.

Ho provato ad adeguarmi, certo. In parte sono anche quella cosa lì. Corro. Ma non voglio sentirmi obbligata a farlo sempre. Non voglio che diventi la mia ossessione.
La mia malattia.
Erano anni che volevo farmi il pane in casa, io che poi ne mangio quanto un pettirosso. Oggi l'ho fatto. Lo taglierò e lo riporrò in freezer per mangiarlo pian piano quando serve. Ma non avrei mai avuto voglia di farlo davvero se non avessi smesso di correre...