9.5.21

Ingrasso per legittima difesa

 Gli ultimi tre anni non sono stati semplici.

Ho fatto alcune scelte pur non avendo certezza alcuna di riuscire a farcela, ho avuto problemi di tendinite prima e di ernia del disco ora che mi hanno tenuta e mi tengono lontano dallo sport che amo, ho curato e perso un cane che amavo alla follia, ho lavorato molto stancandomi più del dovuto, ho passato due mesi da sola in casa  (salvo le uscite con il suddetto cane), ho fatto i conti con l'età che avanza, ho ridiscusso la natura di molti miei rapporti, ho continuato la psicoterapia. Ho preso farmaci, a volte ancora ne prendo. 

Mi sono resa conto di avere ripreso a mangiare "contro il mondo".

E sono ingrassata, tanto.

Non voglio farne un problema puramente estetico, anche se alla fine lo diventa comunque. Per quanto ci si astenga dal seguire mode e modelli assurdi, questi ci danzano davanti come il bimbo fantasma di Ally McBeal e non c'è modo di esserne completamente distanti. 



È un problema se per praticare il tuo sport devi sollevare il tuo peso con le braccia, o tenerti con l'interno di un gomito o di un ginocchio e i tuoi muscoli non sono allenati abbastanza per farlo. Diventa un problema se vuoi muoverti in un certo modo, come facevi anche solo tre anni fa, appunto.

Chi mi conosce sa che ho avuto problemi di oscillazione di peso fin dalla prima depressione. All'epoca frequentavo le medie e mi sentivo talmente distante dalle persone che avevo intorno che il vuoto che si era creato ha iniziato a fagocitare cibo senza un bisogno effettivo. La passione per la danza mi ha poi riportata senza il minimo sacrificio - e questo va detto, perché in quegli anni non mi sono mai sottoposta a diete né ho mai fatto un'ossessione del mio essere un pochino più rotonda degli altri - a essere normopeso e abbastanza carina. 

Dopo qualche anno, però, a seguito di altri eventi stressanti tra cui il fidanzato psicopatico del post precedente, nel momento in cui cadevo nella seconda crisi depressiva ho ricominciato a mangiare in modo scomposto. L'ho fatto - e ovviamente la terapia fatta in seguito mi è servita a capire - da una parte perché mi detestavo e dall'altra per sparire agli occhi del mondo. Per non essere più sexy, desiderabile, carina. Per non attirare attenzioni sgradite e per punirmi per essere stata così sciocca da pensare di avere un "potere" decisionale che non avevo. Per proteggermi, sostanzialmente.

Poi ancora un periodo di benessere, poi una terza crisi che mi ha portata oltre gli 85 kg. Con una fatica enorme e con l'aiuto della terapia, più avanti, ho perso di nuovo parte del peso e, una volta sistemata la fonte principale di stress del momento sono tornata a un peso che per la mia altezza era più che adeguato. Avevo sì alti e bassi ma sembrava tutto sotto controllo.

Poi di nuovo su. Nuove tensioni, altri problemi e nonostante lo sport praticato con costanza ho ripreso a ingrassare. Stavolta la dieta tentata non è servita a nulla e, anche se molto più lentamente di prima ho cominciato a lievitare. E non è che non mi rendessi conto della cosa, o del fatto che a ogni segnale di stress la prima reazione fosse di nuovo andare a mangiare qualcosa, solo che ho lasciato di nuovo che andasse così e lo so che sto solo cercando di sparire un'altra volta alla vista del mondo.



Quindi ingrasso per legittima difesa ma non ho ancora capito da chi o cosa mi difendo. Perché non credo sia il mondo il problema esattamente come mangiare non è la soluzione. E mi sento ancora indifesa se pur sapendo come funziona il meccanismo non riesco a togliermene. Perché non servirà fare l'ennesima dieta - che poi non funzionano mai come devono - e perdere peso se poi non smetto di ricascarci.

Solo che per una volta, e una volta per tutte, vorrei vincere io e avere il mio posto nel mondo senza pensare di dovermi difendere ancora - anche se dovrò difendermi in ogni caso. 

Vorrei smettere di aprire il frigo ogni volta che una frase mi fa sentire a disagio, ogni volta che devo reprimere un moto di rabbia, ogni volta che mi detesto perché non riesco a reagire. Vorrei smettere di sentirmi in difficoltà a dire no, di non pensare a chi sono e cosa voglio, di vedermi diversa da chi voglio essere. Vorrei smettere di nascondermi, di fare le stesse cose di un tempo, di sentirmi soffocare.

Di riempire i vuoti che non ci sono con cose che mi fanno male. Di lasciare che qualcosa crei vuoti inesistenti da riempire. 

5.5.21

Angelo - Singolare femminile 6

 Angelo voleva educarmi.




Ero troppo indipendente, troppo sicura, troppo libera per i suoi gusti. Per mia sfortuna ero anche innamorata di lui, che riusciva a tenermi testa e a farmi allenare seriamente (danzavamo insieme, allora, jazz io e break dance lui). Per mia sfortuna gli ho dato retta.

Ha iniziato dicendomi che ero grassa. Non lo ero. Pesavo 48 kg ed ero in splendida forma.

Ha continuato dicendomi che non valevo niente, facendomi sentire a disagio in mezzo agli amici comuni. Flirtando apertamente con altre ragazze per umiliarmi e provocare una reazione, che ovviamente sarebbe stata esagerata.

Poi ha iniziato a dire che anche come "donna" - a 19 anni - non ero abbastanza bella, o sensuale. Che le vere donne erano fatte diversamente, avevano un altro fisico.

A dire che non ero una ragazza seria. A pedinarmi, a mettermi alla prova su qualsiasi cosa. A leggermi la posta. Non poteva fidarsi di me.

E a mollarmi ogni 15-20 giorni, perché non avevo carattere. Con qualsiasi scusa. Una presunta bugia, una gelosia immotivata, una pirouette non riuscita. Se non reagivo ero colpevole, se reagivo lo ero lo stesso. Lo faceva per fortificarmi, diceva.

Qualsiasi altra ragazza era meglio di me e si faceva corteggiare tranquillamente, mentre io non potevo avere amiche, amici, affetti. Trovava il modo per allontanarmi da loro, per tenermi al suo guinzaglio più facilmente. E per un po' l'ha fatto.

Angelo si fingeva mio cugino quando andavo a farmi intervistare in radio, per vedere come si comportavano gli altri con me. Era certo che prima o poi mi sarei tradita e a quel punto mi avrebbe mollata - davvero? - per l'ennesima volta.

Se voleva ferirmi non veniva a vedere gli spettacoli in cui lavoravo da sola, perché dovevo lavorare solo con lui. Se lavoravo da sola era perché mi sentivo "figa" e superiore a lui e lui non voleva darmela vinta. Se lavoravo con lui dovevo sottostare alle sue regole e mai farlo sfigurare. Se avevo costumi troppo vistosi non andava bene, se avevo troppo spazio nemmeno.

Per lui non sapevo vestirmi, non avevo stile; non potevo mangiare perché dovevo restare magra, non dovevo parlare con altra gente o ribattere alle sue parole.

Mi ha messo contro chiunque. Dai suoi agli amici alla sua ex - in un gioco di tiro incrociato in modo che io fossi gelosa e lei mi odiasse. Lei una santa, io una troia; lei perfetta, io da correggere continuamente. Ha "corrotto" mia sorella, facendosi raccontare ogni cosa che succedeva quando lui non c'era, testando continuamente le mie versioni per cogliermi in fallo. C'è stato un momento in cui avevo paura di parlare in casa mia e sussurravo sempre. C'è stato un momento in cui sono crollata. Ci sono state botte, liti furiose. Con e dopo di lui ho distrutto la mia vita definitivamente.

Se non avessi subìto altro, prima di stare con lui, probabilmente non gli avrei dato chances. Se non mi fossi già sentita inadeguata non gli avrei dato retta. Ma mi ha trovata in un momento terribile e ne ha approfittato per annientarmi come poteva.

Ciononostante, e nonostante tutto quello che ho fatto dopo, non ha vinto lui e me ne sono liberata proprio quando pensava di avermi piegata a ogni suo volere.

Tutto ciò che mi sono lasciata fare da lui è stato un mio desiderio di autodistruzione, lui non aveva potere su di me se non quello che io gli ho dato.

Perché pensavo di meritare il peggio.

Perché già pensavo di non valere niente.

Perché mi odiavo per non aver evitato un abuso. Per essere stata debole e stupida. Perché non riuscivo a perdonarmi.

Ma non ha vinto lui.

Nemmeno quando ha provato a riprendersi il suo potere con l'inganno, perché ormai io avevo capito chi era e che non avrebbe mai smesso di torturarmi.

Non ha vinto.

Io ho sempre perso contro me stessa, in quegli anni.

Ma ho imparato che nessuno mi doma mai fino in fondo, per quanto pensi di stringermi in pugno, per quanto io ami, per quanto io appaia cedevole e morbida.

Dopo di lui ho continuato a punirmi, perché pensavo che fosse giusto. Lui è stata solo la prima stazione, ma fondamentale per creare un danno. Sono arrivata al fondo. Sono ingrassata, ho lasciato svanire ogni sogno, mi sono spenta per anni trascinandomi da una storia all'altra senza cambiare il meccanismo che con lui avevo innescato. Nessuno è stato più come lui, nessuno ha potuto trasformare quelle macerie in polvere ma su quelle macerie non ho potuto costruire per tanto tempo.

Poi però sono risalita, passo dopo passo, imparando a perdonarmi e a perdonarmi anche per lui e per tutte le persone cui ho lasciato fare quando sapevo che mi stavano calpestando. Perché mi merito di più, di meglio, anche se non sono perfetta. Anche se sbaglio, anche se non sono bella, anche se non sono furba, o coerente, o quello che non solo gli altri ma io stessa continuo a chiedermi di essere.

4.5.21

Piedi

 Un giorno mi sono innamorata di un paio di piedi. 

Sì, lo so che viaggiano quasi sempre in due e che di solito c'è attaccata una persona ma il ricordo nitido che ho del nostro primo incontro è la visione di due piedi abbronzati sul pavimento verde smeraldo della casa dei miei cugini all'Elba (posto che fosse verde, è passato del tempo, i piedi comunque erano abbronzati e bellissimi). 



Dico dei piedi perché quel mattino di Luglio ero uscita dalla cameretta in cui stavo rintanata per il trambusto che avevo sentito, ché io in realtà non volevo tanto uscire dalla stanza ed ero ancora in pigiama e decisamente non presentabile. Però c'era casino e questo voleva dire che i miei due cugini stavano già combinando qualcosa e davvero non volevo perdermi nulla, visto che lì non ci andavo da secoli e che avevo preso quella vacanza un po' come un castigo. Insomma, dal frastuono sembrava che ci fosse finalmente da fare qualcosa ed ero curiosa. Solo che non me l'aspettavo.

Ho aperto la porta e ho fatto un passo fuori in corridoio, piedi nudi e pigiama dicevo. Che poi era un vecchio pigiama del più giovane dei miei cugini ed aveva più buchi che pezzi sani ma io lo adoravo. Quindi sono uscita senza pensare e mi sono bloccata immediatamente: piedi. Abbronzati. Non erano i miei cugini, arrivati con me da sì e no due giorni e bianchi di città. Sopra ai piedi due gambe, bei polpacci, ginocchia con una morbida peluria bionda e calzoncini. E una racchetta da tennis. 

Dopo un attimo di perplessità ho alzato lo sguardo e ho trovato un sorriso che mi ha trapassata e due occhi - lo so, sono quasi sempre due, ho il vizio di specificare - tra il verde e il castano, accesi d'oro. Ho temuto di svenire, ho chiesto scusa e sono rientrata in camera prima che l'ospite potesse aprire bocca, con il cuore in gola e la sensazione di essere la ragazzina più orrenda del pianeta.


Avevo quattordici anni e tutte le paure del mondo.



I piedi di cui sopra, ho scoperto in seguito, appartenevano a tale Giuseppe R. di Milano, cugino degli amici dei miei cugini che a dirlo sembra uno scioglilingua. Studiava da geometra, nuotava benissimo e giocava a tennis strascicando il piede destro a terra quando serviva la palla tanto che aveva una scarpa distrutta. Era cotto a puntino dal sole e credo fosse orribilmente simpatico o comunque matto, che non cambia: i matti e i simpatici li ho sempre amati. E lui lo amavo, credo, con tutta la mia vergogna di ragazza timida. Da lontano, senza osare una parola, desiderando la fuga.

La mia prima storia d'amore, ovviamente fallimentare visto che non ho rimediato nemmeno un numero di telefono o qualcosa più di un paio di frasi in un momento di distrazione del resto del mondo, quando lui mi ha trovata sul tetto della darsena a cercare di rimediare almeno il colorito del pollo del girarrosto. Solo due frasi, quel paio di domande che si fanno a quell'età per capire chi hai di fronte tipo "che classe fai?" con nonchalance per indovinare un'età (che a una signorina non si chiede mai) e quella roba lì un po' inutile. Che poi a pensarci bene suona meglio di un sacco di altre cose che mi son sentita chiedere più avanti, altrove e da gente meno educata.

La mia prima storia d'amore, rigorosamente platonica, il cui misero trofeo è una T-shirt bianca con scritta blu e rossa che il semidio si era strappato di dosso in un impeto di orgoglio sportivo, che aveva iniziato a distruggersi perché un po' troppo tesa su quel fisico da urlo. E la spiegazione della differenza tra "parce que" e "pourquoi" fatta da lui mentre giocava, che è stata la prima e ultima lezione di francese che ho ascoltato. E il ricordo di una gita in gommone, in cui lui aveva cercato di attaccare nuovamente bottone ma il cugino premuroso - mio, ovvio - si era precipitato a dire che non sapevo nuotare prima che io compissi l'irreparabile gesto di fare il bagno al largo insieme a loro. Ê stato bellissimo vederli tuffare dagli scogli e nuotare nell'acqua limpida restando a beccheggiare sotto il sole da sola tutto il tempo. Davvero, quelle cose romantiche che non ti scordi mai. Infatti son qui che le scrivo.


E la sua fine ai primi di agosto quando, ormai disperata perché incapace (inguardabile, inadeguata, piccola, femmina, talmente timida da guardargli sempre e solo i piedi per due settimane), ho chiesto di poter tornare a casa, a Torino. Per chiudermi in una depressione senza fine in cui ripassare mentalmente tutte le occasioni perdute. Ultima delle quali un meraviglioso pigiama party sui bordi della spiaggia, a fine giardino, i Dire Straits di sottofondo, Giuseppe in pigiama corto ceruleo, loro che giocavano a tennis al buio (sì, c'era la luna) e una punta di dispiacere nel sentire che sarei partita. E io nel sentirlo ridere ancora fino a tardi quando per me era scattato il coprifuoco e loro, più grandi, erano rimasti fuori. 

Quando mi chiedono se vorrei tornare indietro a quando ero adolescente ripenso a quei piedi e a me che li guardavo e mi ripeto che no, per niente al mondo vorrei sentirmi più così inadatta alla vita, così indifesa e in difficoltà. No, per niente al mondo. Nemmeno sapendo. Nemmeno per sentirlo ridere ancora. Io non so se voi ve la ricordate quell'età. Io ancora me la porto dietro.