26.1.15

L'analisi illogica del testo 6 - Quando il mostro è dentro di te

Ho un ricordo chiarissimo di quando mamma e io andavamo in montagna a Jovenceaux - no, non è il villaggio di Asterix - e dormivamo insieme nel lettone matrimoniale dopo aver letto qualche pagina. Non ero grandissima, all'epoca, e leggevo ancora Topolino, oltre a divorare i Tex e gli Zagor di mamma. Ci sono sempre piaciuti i fumetti, a dire il vero, e non leggevamo solo questi tre.
Spesso lei leggeva Lanciostory. Ora non venite a dirmi che non erano letture da bambini, tanto non mi sono mai sentita troppo piccola per leggere alcunché. Che poi certe letture abbiano lasciato un segno sui miei gusti - dubbi - in fatto di abbigliamento e di disegno è anche vero. Ma voi tenete presente che da mio padre leggevo - oddio, leggevo forse no - Playboy e poi passiamo oltre.



A parte la mia passione per la fantascienza e per il fantasy, almeno disegnato, c'era questo "racconto" che mi è rimasto impresso fino a oggi. Forse perché tendenzialmente insonne, forse perché a modo suo era un horror pur non mostrando morti o mostri o altro, che al confronto Dylan Dog è spaventoso.
Purtroppo non ricordo titolo o autore, so solo che era in bianco e nero e che ancora ci penso. Provo a raccontarlo, poi vediamo.
Quello che ricordo è che c'era una specie di coprifuoco e che tutti dovevano andare a letto a una certa ora e tenere le luci spente perché c'era un pericoloso mostro che albergava in alcuni individui e che solo rispettando certe regole si poteva evitarlo. E c'era questa donna insonne, che aveva paura.  Nel buio le si vedevano solo gli occhi e lei pensava: "devo dormire", "se sto sveglia rischio", "potrebbe essere lui" (riferendosi al marito sdraiato accanto a lei), "se mi sente mi uccide"... e via dicendo, vignetta dopo vignetta. Sempre più tesa, sempre più agitata. Sempre più convinta che il mostro si nasconda dentro all'uomo che ha a fianco. Finché lui non le chiede timidamente "sei sveglia?" e lei si trasforma nel mostro.
Ecco.
Qui dentro c'è tutto, mostro compreso. C'è soprattutto la paura dell'altro. Potrebbe essere un mostro, certo. Soprattutto se è diverso da me; anzi, più è diverso e più potrebbe nascondere la sua vera natura. E più la paura cresce, più gli scenari diventano terribili. Soffocano quasi.
E noi sempre alla ricerca di un mostro, ovvio. Sempre alla ricerca di qualcosa di esterno di cui avere paura. Fino a quando noi stessi non ci trasformiamo in quello che abbiamo cercato per tutto il tempo. Perché è tutto più facile se il mostro è l'altro, è meglio se la colpa non è nostra, è liberatorio non guardarsi dentro.
Come la paura sia dominante in noi, questo è spaventoso. Ci condiziona a tal punto da renderci mostri. Non solo, più abbiamo paura di qualcosa e più sarà probabile che questa cosa ci capiti.  Perché poi la vita è buffa. (e qui basterebbe accennare a "Ironic" di Alanis Morrissette per un catalogo di esempi degno di nota)
Ma la cosa che mi ha colpita di più in questa storia a fumetti è che per tutto il tempo il pensiero ossessivo di questa donna le ha impedito di "vivere", cioè di dormire accanto a suo marito e svegliarsi con lui il mattino dopo, cioè di addormentarsi e sognare magari qualcosa di meglio rispetto a una realtà in cui esistono mostri che ti aggrediscono di notte se non dormi - e qui una mia collega avrebbe riportato il parallelismo "se sei una brava ragazza nessuno ti stupra".
Ecco, anche questo. Un mondo dove se non rispetti certe regole rischi che venga fuori il mostro... Non è inquietantemente vero? (passatemi l'avverbio, che lo so che non si usa mai quando si vuole scrivere)
O un mondo in cui il mostro alla fine sei tu, che continui a guardare nel buio terrorizzata e non ti rendi conto di cosa ti succede dentro. Muori, ti trasformi, diventi l'altro. Senza consapevolezza, senza scampo.
Un mondo, vero, in cui ognuno di noi alla fine cela qualcosa dentro di sé. Una "personalità" che farebbe a pugni con la morale comune, o un carattere meno accogliente di quanto possa apparire, o una grande ipocrisia, o un odio viscerale per l'umanità. Che ne so.
Qualcosa che non si vuole vedere o non si desidera affrontare, preferendo dormire sonni tranquilli. Continuando a spostare l'attenzione verso i "difetti" degli altri.
Lo so, ho detto di tutto. D'altra parte questa è "analisi illogica", non certo una critica seria. Sono riflessioni, sfumature, suggestioni. Credo che avere paura sia una delle peggiori "malattie", ci impedisce di essere ciò che siamo, di vivere in pace, di sognare in modo libero. Sì, la paura è la gabbia più oscura in cui abitare.
Questo lo penso in un mondo in cui tutti continuano a dirmi che devo avere paura.
Mi perdoneranno gli amici che hanno già letto questo mio pensiero su Facebook, ma lo riporto qui sotto, perché ci credo e perché voglio ricordarmelo.
Mia madre mi ha insegnato che si sopravvive a tutto e che ci si rialza da qualsiasi caduta. Lo ha fatto con mille esempi e mai con le parole. Io con lei ho imparato a cadere e a perdere, e a rialzarmi e a ricominciare da capo con tutti gli acciacchi del caso. Per questo non voglio avere paura anche se tutti intorno a me mi dicono che dovrei averne, anche se vedo tanto odio, tanto livore e tanto male ovunque guardi. Il mio "rifugiarmi" nel bello, nell'inutile e nell'altrove a molti può sembrare un segno di leggerezza, come se non volessi usare bene il mio tempo. Come se incantarmi a guardare il cielo significasse che non vedo in terra.
Sembra che io non prenda una posizione, invece la mia è ben chiara. Io mi rifiuto di cedere al brutto, anche se so che esiste. Così voglio vivere, libera e piena di cose belle, migliorando quanto posso e cercando di evitare la rabbia - ne ho avuta tanta e non è servita a nulla, mai - e limitare gli errori anche se nessuno di noi ne è esente.
Non sono in guerra, mai lo sarò. Se anche morissi per mano di altri, nessuno mi toglierà un solo "centimetro" di vita.

E mi sono appena auto-citata. Ho esagerato, lo so.
Tutto questo per un fumetto letto alle elementari. Sono matta.
Per le puntate precedenti basta seguire l'etichetta "l'analisi illogica del testo", se vi va.

24.1.15

Il prezzo da pagare

Poi, di colpo, mi viene in mente che dormivamo nella stireria.
Mamma e io, in casa dei nonni. La casa dove abbiamo vissuto quando ero piccola, prima delle elementari. Un appartamento al secondo piano in via Collegno, con il salone con bow window e un enorme lampadario con gocce di cristallo. In quella casa c'era la stanza della bisnonna, ricca di velluti e di piccoli animali di ceramica o vetro. I miei nonni avevano la loro camera, grande e comoda. Poi c'era lo studio del nonno, in cui credo di non essere mai entrata. Il salone, la cucina e il bagno.
E la stireria.
Pareti bianche, un letto singolo con secondo letto estraibile in metallo rosso, un armadio bianco e il tavolo da stiro. Niente altro. Non un oggetto, un quadro, un mobile, che segnalasse che quella era camera nostra. Nemmeno la stanza degli ospiti, perché in quella stanza il tavolo da stiro era sempre pronto e non la si poteva scambiare per altro.
Non ci avevo pensato fino a stamattina.
Non sto a dire quanto tempo è passato, non è difficile da immaginare. Pensavo a quanto la famiglia sia un "posto" particolare in ognuno di noi. Quante cose, anche piccole, ci sfuggono o ci sono sfuggite.
Non ho mai fatto caso al luogo in cui dormivamo. Pensavo alla casa che abbiamo poi avuto in via Peyron e ai colori accesi alle pareti, ai quadri, agli oggetti, ai libri. Era "casa nostra" per davvero.
E pensavo ai silenzi di mia madre e al suo non parlarmi della famiglia. Poche cose, tutte riguardo al suo spirito ribelle. Poche cose, molto dolore. Lei che scappava dalla finestra per andare a ballare, lei che lavorava in pasticceria per infastidire i suoi coetanei della "Torino bene", lei che si era innamorata di un artista, lei che con una figlia se ne era tornata a casa dei suoi. Il massimo sfregio, credo.
Quello che ci ha confinate in stireria, almeno per un po', fino a quando il prezzo non è stato pagato.

16.1.15

L'analisi illogica del testo 5 - Cicatrici e ombre

Ci sono eventi nella vita che ci lasciano un segno. Correggo, tutti gli eventi ci lasciano un segno.
Quelli che lasciano le cicatrici sono quelli che ci capitano quando siamo indifesi e, se devo dirla tutta, le cose peggiori ci capitano sempre quando non abbiamo dietro il machete.
Molto spesso siamo in grado di sopravvivere. Ci ricuciamo i lembi e ripartiamo zoppicando per poi procedere guardinghi affinché non ci capiti più una cosa simile.
Poi c'è il karma e il fatto che tendiamo a ripetere - purtroppo - gli stessi errori anche inconsapevolmente, ma questa è un'altra storia.
Quello che è chiaro leggendo "Domani sarà un giorno perfetto" di Carlo Deffenu, è che i sopravvissuti si riconoscono tra loro. In qualche modo, che sia uno sguardo o un modo di fare, come se le cicatrici si vedessero anche se non ci sono. Non solo si riconoscono, ma a volte si aiutano a guarire. Quando si può.
Non importa l'età o la provenienza.

I personaggi di Carlo hanno vissuto ognuno un trauma e come capita spesso hanno creato un loro "talismano" contro le ombre che da quel momento li accompagnano. Chi, come il non più giovane Dumas, si rinchiude in un mondo fatto di fotografie e di chat rimpiangendo un amore perduto per sempre; chi, come il giovane Denis, riempie barattoli di mosche e rifiuta di uscire di casa per paura di essere diverso; chi come Polar abbandona la vita "normale" e si confina in strada con i suoi cani. Chi, come la piccola Danette, tiene al di fuori del suo cerchio magico (fatto di disegni) ombre che hanno una vera consistenza.
Perché - e Stephen King ce lo ha detto per bene in "It" - certe volte i bambini vedono cose che gli adulti non possono vedere. Perché all'immaginazione si aggiunge un qualcosa che rende tangibili gli orrori che si cerca di dimenticare, che dà loro un potere imprevedibile e incredibile. Tanto che a volte un adulto fatica a credere che i mostri esistano - eppure, crescendo, dovrebbero saperlo che i mostri ci sono eccome (meravigliosa rimozione) - e non sono in grado di ascoltare.
Perché le ombre esistono e sono in grado di cambiarci la vita, di scardinare il senso delle cose e di farci fare cose terribili. Ogni trauma ha le sue ombre.
Ce le portiamo dietro finché possiamo, le riconosciamo quando sono negli occhi di altri e riusciamo a combatterle a lungo. Una vita intera, a volte. Qualche anno o qualche mese se non riusciamo a uscire dalla loro influenza.
Così è per chi subisce un abuso, per chi vive un'esperienza disperante, per chi perde l'amore della sua vita e per chi in qualche modo si scopre fallibile.
"Non si può domare il diavolo che ti morde il cuore e la ragione. Tutti abbiamo il nostro diavolo che scalpita e lucida le corna. Polar lo sa bene. Se svelasse a qualcuno cosa si nasconde sotto gli stracci del barbone che chiede l'elemosina al semaforo, forse non verrebbe creduto. Difficile cambiare la prospettiva senza aprire un profondo smarrimento in chi ti ascolta."
Le solitudini dei sopravvissuti sono spesso paura di leggere quello smarrimento. Molto meglio dipingersi il proprio talismano e proteggersi quanto più si riesce a farlo, anche se dalla vita è difficile proteggersi senza impazzire. Soli sempre, anche quando si lotta insieme. Perché ognuno ha il suo demone diverso, per quanto simili possano essere i traumi da cui ha origine. In fondo anche tra sopravvissuti si fatica a comprendere quali siano le entità che perseguitano l'altro.
"Denis non sa cosa sta succedendo a Danette, ha solo deciso di aiutarla perché non vuole ferirla: per questo ha spento il computer e si è tenuto per sé tutte le scoperte che ha fatto. Danette non è malata e non è pazza. C'è molto di più dentro i suoi occhi tristi. C'è tanta luce e tanto amore incompreso. Lo ha sentito come se lei lo avesse toccato davvero al centro del cuore con le sue piccole dita." 
Solo un susseguirsi di comportamenti bizzarri, cambiamenti improvvisi e di paure assurde. O, ancora, il rinchiudersi in una routine sempre uguale, evitando di "cambiare percorso" per non incappare nel mostro che ci divora.
Le cicatrici fanno male e ci segnano per la vita. Le ombre sono in grado di distruggerla.
Per questo, ogni volta che guardando negli occhi una persona incontro un sopravvissuto sento la necessità di un contatto più profondo. Per aiutarci a capire il demone e a creare un cerchio magico più grande che non ci faccia sentire soli e sporchi, e cattivi, e falliti, inutili o persi.

Se volete la recensione di "Domani sarà un giorno perfetto" la trovate su Recinzioni Selvagge.
Per le puntate precedenti delle mie analisi illogiche o cliccate sull'etichetta (detta tag) apposita oppure, se siete pigrissimi:
1) Da certe cose non si torna indietro
2) Il tempo atmosferico del lutto
3) Eros o Thanatos
4) Ciò che pare normale


9.1.15

Considerazioni letterarie noiosissime

Parto dalla lettura di questo articolo sulla webzine Kultural, firmato da Sebastiano Pazzini e Viviana Rossi.
Niente di nuovo, almeno per me che bazzico in libreria e tra aspiranti o emergenti.
Il dibattito sull'editoria a pagamento (EAP) è vecchio, tra noi, ma trovo spesso "nuovi" aspiranti che son convinti che per pubblicare un libro sia necessario pagare. Invece no, si paga se lo si vuole stampare e regalare ad amici ma non è affatto necessario farlo per pubblicare. Son due cose diverse: dipende da cosa vuoi fare.
Se per "tirartela da autore" ti basta avere le prove fisiche di aver scritto un qualcosa puoi pagare e comprarti le tue 20, 50, 100 copie da vendere o regalare a chiunque (o puoi scegliere di non pagare e auto-pubblicarti in digitale, ma qui si apre una parentesi infinita); se non hai intenzione di "tirartela da autore" ma semplicemente vuoi scrivere e vuoi che quello che scrivi sia considerato NON devi pagare.
Non solo perché, come ho letto oggi su una pagina di Facebook, se cadi nelle lusinghe dell'EAP finisci come marchiato a fuoco e nessun editore serio ti pubblicherà più nella vita (o nessun blogger ti recensirà, o nessun circolo di lettori puristi parlerà mai del tuo lavoro), non solo perché a chi ti fa pagare non importa pubblicare te o Pinco Pallo (basta che paghi), ma anche perché il fatto di non chiederti soldi è testimonianza del fatto che almeno una persona oltre a te crede nel tuo lavoro. E se qualcuno oltre a te ci crede è possibile che tu stia facendo qualcosa di potabile. Questo in linea di massima.
Certo non è facile, ci sto passando io con ogni lavoro che scrivo. Per un romanzo pubblicato ne ho altri due pronti e uno in lavorazione. Ci vuole tempo e pazienza. Umiltà e pazienza, fortuna e... pazienza. Tanta pazienza, appunto. Perché niente è immediato nello scrivere. Poi bisogna essere obiettivi, cosa che non è sempre facile con le proprie creazioni.
Io ci ho messo cinque anni a trovare qualcuno che credesse nel mio "Gli attimi in cui Dio è musica" ma sapevo in partenza che non era un romanzo facile da pubblicare. I motivi li conoscevo da sola, senza schede di lettura fatte da agenzie o da giudici di un concorso. Non è commerciale, non è pieno di colpi di scena, non è raccontato con enfasi. Quindi inutile sperare in un "caso editoriale", in un editore big, in tirature eccezionali. I numeri parlano chiaro anche per gli esordienti. Difficile andare oltre le 250 copie, arrivare a 2000 è già un record. Ma se si è convinti della qualità del proprio lavoro - anche se per forza non piacerà a tutti - si va avanti fino a che non si trova qualcuno che ci crede con te. Poi un altro e un altro ancora.
Luoghi comuni ce ne sono a decine. Veri e meno veri.
Quello che credo conti e faccia la differenza è il fatto di continuare a lavorare, a scrivere, a metterci l'anima, a imparare cose nuove, ad accettare critiche, a farsi conoscere non solo come spammatore della propria opera - inducendo il mondo a un odio profondo - ma anche per ciò che si è, per i prorpi contenuti che vanno al di là del semplice romanzo/racconto/poesia scritto e pubblicato. Crearsi un pubblico, un minimo di seguito. Cosa non facile, anzi.
Questo per quello che riguarda l'autore.
Il resto è, a mio parere, un gran casino. Perché hai voglia a criticare chi in questi anni ha sbagliato completamente politica editoriale. Pubblicare schifezze e cose tutte uguali, che però poi sono quelle che comunque vendono, e continuare a farlo finché non si stufa pure l'ultimo lettore - che siamo scemi, va bene, ma dopo un po' le vediamo le copertine e i titoli tutti uguali; e le saghe tutte uguali, e gli scaffali pieni di libri sui vampiri quando per anni tutti gli autori di horror sono stati relegati a un angolino nascosto al fondo della libreria, condannati. Pubblicare libri pieni di errori, non pagare collaboratori, pubblicare amici e parenti, premiarsi tra i soliti noti. Un circolo chiuso che ha perso il contatto col mondo e che sta precipitando dove non si sa, portandosi dietro tutto il lavoro di chi non è entrato nel giro. Non in quello grosso.
Un universo che collassa e che non si sa quanti inghiottirà e cosa lascerà dietro di sé. Con addetti ai lavori tra lo schifato, il deluso e il rassegnato. E chi, da autore, non sa che pesci pigliare per tirare avanti e casca sempre più facilmente nella rete di chi "almeno" ti pubblica (pagando), perché altrimenti che senso ha?
Penso che questo periodo di transizione vedrà un ulteriore crollo e la nascita di nuovi "sistemi" e non ho la più pallida idea di come si evolverà la situazione, come tutti. So che siamo a un punto di svolta, lungo e lento. Mi pare sia sotto agli occhi di tutti, basta guardare e leggere con attenzione.
Ora, io non sono per l'EAP. Non lo sono per quello che riguarda il mio lavoro e penso che gli altri abbiano il diritto di scegliere cosa fare. So che alcuni buoni libri possono nascondersi tra gli auto pubblicati come tra quelli che scelgono le varie forme di EAP e che alcuni pessimi libri sono comunque in libreria con etichette importanti. Non me la sento di giudicare il metodo scelto da altri, soprattutto quando il caos è totale.
Mi piacerebbe che ognuno avesse lo spazio giusto. La giusta opportunità, il premio al merito.
Oggi non funziona così: tocca fare buon viso a cattivo gioco e aspettare un momento migliore.
E lavorare...

P.S: Come succede che l'amico dell'aspirante attore venga scelto a un provino a cui non voleva partecipare, può succedere che qualcuno legga due o tre capitoli di un romanzo e chiami l'autore. Magari una volta su centomila. Ma io ci credo.