25.11.07

Amati mezzi pubblici

Caro alieno che visiti il nostro pianeta...
hai mai preso uno dei nostri mezzi pubblici? Credo di no, perchè dovresti se non per una necessità documentaristica?
In ogni caso voglio raccontarti come funzionano. Almeno qui a Torino.
Prima di tutto, da quando sono nata le cose sono cambiate parecchio. Quando ero piccola c'era un simpatico signore a bordo di ogni tram (piccolo treno cittadino) che ti faceva pagare il viaggio a seconda del numero di fermate che dovevi compiere. Così, se il tuo viaggio era breve potevi pagare una cifra più esigua, mentre con l'allungarsi del tragitto venivi a pagare sempre più. Oggi paghi lo stesso biglietto sia che tu faccia una fermata, sia che ne faccia dieci. Il progresso...
Quando hai fretta, per la legge di Murphy (una legge della fisica moderna ormai nota su tutto il pianeta), i mezzi pubblici sono appena passati. Tutti. Almeno le linee che ti servono.
Negli orari di punta, quando gli studenti devono andare a scuola, gli impiegati in ufficio, le commesse in negozio e chi più ne ha più ne metta, i mezzi sono riempiti anche dai pensionati. Che a rigor di logica potrebbero prendere la vita con più calma. Invece no, loro sono al mercato alle sei del mattino e quando tu prendi il tram già pieno, ti ritrovi con i carciofi di un'anziana signora che ti pungono le gambe e tu non ti puoi muovere. Perchè hai lo zaino di uno studente nello stomaco e la 24 ore di un impiegato nel sedere.
Quando piove e il tram è pieno è una gioia lasciare che gli ombrelli di chiunque ti sgocciolino addosso. Tutti insieme, accalcati, accaldati e gocciolanti.
Gli odori che si sentono sui mezzi vanno dal portacenere di una settimana alla tradizionale bagna caoda piemontese. Un misto di nicotina e aglio, con note di sudore rancido, un tocco di fiatella da cattiva digestione e nella stagione giusta un sentore di naftalina. Un bouquet che fa impazzire.
Per migliorare l'ambiente, poi, ci sono persone che tirano l'ultima nota della loro sigaretta tre secondi prima di salire, per poi soffiare il fumo all'interno del mezzo. Grandiosi.
Sui mezzi ci si comporta un po' come a casa. Si legge il giornale, bello aperto, sbattendolo in faccia al passeggero di fronte. Si chiacchiera del più o del meno ad alta voce in modo che sentano tutti (sarebbe ineducato non coinvolgere la signora là in fondo nella conversazione), soprattutto al telefono. Tutti sanno tutto. Alla faccia della privacy che poi tanto vogliamo.
Gli autobus di una volta avevano un ampio spazio al fondo dove stare in piedi senza spiaccicarsi. Come tutte le cose furbe, ne hanno inventati di nuovi, peggiorandoli. Si, perchè sono diventati inospitali. Ci sono molti posti a sedere. Sedili accoppiati e talmente vicini una fila all'altra che per sedersi o per uscire, se si ha la sfortuna di essere accanto al finestrino, bisogna saltare in braccio al vicino o farlo alzare. E lo spazio che possiamo chiamare "corridoio" al centro del bus diventa il paradiso del maniaco, non ci si passa in due senza strusciarsi. Così ti trovi sempre con qualcuno spalmato addosso e non sai se lo fa apposta o meno.
Per poter arrivare alla porta e uscire devi saper giocare a "quindici", quel gioco con le tessere da spostare e riordinare che ci faceva impazzire prima che arrivasse il cubo di Rubik. Ogni spazio vuoto va sfruttato con doti tattiche da far impallidire un marine... Io mi sposto qua, così lui prende il mio posto, al posto suo ci va l'altro e io avanzo di un passo, e così via...
Si suda come in sauna alla modica cifra di 1 euro, volendo fino a 70 minuti. Ma chi resiste?
Ogni linea ha i suoi habituè, di varia natura: i suoi maniaci, i suoi matti, i suoi personaggi strani. Sta al passeggero accorto individuarli ed eventualmente stare alla larga, perchè altrimenti son fatti suoi.
Gli scippatori hanno ormai mani talmente leggere e abili che non ci si accorge di nulla. Chi vede tace, perchè ha un po' paura di prender botte, e si sposta un po' più in là. I maniaci strusciano, palpano, si appoggiano senza pudore. Vien da chiedersi come reagire, perchè se una donna si lamenta è lei che sta inventando tutto. Forse se si rispondesse allo struscio con altrettanto struscio il maniaco perderebbe il divertimento di choccare la vittima... Boh...
Alla fine, a forza di sopportare, uno si abitua alla fatica del mezzo pubblico e se ne gode la bellezza. Non c'è da parcheggiare, non c'è da fare attenzione al traffico, da pagare auto, benzina, assicurazione, parcheggio, manutenzione, box, lavaggio...
Tutto ciò ripaga adeguatamente la fatica, assicurato! Quindi, caro alieno, goditi un rilassante viaggio sui nostri tram e autobus...

23.11.07

Hunter

Non dovrei essere qui.
Soprattutto non dovrei parlare con te. Leggo segnali d'allarme ovunque. I tuoi occhi chiari mi inseguono ed il tuo sorriso è una bandiera pirata.
Il sorriso, come quello che mi hai strappato, è il motivo per cui cado in questa trappola. Il tuo gioco sottile. Un martellare continuo di dolci allusioni. La feroce provocazione che apre la mia pelle di tossica. Ho bisogno di queste cose, tu sembri leggermi la mente.
Tu, freddo e indifferente, tu che ritorni inaspettato e stravolgi il gioco. Sai infiammare il mio cuore, i miei sensi, sai entrarmi nel sangue e togliermi il sonno.
Tu non mi piaci, non mi piaci affatto. Eppure non smetto di guardarti un attimo. Di nascosto, apertamente, sfacciatamente. Senza senso. Quell'aria maledetta che ti porti dietro mi fa impazzire. Lo so che puoi farmi male ed è proprio questo che mi porta da te.
Voglio che tu mi spezzi. Dio, no che non lo penso! Ma lo so.
Il mio sangue corre verso questo disastro ed io non riesco a fermarlo. E' più forte di me. Voglio giocare un'altra mano, dopo ciò che ho perso per la tua indifferenza. Orgoglio?
No, stupida perversione. Il gioco è solo averti, poi nient'altro conta. Non voglio il futuro. Non sei abbastanza per me, merito di meglio. Eppure il mio pensiero torna da te come un cucciolo.
Voglio crogiolarmi nei tuoi bizzarri tentativi, voglio riderne finchè non avrò male ovunque. Voglio sentirti entrare in ogni cellula, cedere, lasciarti vincere vincendoti.
Sono malata? Mi importa solo del gioco, davvero. Una masochista nata, perchè tu sei ciò che sei. E se ti lascio fare tu manifesterai la tua natura dominandomi, impotente e fragile quanto mi vuoi. Questo lo so fare, darti ciò che vuoi a piccoli pezzi. Tu vuoi una tacca in più sulla tua pistola, mai paragone è stato più azzeccato. Il bello è che io lo so.
Non farò nulla per fermarti. Io desidero solo che tu mi investa con tutta la tua forza, che ci metta la tua passione, che mi doni il tuo sorriso. Perchè il sorriso me lo ricorderò, sarà lo stesso che avrò stampato in volto quando vedrai che sono come te.
E sorridendo ce ne andremo...

19.11.07

Clara e l'estenuante esperienza ripetitiva

Il mondo di Clara stava cambiandole intorno.
Dall'estate dei suoi 18 anni ogni sua certezza sembrava aver cominciato a diventare altro. Perdeva colpi. Non che non riuscisse più a fare le sue solite cose. Solo che quelle stesse cose non erano più le stesse...
Una volta aveva subito il fascino del palcoscenico. Il modo in cui tutto lì sopra sembrava possibile e bello. Tutto era leggero, divertente, emozionante. Una fiaba, un sogno. Certo, lavorare lì sopra era difficile, comportava grandi sacrifici, ore di studio, concentrazione, sudore. Ogni giorno lei entrava alle 10 del mattino per la sua prima lezione giornaliera e se andava bene usciva alle 18. Non voleva cambiare vita, ma la vita stava cambiando.
Il fascino del palcoscenico era enorme quando lo spettacolo era un evento unico, semmai ripetuto di quando in quando. Quell'anno, Clara cominciò a sperimentare le repliche.
Quello che era stato il loro spettacolo di Natale (perchè un solo saggio all'anno non era sufficiente) diventò una esibizione settimanale.
Il teatrino era un piccolo spazio da oratorio, un posto che le scuole affittavano a buon prezzo e con almeno una sana struttura funzionante. Il buon vecchio Teatro Alfieri era forse troppo caro e troppo spesso occupato da spettacoli più importanti. Il Teatro Nuovo, dove Clara era riuscita a ballare per ben 4 serate in tutta la sua vita, era ancora più impegnativo.
La direttrice della scuola aveva allora optato per quella soluzione, non solo per lo spettacolo di Natale, ma anche per promuovere il balletto come forma godibile di spettacolo. Sicuramente il balletto non era lo spettacolo preferito dai giovani (che ovviamente andavano altrove a trascorrere le loro serate) e nemmeno dagli adulti, se non pochi appassionati del genere.
Tentar non nuoce...
Clara e le sue degne compari si trovarono quindi a ripetere la loro performance diverse volte nello stesso teatro. Una sorta di incubo in cui dovevano arrivare coi borsoni pieni di costumi, in autobus, farsi un bel pezzo a piedi, salire al primo piano per cambiarsi e sistemare le cose, truccarsi al volo con un unico specchio minuscolo e scendere le scale verso il palcoscenico, piccolo e polveroso. Ma non solo.
Dopo la prima volta il pubblico diminuiva sempre più ad ogni replica che si faceva. Essendo il biglietto economico, ma pur sempre un biglietto, le persone che anche avrebbero rivisto il balletto non tornavano più di una volta, eccetto le mamme delle ragazze che come Clara vivevano fuori Torino. Quindi all'ennesima replica il teatro era quasi vuoto.
Non solo per Clara questo era deprimente. L'abitudine di sbirciare da dietro il sipario chiuso per contare il pubblico era diventato lentamente un gioco al massacro, più si andava avanti più si aprivano le scommesse sul numero esatto di poveri fessi che avrebbero assistito. Dieci, sette, cinque...
Esattamente cinque era il numero di posti a sedere occupati l'ultima volta che ballarono.
Dopo le lezioni della giornata, Clara era partita in fretta e furia con Sara ed Alberta, con Marta, Donata, Gabriella, Azzurra e Nadia, tutte munite di borsa pesantissima. Tutte sull'autobus, tutte al bar a comprarsi un panino per la cena, tutte a piedi fino al teatro, ridendo.
Si, ridevano già, pur senza sapere di che morte dovevano morire. Ridevano su per le scale, nel camerino, nel bagno, cercando di smettere almeno per truccarsi senza sbavare.
I loro costumi poveri, le scarpette da mezza punta consumate. I capelli cotonati, la lacca, il fondotinta, fard, rossetto, ombretto, eye liner perfetto.
Le ascelle depilate anche senz'acqua, con la lametta usa e getta blu. Poco prima di controllare lo stato della platea. Mentre i loro insegnanti si accomodavano in galleria passando da un'ingresso del personale, direttamente dal piano del camerino.
Fu allora che Alberta, in un costume rosso fuoco, con le labbra luccicanti di rossetto e i grandi occhi pesantemente truccati, arrivò col responso... Cinque.
Cinque, di cui due erano genitori che subivano l'ennesimo scherzo. Mamma di Clara compresa.
Cinque...
L'epidemia di ridarola colpì dalla prima all'ultima ballerina. Durante tutto lo spettacolo non ci fu una sola di loro che mantenne un minimo contegno. Sara, addirittura, raccontava barzellette in scena, sussurrandole mentre era di spalle al pubblico e girandosi col sorriso enorme e stereotipato quando doveva farlo. Niente al mondo sembrava più assurdo di quello che stavano facendo in quel momento. Non avevano nemmeno più un aspetto umano, erano tutte simili a marionette. Danzavano col sorriso di plastica, sognando di essere altrove.
Persino Nadia, che di solito era una presenza decisamente professionale, almeno in scena, rideva sotto i baffi. Magari non apertamente come le più giovani, ma lo faceva anche lei.
Tutto ciò comportò un cazziatone di quelli fenomenali alla fine del balletto. Giulio era furibondo. Lui, che aveva sperato che le sue allieve facessero il loro sporco lavoro senza cedere, aveva visto deluse le sue aspettative. Per quei tre poveri spettatori che spettacolo era stato?
Dopo quella sera ci fu forse un'altra replica, poi l'assurdo tentativo cadde nel dimenticatoio. Non si promuoveva più il balletto...
Clara rimase segnata anche da quella esperienza. Lei che aveva amato il teatro ed il palcoscenico con tutto l'entusiasmo che un giovane cuore può provare, ora vedeva un futuro pieno di repliche in teatri vuoti. Non che fosse una prospettiva realistica, nessuna compagnia teatrale lavora con solo cinque persone in sala. Gli spettacoli chiudono prima di arrivare a questo punto.
Però lei era una giovane emotiva e pessimista. Sognava la gloria, non certo un teatro da oratorio vuoto. Sperava che dopo tutti gli sforzi fatti, almeno l'umiliazione di far rivedere cento volte a sua madre uno spettacolo che non voleva rivedere le sarebbe stata evitata. Sperava in un qualcosa di più, qualcosa che, ad esempio, trovava in discoteca ogni volta che si esibiva. Il pubblico c'era, almeno, anche se raramente capiva qualcosa di ballo.
Clara era assetata di applausi, cominciava a capire che non era l'amore per l'arte che la spingeva a far lezione ogni giorno. No, lei voleva qualcos'altro e non riusciva a perdonarsi per quel desiderio. Era troppo diverso da quello che si era detta fino ad allora.
Scoprirsi diversa dal suo ideale per l'ennesima volta faceva sgretolare i sogni ancora più in fretta.

Da ascoltare: "Tell me where it hurts" dei Garbage

Mad World

"Ora qui è tutto tranquillo. Ed è bello. Mi sembra di respirare meglio. Buffo. Mi manchi. Mi manca parlare con te delle nostre cose. Fin dal nostro primo incontro ci sei stata tu, solo tu. Non ne abbiamo mai parlato, ma so che lo sai, che lo ricordi. Eravamo in tram, sul 13, e andavamo verso Piazza Vittorio. No, andavamo a Palazzo Nuovo, all'università. Ma non insieme. Tu avevi gli auricolari e stavi ascoltando musica, in piedi in fondo al tram. Guardavi in giro senza grande attenzione. Avevi addosso una giacca nera ed una maglietta viola, i capelli castani sciolti al vento del finestrino. Era un pomeriggio ed io ero con un amico. Ti ho chiesto cosa stavi ascoltando e tu, invece di rispondere, mi hai passato un auricolare ed hai lasciato che lo scoprissi da solo. La mia musica preferita, blues. Ma ti ho salutata, non sapevo che dirti. Il tuo sguardo ed il mezzo sorriso non mi davano spazio e allo stesso tempo non avevo le parole, non più. Non ti ho dimenticata.
Poi ci siamo rivisti ed è cominciato tutto. Quanto era facile parlare con te. Difficile, invece, sentirmi alla tua altezza. Volevo renderti felice, ma per quanto io ci provassi non c'era modo. Tu avevi sempre ragione ed io non avevo la forza di discutere. Ero stanco. Non avevo più la forza di fare niente. Ero troppo preso dalla mia angoscia. Non trovavo il mio posto, non riuscivo a sentirmi amato. Non facevo mai la cosa giusta ed era l'unica cosa che volevo fare.
Passavo il tempo a cambiare vita. Volevo azzeccarne una. Essere accettato per quello che ero, con le bizzarre manie di mio padre e la presenza assordante di mia madre. Il loro modo di farmi sentire inappropriato, sempre meno capace degli altri a vivere in modo corretto. Utile.
Ho sentito che eravamo simili. Tu mi capivi e mi amavi, a modo tuo. Forse non era quello che cercavo, ma per me, comunque, c'eri solo tu. Cercavi di consigliarmi su cosa fare, volevi che mi ribellassi, che liberassi me stesso dai lacci con cui mi ero legato. Sempre a dire di si, anche a te. Ma restando immobile nel mio dolore e nella mia incapacità di accettare questo mondo, questa vita, tutto questo dolore.
Questo dolore ci ha legati più di ogni altra cosa. Più della musica che facevamo insieme, più del tempo che ci dedicavamo, più delle tue poesie che leggevamo sul divano di camera tua. Con te ero libero di sognare e questo è il dono che mi hai fatto.
Poi c'era la realtà. Non so come facessi tu ad accettare di dividere in due parti la tua mente. Una con cui sognare ed una con cui osservare il mondo in modo critico, cinico, disilluso. Non sono mai riuscito a farlo. Io non riuscivo ad accettare tutto questo. Ho frainteso le tue teorie, lo ammetto. Forse ero solo stanco ed ho voluto darti un po' di colpa per come stavo. Perchè non mi amavi quanto desideravo ed allo stesso tempo non riuscivi a lasciarmi andare, perchè mi amavi più di quanto credevo. Io volevo che tu fossi felice. Ho fatto di tutto perchè almeno tu ci provassi. Io non avevo speranza. Scivolavo.
Soffocavo, se mi permetti l'ironia.
Scusami, ero arrabbiato. Con te, con i miei, con la vita... Che sto dicendo? Ero arrabbiato con me stesso, molto più di quanto hai immaginato. Perchè non mi sono più fermato. Scusami. Ho preso la mia decisione pur sapendo che avrei fatto male non solo a te. Mi sono liberato dalle mie catene. Qui, adesso, tutto è tranquillo. Il sole splende e me ne sto seduto in macchina a guardare la vita che va avanti. A guardare il mondo che impazzisce, che si frantuma. La spazzatura che si accumula, la gente confusa. Forse anche più di me. Non ho più bisogno di essere perfetto. Ora sono libero."

7.11.07

Negativo

"Spot"
matita bianca su cartoncino ruvido

Giudici

Sono stufa delle vostre parole,
delle vostre affermazioni,
dei vostri bei discorsi.
Dite di essere
liberi nei pensieri
e nelle azioni;
di non essere razzisti,
di non avere pregiudizi,
di non badare alle differenze.
Eppure anche voi
siete prigionieri
Di questo mondo vuoto.
Legati dalle convenzioni,
sempre pronti a giudicare
chiunque e comunque:
avete avuto il coraggio
di incolpare l’unica persona tra voi
che è veramente se stessa.
Incolparla per il suo modo di vestire,
di pensare,
ma soprattutto di essere.
Ma guardatevi voi,
giudici della altrui esistenza,
prima di parlare:
quella persona così diversa
è in realtà
la persona più sensibile che conosco.

Basta guardare nei suoi occhi per capirlo.

6.11.07

Erevan

Spiacente, ho dovuto cancellare questo brano, per banali motivi editoriali...

1.11.07

I think we're alone now

Noi tre, sempre insieme, o quasi.
Viaggiare in vespa ogni sera, nei soliti giochi estivi, quando non c'è niente da fare se non sprecare carburante. Era divertente. Io viaggiavo con lui, ovviamente, e tu ci seguivi come un fido scudiero. L'amico di lui.
Percorrevamo ogni sentiero, ogni strada possibile tra i campi e il paese, esplorando il già esplorato come fosse la prima volta che si vede. L'aria fresca tra i capelli che diventava sempre più fredda mano a mano che si penetrava nel verde. Niente oltre al rombo dei motori.
Eravate molto diversi, opposti se non fosse stato per la pelle chiara di entrambi. Molto chiara e piena di lentiggini la sua, a contrastare coi suoi capelli neri e a far risaltare gli occhi verdi e le labbra intense. Chiara e in armonia coi tuoi occhi azzurri e i tuoi capelli biondi, e le tue labbra pallide, la tua pelle sembrava più luminosa. Opposti anche i caratteri, sfacciato e sicuro lui, mentre tu eri timido e sensibile, un artista. Lui un cretino dal bell'aspetto, tu un dolce paggio sempre discreto.
Ed io, io ho sempre preferito i cretini... Infatti stavo con lui anche se non ne ero innamorata. Mi piaceva farmi vedere sulla sua vespa, suscitare l'invidia delle altre ragazze. Perchè lui è cretino, ma non è la cosa più importante quando sei cretina anche tu. Un bel ragazzo è sempre un bel ragazzo.
Ma tu, che ci farai mai con uno che non vale la metà di te?
L'estate prosegue con noi tre che facciamo passare le serate tra una corsa ed una pausa, finchè lui non se ne va in campeggio coi suoi amici, gli altri, quelli che in fondo preferisce a te.
Così ce ne andiamo, tu ed io, per i sentieri e per i campi da soli, come non fosse cambiato nulla. Mi piace viaggiare con te, non hai bisogno di primeggiare con le altre moto, non hai voglia di dimostrare che sei l'uomo senza macchia e paura.
Mi piace il tuo odore, stare incollata alla tua schiena e sentire i tuoi addominali tesi sotto alle mie mani, ogni sera, come prima con lui.
Finchè una notte di luna piena ci sorprende fermi a chiacchierare in uno dei nostri soliti posti. Il granturco che cresce e si muove intorno a noi seguendo il vento. Siamo soli e giochiamo. Tengo in mano le tue chiavi, attaccate ad un cavo a molla. Lo allungo, lo lascio tornare alla sua forma, in continuazione. Ogni tanto lo faccio passare intorno al tuo corpo, ti lego. Mi viene in mente il laccio di Wonder Woman, quello con cui estorce segrete verità, così parte la domanda. Una domanda innocente, sciocca e senza vera necessità di risposta. Infatti non me la ricordo e non so cosa mi hai risposto. So solo che mi dici che con la luna piena sono strana, mi rubi il laccio magico e mi imprigioni. Lo so che non ho scampo. La dolcezza mi cattura più di un laccio e non posso mentire. Tu domandi ed io rispondo, sincera. Mi piaci. Mi baci.
Tenerezza, forza, desiderio, cuore che batte forte. Nessun senso di colpa. Lui non ne soffrirà di certo. Ci siamo solo noi. La sposa che fugge col paggio fedele. La musica che volevi suonare per me, il futuro che sognavi, i tuoi progetti semplici e concreti. E sembravamo felici.
Per un po', almeno.
Mi dispiace, dopo ti ho fatto molto male. Non avrei voluto e non ne vado affatto fiera. Se solo mia sorella non ti avesse aiutato a scoprirmi avrei cercato di renderla meno squallida, tutta la faccenda. Io sono stata stupida, non solo... Eppure tu, ferito, arrabbiato, umiliato, hai continuato ad aiutarmi e a difendermi sempre.
Non so come stai, non so se sei felice, ma lo spero. Non sai quante volte mi son chiesta cosa sarebbe successo se lui non fosse partito e se io fossi stata meno egoista. Mi piaceva piacerti.
Ma se non fossimo rimasti soli?