22.12.08

Signora al tiggì

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"Io voglio essere regalata un anello, col brillante. Ma non so se mi arriva quest'anno. Magari il prossimo."
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18.12.08

Usanze natalizie che non uso

Come moltissime altre persone trovo che questo periodo di festa sia deprimente. Non per il freddo e le giornate corte, non perché segretamente depressa, ma perché trovo il Natale estremamente stancante. In generale.
Anche da piccola, eccezion fatta per i primi anni, la festa non ha riscosso un grande entusiasmo. Sono figlia di separati e da sempre Natale significa doppia festa. Cioè la vigilia con mamma e famiglia di mamma, il 25 con papà e tutto il mondo intorno alla famiglia.
Se da una parte il nucleo era ristretto e accogliente, persone con cui vivevo a stretto contatto ogni giorno tutto l'anno; dall'altra era il caos. Nonni, zii, cugini, zii dei nonni, nonni acquisiti, nipoti dei nonni acquisiti, un clan al completo. Di cui per tutto l'anno non avevo notizie, tranne di qualcuno.
Lungi dal credere a Babbo Natale, sapevo bene dove trovare i miei regali anche quando mi dicevano che non era il momento. L'unico regalo che mi ha meravigliata è stato un peluche enorme, un leone, che ho trovato sotto l'albero quando nemmeno facevo le elementari. Ovviamente era l'albero a casa della nonna materna, nel salotto col bovindo di via Collegno. Il salotto col lampadario a gocce, col televisore in bianco e nero enorme in un angolo. Casa mia.
Poi altri natali in collina, guardando la neve scendere da dietro ai vetri. Tutto nella calma e con musica classica di sottofondo, la tovaglia ricamata e i piatti belli. E i miei nonni.
Il pranzo di Natale del ramo paterno raccoglieva persone a decine, tavolo dei grandi e tavolo dei bambini, portate su portate, rumore, conversazioni fatte a volte ad alta voce, altre volte mascherando l'argomento dietro a una lingua straniera. Il disagio di dover ricordare ogni anno chi io fossi ai parenti dei parenti. Le lettere a Babbo Natale (dicesi liste dei desideri) mai rispettate. Chiedi una cosa e arriva automaticamente un'altra. Che non ti interessa, che non volevi e che abbandonerai entro 10 minuti dall'arrivo a casa. Il disagio di stare a tavola con coetanei, mai piaciuti. Mondi diversi che non potevano coesistere nemmeno allora.
Una festa lunga, senza magia, senza il calore che avrei voluto da loro. Il regalo, il dono, tutto perfetto, ma non soddisfacente. Io ero avida di altre cose. E le canzoncine cantate a forza con il cugino che suonava l'organo Bontempi (quello arancione, sì), giusto per far vedere che bella vocina avevo e quanto era bravo il cugino a suonare.
Il Natale col menu ricco, quello stupefacente, quello che viene servito con tutti i crismi come in un buon ristorante. Etichetta rispettata e bon ton assicurato. E nessuna voglia di festeggiare.
Anzi.
Proprio a Natale mi saliva quella rabbia sorda, ma manco tanto sorda, e la cattiveria, e la voglia di esplodere e prendere tutti a parolacce. Niente vestitini carini, niente sorrisi, niente regali. Niente auguri, solo veleno in libera uscita. E liberazione.
Invece fingevo, da brava bambina. Sorrisi, baci, auguri e frasi di circostanza. Finché non sono stata abbastanza grande, quando ho smesso di andare alla farsa.
Da una parte le cose sono cambiate. Non c'è più il clan, non c'è l'obbligo. Vigilia con mamma e sorella, Natale con papà e famiglia. Un tavolo accogliente, caldo. C'è la famiglia. In entrambe le occasioni.
Dall'altra Natale è lo stress delle luci due mesi prima, degli acquisti obbligati, della gente impazzita che riempie i negozi anche quando non ha soldi. Quelli che fanno andare le carte di credito come se non pagassero loro. Quelli che devono essere buoni.
Io ho deciso che no. Che faccio in un altro modo.
Evitando gli eccessi, le spese assurde per i regali; salmone, caviale e champagne in tavola; quei piatti cui non si può rinunciare (come le lenticchie a capodanno...); l'albero, il presepe, le lucine e tutti sti Babbi appesi ai balconi brutti come impiccati. Insomma, se il Natale ha un senso - io non sono credente quindi non avrei nemmeno da festeggiare - non credo sia questo.
Quindi festeggio a modo mio.

13.12.08

Alle superiori, ultimo anno

Il professore di Italiano finisce di dettare la lezione su Moravia…
“…un’apatica sensazione.”
Dal primo banco, una alunna dai lunghi capelli biondi e dagli occhi azzurri, alza la mano sorridendo. Ha l’espressione gioiosa dei diciott’anni, dei pensieri felici che fanno volare via le giornate.
“Professore, ma cosa significa patica?”
Lui la guarda, indeciso. Poi risponde:
“Al tuo paese non so, ma in italiano non vuol dire nulla…”
Lei, espressione di vuoto mentale, riguarda il quaderno. E non capisce.

11.12.08

Aspettative

Come anche per altri argomenti, mi tocca cominciare con un "non so perché".
Io scateno aspettative. Sempre fatto.
In un modo o nell'altro, fin dai primi passi, gli altri si aspettano cose da me. Normale, dite.
Mia nonna mi ha insegnato a scrivere (con la mano giusta, che io di natura sarei mancina), a tenere un pennello in mano, a scatenare la mia fantasia. Forse si aspettava che diventassi una artista in tenera età. In effetti... (alle elementari ho scritto un tema in versi e sono un tipo creativo). I genitori, ovvio, avevano le loro. Più o meno pressanti.
Gli insegnanti a scuola volevano che io fossi la migliore sempre, mentre io volevo solo essere normale. Evitare i compiti, le interrogazioni, i pomeriggi a studiare. Avrei voluto divertirmi, ad esempio. Non trovarmi perennemente come termine di paragone per le compagne di classe che già non mi cagavano manco di striscio. Gli insegnanti si aspettavano che io mi comportassi da prima della classe, che avessi a cuore una carriera scolastica da 10/60/110 e lode. Invece a me non poteva importare di meno.
Quando facevo danza molti si aspettavano che io mi mettessi in competizione con le mie colleghe, mentre a me bastava poter ballare, imparare tutte le coreografie possibili, poter salire su un palco. Uno solo tra i miei insegnanti lo ha capito. Uno solo mi ha detto che sarei stata una buona ballerina professionista. Non una star, non l'etoile. Nemmeno una prima ballerina. Ma una professionista. Lui si aspettava da me solo quello che potevo dargli. L'unico.
I miei fidanzati/innamorati/amanti/storie da una sera/baci rubati, tutti e **, mi hanno guardata e hanno visto qualcun altra... Non ero io.
Vi pare, ad esempio, che una aspirante ballerina con un buon Q.I. e una discreta educazione/cultura avrebbe potuto sposare a 15 anni un aiuto cuoco? (Scaricato al volo dopo la richiesta) Certo che no.
Ma non è solo questione di richieste impossibili, no. La questione è che nessuno ha mai preso in considerazione la persona che sono. Vedevano in me quello che volevano loro. Un giocattolino, una che si può e deve manovrare, una che può essere solo felice ad avere un futuro qualunque.
Ce l'avevo già un futuro qualunque. Anche da sola.
Tutti a decidere cosa e come e perché dovevo fare. Con chi dovevo parlare, con che abbigliamento dovevo uscire, quali progetti portare avanti, quali speranze coltivare. Quanto dovevo mangiare, cosa dovevo scrivere nelle mie lettere, quando dovevo reagire e quando no. Tutti a pensare al sistema migliore per togliermi la vita. La libertà. I sogni. La dignità. Tutti a cercare di farmi sentire una merda, perché loro avevano voglia di gestirmi come gli pareva. Se io non ero d'accordo, se non stavo bene, se chiedevo qualcosa di più o di diverso, se manifestavo lati del carattere, non obbedivo, non mi accontentavo... così non andavo bene.
E giù mazzate. Commenti, cattiverie, battute. Qualche schiaffo, piccole vendette.
Va bene, io sono un tipo accomodante. Faccio poche richieste e cerco di non avere da discutere ogni volta. Di solito amo chiedere le cose una volta sola. Mi piace che le persone mi ascoltino quando parlo e che capiscano quando chiedo qualcosa.
Anche al lavoro, stessa storia. Io mi assumo le mie responsabilità, ma quando chiedo qualcosa si tergiversa sempre. Che sia l'istruzione data alla nuova arrivata, che sia evitare un discorso inutile, che sia la richiesta di un piccolo aumento. Si fa finta di niente. Perché tanto io sono buona. Tanto non reagisco, tanto non creo problemi.
Quanto vorrei un machete!

6.12.08

Guida al sonno per pazzi scatenati

Non so come possa succedere, ma fin da piccola in certi momenti ho potere sui miei sogni. Non su tutti, purtroppo. Sono nota per i miei incubi.
Ad esempio, da piccola sapevo che se mi addormentavo ascoltando i battiti del mio cuore avrei avuto un incubo. Succedeva ogni volta. Incubi da bambini, con personaggi molto simili a quelli dei cartoni animati o dei fumetti. Niente di troppo complicato.
Poi sono arrivati gli incidenti automobilistici. Quello più ricorrente era l'investimento di un bambino che correva in strada per prendere la palla, vicino ai giardini. Si ripeteva anche più volte a settimana, con il sangue e poltiglia non ben identificata sparsa sull'asfalto. Al risveglio avevo un sapore terribile in bocca e spesso la nausea.
Così ho cominciato a pilotare i sogni. Dopo essermi sdraiata e rilassata un pochino, formavo l'immagine di un posto (anche sconosciuto), vedevo dei personaggi, insomma mi facevo le prime scene di un film personale. Da lì, il sogno partiva facilmente e quasi sempre le cose andavano per il verso giusto. Cose pacifiche, storie d'amore (rigorosamente platonico, ero troppo piccola per altro), avventure nello spazio, amicizie che nascevano e si sviluppavano in situazioni mai complesse.
Capitava spesso, anche, che io riuscissi a "svegliare" una parte di me quando il sogno prendeva una brutta piega e lo riprendevo da un punto già sognato per dirigerlo verso un finale migliore. Il bello è che mi ricordavo tutto, al risveglio. E se volevo, la sera dopo potevo riprendere la storia da dove l'avevo lasciata.
Questa capacità è andata scemando dopo i 12 anni, circa. Il mio rapporto con il mondo onirico, però, è sempre rimasto particolare.
Gli incubi sono sempre rimasti parte integrante del mio sonno, anche se raramente mi spaventano davvero. Ho avuto sogni strani, anche alcuni premonitori.
La mia mente riesce a sognare anche quando sono sveglia, in certi momenti. Il che è un vantaggio enorme quando magari ho da fare un lavoro noioso e ripetitivo. Almeno le mie mani lavorano in automatico e io mi vivo altre storie. Storie che poi riesco a sviluppare e scrivere in modo comprensibile. Mi piace molto questa capacità.
L'unico difetto è che spesso la parte immaginativa ha il sopravvento e in certi momenti mi ritrovo a vivere emozioni inaspettate mentre magari sto andando a lavorare a piedi col mio i-pod nelle orecchie. Un brano, delle immagini si formano immediate e magari mi trovo commossa fino alle lacrime nel bel mezzo di Corso Vinzaglio, o sul tram, con la gente che mi guarda e non capisce perché sono così sconvolta.
Quando va bene ho al massimo la pelle d'oca, mi sento la pelle delle guance paralizzata e tutto torna a posto in pochi istanti. Tempo di riprendere il controllo. Quando sono un po' più tesa, magari non riesco a controllarmi e qualche lacrima scende.
Sono emotivamente instabile, già lo so. Non mi preoccupa nemmeno, meglio che essere priva di sensazioni come mi è capitato tra i 21 e i 27. Allora non c'ero, ma non c'ero davvero.
Però, quando vado a letto, non ho nemmeno più bisogno di cominciare io i miei sogni. Sono quasi sempre belli, magari strani, ma belli. Spesso misteriosi, magici o dolci.
E molto spesso volo, la notte, tra gli alberi. Mi piace da impazzire l'aria sul viso, la luce della luna piena che mi guida. Un fuoco lontano.
So quando è la notte giusta per un bel sogno: un bel bacio della buonanotte mi coglie di sorpresa quando sono lì lì per addormentarmi. Un bacio avvolgente, caldo e pieno di amore, che mi smuove le viscere e mi trascina nel sonno. Non ho nemmeno bisogno di sapere chi me lo da. Non è importante.
L'importante viene dopo.

Da ascoltare: "the clockwise witness" dei Devotchka