31.12.21

Questa non è più camera mia - parte terza - discorso di Capodanno

Poi succede che improvvisamente ti trovi alla vigilia di un nuovo anno e non hai nessuna voglia di fare bilanci, perché conti alla mano sono due anni quasi che non faccio altro che ricalibrarmi di mese in mese. L'anno scorso è stato in qualche modo più pesante del precedente ma in qualche modo è stato utile. 



Mi ero persa, nel tempo, per svariati motivi. Avevo smesso di parlare, di esprimermi. Ho smesso di ballare. Ho perso Cali, credo il colpo peggiore dell'anno anche se già lo sapevo dall'estate precedente. Ho perso i punti cardinali della mia vita per poi ritrovarne alcuni e ricominciare e ricostruire con basi nuove. Ho cercato di adottare un cucciolo e ora aspetto che arrivi una canappia adulta da un canile dell'Abruzzo. Ho detto tanti no - che non sono abituata - e ho intenzione di dirne altri quando sarà il caso, sapendo che ho vicino chi quei no li rispetta sempre. Non ho perso l'abitudine di osservare e decidere in base ai fatti, questo resta a mio favore anche se non discuto più le mie decisioni.


Ho riaccolto Tersicore, anche se non abbiamo ancora un equilibrio perfetto come avevamo un tempo; ho ricominciato a sognare, a vedere i corpi muoversi, a sentire la musica attraverso le immagini. Ho creato un pezzetto di coreografia per il saggio di pole delle mie amiche, ché per ballare è ancora presto. Ho di nuovo idee e voglia di ricominciare, anche se non so da dove perché ho perso il feeling e gli stimoli. Ricominciare fa male, resta sempre il fantasma di ciò che è stato e che in certi casi non ci sarà più allo stesso modo. I lividi, la fatica, il corpo che si deve abituare.

Ho scritto tanto, da ottobre a questa parte, rielaborando quel lavoro che da troppo avevo sospeso. E mi piace, finalmente. Ho avuto belle conferme e ne aspetto altre, anche se significa fare sul serio stavolta. Ho voglia di farlo, di raccontare le mie storie senza dover pensare ad altro.

Ho iniziato a chiamare col suo nome lo stupro, che finora ho sempre glissato sul termine pensando di renderlo più gentile. Ho capito che in alcune cose di gentilezza non ce n'è e che non fa meno male se fai finta che non esistano. E che è inutile nascondere cicatrici e non voler vedere i segnali.

La volta scorsa sono uscita ridendo dallo studio della mia terapeuta.

Ho capito che niente è come prima. Ora che tutto il mio mondo è praticamente raso al suolo io mi sento più consapevole, più libera e a tratti anche più felice. Questo mi ha insegnato quest'anno e mezzo di purgatorio: ridefinire i confini.

Inutile girarci attorno: sono cambiata.

C'era tutta una serie di priorità che ora non c'è più, una serie di persone di cui pensavo di non poter fare a meno che in qualche modo mi hanno dimostrato che posso benissimo, una serie di cose di cui non mi importa più una cippa.

Non sento urgenza. Non di evadere, non di fare, non di pubblicare, non di vedere, non di sentire, non di far vedere che ci sono, non di dimostrare che sono brava, non di ammazzarmi di fatica per niente. 

Ho trovato che non voglio limiti posti da altri, che non voglio essere imbrigliata dalla visione che altri hanno di me, che ancora non voglio adeguarmi. Che non sono una cosa, non una scommessa, non una persona da salvare, non una che si deve accontentare. Che non ho voglia di inseguire qualcosa, nemmeno un sogno. Che non voglio essere sistemata e infelice.

Che ho voglia di prendermi cura di me, anche solo scegliendo cosa mi rende felice, anche se può sembrare egoista. Che ho voglia di accettare chi sono anche se non sono come vorrei. 

Che questo mondo si muove in un modo che a me non piace e che non ho nessuna voglia di adeguarmi ancora, a costo di perdere in simpatia e popolarità.  Non sono più asociale di prima, ammetto di sentirmi meno tollerante ma non mi interessa trovare colpevoli in giro. Che ognuno continui a pensare ciò che vuole, ad agire come vuole, ad arrabbiarsi inutilmente. Io mi tiro fuori. Questa non è più camera mia, forse non lo è mai stata. Quindi, ecco. Vado nella mia, almeno lì ci sto bene.



28.11.21

Ballerine - singolare femminile 8

 "Le ballerine sono tutte puttane".

Questo mi ha detto mio padre quando, a tredici anni, gli ho detto che volevo fare un corso di danza professionale. Tutte, punto. Un dogma.

Io, che all'epoca mi sentivo già "ballerina inside", quel termine me lo sono attaccato addosso e me lo sono portato dietro come si fa con ogni delicato insegnamento di mamma e papà. Non che ci credessi, davvero, ma mi ha aperto gli occhi sul tipo di considerazione che potevo aspettarmi dal mondo.

Ed è inutile stare a spiegare che danzare per mestiere è la cosa più dura e difficile del mondo e che ci vuole una passione immensa per non mollare, ci vuole autostima per non crollare, ci vuole tanta rabbia, sacrificio e forza di volontà. Le ballerine sono facili, sorridono, hanno questa predisposizione alla fisicità, sono esibizioniste, sempre svestite. Sono, forse, un po' più libere di altre?


Questo mi è tornato in mente mentre ieri guardavo un post su Instagram di una mia conoscente che di mestiere fa la pole dancer. Leggere le decine di messaggi di insulti che riceve a ogni video che pubblica mi ha dato il voltastomaco. Uomini, vabbè uomini, ma anche donne che le danno della puttana solo perché ogni giorno fa il suo lavoro: balla e insegna, tutto qui. E porta avanti una battaglia che ci coinvolge tutte, non in quanto ballerine ma in quanto donne. A leggere i commenti che ha riportato con tanto di screenshot nel suo post mi è venuta la nausea. Mi sono vergognata per loro, per tutti quegli utenti che nascosti dietro al loro pc pensano di poter dire la qualunque a chi vogliono. Inutile denunciare, tempo perso si sa. Un po' come quando ti stuprano e la colpa è tua. E certo.

Siamo nel 2021, accidenti. Il medioevo non è ancora finito? Possibile che non abbiano altro da fare che insultare la gente? Possibile che anche le donne si mettano a spiegare che certo, se fai video in cui balli con quei tacchi e apri le gambe in quel modo... Io davvero non ho mai visto fare spaccate dai ginnasti tenendo le gambe chiuse, perché mai dovrebbe farlo una ballerina? E cosa dovrebbe fare una donna nel 2021? Ballare no, si è capito. Forse dobbiamo stare a casa a fare piccoli cuccioli d'uomo per poi educarli a insultare altra gente?

Sono arrabbiata. Ho sempre pensato che molto del "potere" del patriarcato derivasse da una falla educativa, dal fatto che a forza di roghi e inquisizioni ci abbiano convinte a farci la guerra tra noi per averne un vantaggio. Insomma, lo fanno con tutto il resto...

Ogni volta che penso di non valere abbastanza vedrò un'altra donna come rivale e insegnerò a chi ho accanto che lei è "brutta e cattiva" mentre io no. Un gioco che ci hanno abituato a fare, così ce ne stiamo buonine lì a riverirli e a portar loro la cena in tavola mentre loro passano il tempo a dare della zoccola a una che manco conoscono ma che gli rode che non se ne stia zitta e buona a casa a far la maglia. Sono arrabbiata, perché ogni giorno ne vedo o ne sento una e mi sento svilita. 

Stamattina andavo a comprare il cibo per la mia gatta e un cretino stava in strada a masturbarsi cercando di attirare l'attenzione delle donne di passaggio. Ho letto oggi della pacca sul culo di un tifoso a una giornalista e della risposta idiota del suo collega dallo studio. Sento ogni giorno di violenze domestiche, di femminicidi, di molestie. E quando già vivi sotto assedio, perché sai che se il bus è affollato potresti trovarti uno che ti si struscia addosso o che ti tocca e non potrai fare quasi niente senza attirarti gli sguardi disturbati degli altri passeggeri  - perché è ovvio che sei tu che non vai bene - quando già vivi sotto assedio non puoi stare a pensare al resto.

Al fatto che sul lavoro ci siano uguali discriminazioni, vuoi di stipendio, vuoi di qualifica. Al fatto che i tuoi diritti vengono costantemente attaccati nel nome di ideali di un secolo fa o forse più, al fatto che tutte le battaglie fatte in passato non hanno risolto un accidenti e questo non è un mondo per donne. Senza andare troppo lontano. Qui, in Europa, paesi civili. Quelli che additano gli altri.

E mi chiedo quanta strada dobbiamo fare ancora se non possiamo dire "faccio la ballerina" o "sono una pole dancer" senza che scatti il risolino, o la battuta. Anche da quelli insospettabili, eh, nessuno esente. Perché non puoi mostrare il tuo corpo e non essere una poco di buono. Quanta strada se alla prima foto su Facebook arrivano i messaggi in privato "sei un'artista del palo", "come arrampichi bene", "tu sì che sai maneggiare"... Non è nemmeno da dire che anche se una fosse una stripper professionista non cambierebbe nulla. Sì, faccio la stripper, quindi? Mi devi insultare? Ti sto dando fastidio? Cosa, esattamente? Il nostro corpo viene usato continuamente per vendere prodotti, per attirare attenzioni e in mille altri modi, perché mai non dovremmo essere noi stesse a giudicare come vogliamo usarlo?

E, santa pazienza, in quale pianeta delle scimmie vi hanno educati se non sapete nemmeno cosa sia il rispetto per il prossimo e pensate di avere diritto di giudicare e insultare gente di cui però seguite i profili?


 


14.8.21

Favole - Singolare femminile 7

Come spesso capita con gli argomenti "sensibili", mi trovo a scrivere e riscrivere questo post senza riuscire a dire tutto esattamente come lo sento. 

Ero partita da un romanzo che ho letto di recente - ispirato a una vicenda di cronaca, che tratta di femminicidio - e dalle mille domande irrisolte che mi aveva lasciato in testa. Domande cui ovviamente non so rispondere e che riguardano il complesso rapporto tra i sessi e il problema culturale che coinvolge tutti noi. Il romanzo in questione è "Credi davvero (che sia sincero)" di Roberto Ottonelli e racconta la storia di Martina e Antonio dall'inizio a dopo il tragico epilogo usando con estrema sensibilità un punto di vista alternato tra i due protagonisti che da una parte rallenta la lettura e dall'altra forse concede spazio a una maggiore riflessione. Il romanzo è breve e si legge rapidamente, se vi interessa l'argomento lo trovate qui.



Al di là del romanzo, però, c'è una serie infinita di questioni, sfumature, reazioni. Da una parte è vero che per natura tendiamo tutti a semplificare, catalogare e suddividere le cose in modo da "controllarle" di più, dall'altra siamo martellati da un'informazione più morbosa che realistica che tende a rimetterci in pace con il mondo inquadrando buoni e cattivi e fornendo loro giustificazioni e alibi. Una forma di catarsi di cui probabilmente abbiamo bisogno per non soccombere all'idea che questo mondo sia incontrollabile.

Come siamo arrivati fin qui è difficile da comprendere, visto che ci sembra di vivere in un mondo civile. A me pare che i rapporti tra i due sessi - ma anche tra esseri umani se andiamo a guardare in profondità - siano andati peggiorando. Non voglio parlare ci colpe o motivi, comunque.



C'è che, comunque, ogni volta che ci si trova davanti a una vittima si cerca di capire perché quest'ultima non si sia resa conto di cosa stava succedendo nonostante gli avvertimenti di amici, parenti, le notizie che ormai ci arrivano addosso da qualsiasi media. A mio parere questo è uno degli innumerevoli modi di incolpare la vittima una seconda volta (lo stesso vale quando nei casi di violenza sessuale si sta a contare i centimetri di gonna indossata dalla vittima quasi fosse una questione di matematica) e di non valutare l'aspetto psicologico profondo che sembra unire vittima e carnefice in un gioco terribile. Per esperienza personale e per aver sentito e letto parecchio in merito, mi sono fatta l'idea che tra i due elementi che compongono una coppia "tossica" ci sia una complementarità inconsapevole e che entro un determinato limite fa funzionare la coppia ma il cui equilibrio non è sempre stabile e soprattutto, visto che le persone sono in costante mutamento, con il tempo tende a modificare le esigenze di ciascuno. 

Allo stesso modo, ogni volta che ci si trova davanti a un carnefice c'è la tendenza a ricercare un punto di origine per il sue essere "il male"; maltrattamenti, abusi, esperienze negative diventano una sorta di alibi che a volte creiamo per non accettare l'atto violento come parte dell'essere umano. Certo, l'omicidio è una cosa terribile e in un mondo civile non verrebbe mai in mente a nessuno di commetterne uno. In un mondo civile ed equilibrato, cosa che esiste solo nei peggiori film anni '50.

Le relazioni sono complicate. Sempre.

C'è da dire che fin da piccoli siamo tutti bombardati da concetti e ideali riguardo all'amore e alla coppia che sono tossici quanto alcune relazioni. Il pensiero di essere gli unici a poter rendere felice qualcuno, per esempio, o quello di trovare un senso alla propria vita solo avendo un partner; l'idea che tutto resti sempre uguale e che una volta stabilito un legame questo non possa cambiare; l'idea che le esigenze proprie e altrui resteranno immutate rendendo una relazione momentaneamente perfetta - perché al momento soddisfa le necessità di ciascuno - eterna. L'idea che in questa ricerca non si possa fallire, che le cose siano o debbano essere sempre come le desideriamo, che per mantenere questa stabilità occorra compiere sacrifici immensi, l'idea di possedere l'altro o di controllarlo (cosa che è ancor più evidente nel modo in cui viene concepito il corpo delle donne ancora oggi). Si tende a non tenere conto del fatto che in una coppia rientrano due persone con esperienze, caratteri, ideali, visioni, obiettivi diversi. Che non per tutti "coppia" significa la stessa cosa, che non per tutti è "il" punto d'arrivo di un percorso. Non si tiene conto del fatto che si cambia e che a volte ci si ritrova con uno sconosciuto al fianco, che pur amando qualcuno sia necessario a volte lasciarlo andare, che le necessità di un giorno non sono le stesse dieci anni dopo. Che non esiste "e vissero tutti felici e contenti" ma che da lì nascono mille percorsi diversi e difficili in cui possono esserci incomprensioni, liti. In cui a volte si scopre l'incompatibilità e bisogna porre un rimedio prima di essere infelici in due, o tre, o cinque.


Sono figlia di genitori divorziati e non c'è un giorno in cui non ringrazi - avendo vissuto da più grande il nuovo rapporto di mia madre con il suo compagno - per avermi risparmiato liti e musi lunghi quotidiani e per avermi fatto capire che si può smettere di amarsi e restare civili. Che si può iniziare una vita nuova senza "uccidere" nessuno. Che si può superare un rifiuto, che un rifiuto non implica una mancanza. 


Che non esistono le favole, ma che certe volte siamo tentati dal loro appeal. Che certe volte siamo stanchi, o deboli, o scoraggiati, o depressi, arrabbiati col mondo, soli, spaventati. Certe volte ci arrendiamo e ci lasciamo cullare dall'idea che esista davvero un paese lontano lontano in cui per una volta ci va tutto bene e vivremo per sempre felici e contenti. Questo è uno dei motivi per cui non ci rendiamo conto, o scivoliamo lenti nelle sabbie mobili di una relazione malata. Vogliamo crederci e scegliamo di non vedere che, avvolti nel nostro mantello rosso, stiamo andando a spasso nel bosco con il lupo cattivo...


Come al solito non ho detto tutto, non ho probabilmente reso l'idea. Ma almeno ci provo.



12.8.21

L'analisi illogica del testo 15 - Mondo cannibale

 Vi direte, ancora horror...

Vi dirò: in parte, ma mai peggio del mondo in cui viviamo.

Ho iniziato la prima quarantena con gli zombie. Da una parte erano già nell'aria (l'anno scorso ho dato il via alla visione di "Fear the walking dead") e pur non essendo mai stata un'appassionata del morto vivente in generale, alla fine come il buon Romero, trovo una certa somiglianza tra il mondo in cui viviamo e una qualsiasi storia di zombie. 


Restando per ora fuori dal testo, che horror non è, la visione di zombie che affollano il centro commerciale  o che vengono distratti dai fuochi d'artificio, l'idea di un virus arrivato da chissà dove che fa risvegliare i morti diciamo che può ricordarci la nostra attualità. Ora io non sono un'esperta di zombie, ho sempre avuto una certa predilezione per i vampiri, ma questi "cannibali" hanno innescato in me una serie di riflessioni. 


Il virus, la massa, le nostre abitudini, i comportamenti indotti da necessità e da abili manipolazioni, l'impossibilità di uscire da un circolo vizioso che ci lega stretti, il sistema consumista, i falsi miti. L'illusione di avere un potere decisionale, di poter governare la nostra vita come ci piace e non come siamo obbligati a fare fin dalla nascita. L'obbligo a stare nella media. Al nostro posto senza scalpitare, facendo il nostro dovere e godendoci il piccolo premio che ne deriva. Dagli zombi siamo passati a una sorta di "Matrix", in cui fungiamo da batterie umane che alimentano un sistema esterno, felici di stare nel nostro limbo. Allo stesso tempo mi è tornato in mente anche "Essi vivono" e la sua serie di messaggi subliminali volti a tenere a bada una società intera affinché sia produttiva fino a farla consumare. 



Certo, è il nostro sistema a renderci così. Necessario e inevitabile che si debba produrre e consumare, anche se la corsa ci costa più di quanto ci gratifichi. Più di quanto buona parte di noi possa farlo, almeno, mentre una piccolissima parte si gode i frutti del nostro lavoro. In questo ultimo anno ho come l'impressione che la forbice che distanzia le due parti si sia ingigantita e che la pandemia ci abbia impoveriti, spaventati e resi ancora più "schiavi" del sistema. Che non può cambiare senza stravolgimenti e che probabilmente non cambierà nemmeno stavolta, lasciandoci ancor più alla mercé dei pochi che hanno il potere di decidere per noi. 

Le immagini degli alieni del film di Carpenter, delle human factory di "Matrix" e quelle degli zombie messe insieme dipingono una parte della nostra realtà. La nostra evoluzione. Vittime di illusioni, di falsi dei e  pronti a divorarci l'un l'altro. Oggetti, prede, meccanismi.


Poi, finalmente, sono tornata a Sonmi.

Ricordo di aver guardato "Cloud Atlas" con lo stupore negli occhi. Il film, più che il romanzo da cui è tratto, per la sua trasposizione che ne semplifica la visione d'insieme. Ricordo l'immediata sensazione che dietro alle "mangerie" di Papa Song ci fosse lo specchio della nostra condizione. Non tanto in quanto cloni, ma più per il nostro destino - della maggiorparte di noi che lo si voglia o meno - di vittime sacrificali di un sistema. Nati per lavorare tanto quanto i polli da batteria sono nati per farsi mangiare. Illusi, continuamente imbottiti di stimoli a consumare, di modelli cui conformarsi, di ideali di uguaglianza e libertà che mai raggiungeremo. Siamo, come tutte le Sonmi, destinati a lavorare, a produrre, a consumare e poi a diventare inutili. Numeri, braccia, gambe, energie da spremere finché ne resta. Il premio, l'illusione di riceverne infine uno che valga la fatica, sembra venirci ricordato ripetutamente. Cose tipo "un giorno, se ti impegni, anche tu puoi diventare questo" se da una parte sono uno stimolo al miglioramento personale, dall'altra ci illudono che valga per tutti mentre è chiaro che le nostre fatiche non sono tutte uguali e che non necessariamente tutto si può ottenere solo con l'impegno. Ché a volte una botta di culo è necessaria, perché non siamo tutti uguali.

Allo stesso tempo, non solo siamo obbligati a lavorare come automi per reggere il peso del sistema non importa come - e le morti sul lavoro che si contano ancora e sempre ne sono purtroppo un segno - per i pochi che ne gioveranno di più - e la gestione delle grandi industrie negli ultimi anni, impostata più sul punto di vista dell'economia che della qualità (e del prodotto, e della vita del lavoratore) è cosa ben evidente - ma siamo indotti a una sorta di cannibalismo tra noi, come succede con le Sonmi che vengono ritirate a fine carriera. In una costante "lotta tra poveri", in cui siamo spinti a incolpare chi sta peggio di noi per ciò che a noi non arriva come se fossero loro a portarcelo via, siamo come cannibali che si nutrono dei propri simili senza accorgerci dei tizi che da sopra ai grattacieli ci osservano mangiando caviale e aragosta  godendo dello spettacolo manco fossimo gladiatori in un'arena. 

Non so descrivere meglio l'immagine che ho in mente della nostra società negli ultimi anni. Forse è sempre stato così e il mio software si è danneggiato solo ora permettendomi di vedere oltre. Forse ho inconsapevolmente inghiottito la pillola rossa di Morpheus - perché mai lo avrei fatto di proposito - e ora mi è più chiaro il mio ruolo di "non eletta" ma di semplice "forza lavoro" in un mondo in cui non ho alcun potere né possibilità di scegliere, checché se ne dica. 



Il volto di Sonmi 451 quando scopre che per tutta la vita si è nutrita letteralmente dei suoi simili mentre aspettava di poter ricevere finalmente la sua ricompensa dice tutto. E se è vero che tutto è connesso - e lo è - rendersi conto per tempo di ciò che stiamo facendo sarebbe decisamente meglio. 


9.5.21

Ingrasso per legittima difesa

 Gli ultimi tre anni non sono stati semplici.

Ho fatto alcune scelte pur non avendo certezza alcuna di riuscire a farcela, ho avuto problemi di tendinite prima e di ernia del disco ora che mi hanno tenuta e mi tengono lontano dallo sport che amo, ho curato e perso un cane che amavo alla follia, ho lavorato molto stancandomi più del dovuto, ho passato due mesi da sola in casa  (salvo le uscite con il suddetto cane), ho fatto i conti con l'età che avanza, ho ridiscusso la natura di molti miei rapporti, ho continuato la psicoterapia. Ho preso farmaci, a volte ancora ne prendo. 

Mi sono resa conto di avere ripreso a mangiare "contro il mondo".

E sono ingrassata, tanto.

Non voglio farne un problema puramente estetico, anche se alla fine lo diventa comunque. Per quanto ci si astenga dal seguire mode e modelli assurdi, questi ci danzano davanti come il bimbo fantasma di Ally McBeal e non c'è modo di esserne completamente distanti. 



È un problema se per praticare il tuo sport devi sollevare il tuo peso con le braccia, o tenerti con l'interno di un gomito o di un ginocchio e i tuoi muscoli non sono allenati abbastanza per farlo. Diventa un problema se vuoi muoverti in un certo modo, come facevi anche solo tre anni fa, appunto.

Chi mi conosce sa che ho avuto problemi di oscillazione di peso fin dalla prima depressione. All'epoca frequentavo le medie e mi sentivo talmente distante dalle persone che avevo intorno che il vuoto che si era creato ha iniziato a fagocitare cibo senza un bisogno effettivo. La passione per la danza mi ha poi riportata senza il minimo sacrificio - e questo va detto, perché in quegli anni non mi sono mai sottoposta a diete né ho mai fatto un'ossessione del mio essere un pochino più rotonda degli altri - a essere normopeso e abbastanza carina. 

Dopo qualche anno, però, a seguito di altri eventi stressanti tra cui il fidanzato psicopatico del post precedente, nel momento in cui cadevo nella seconda crisi depressiva ho ricominciato a mangiare in modo scomposto. L'ho fatto - e ovviamente la terapia fatta in seguito mi è servita a capire - da una parte perché mi detestavo e dall'altra per sparire agli occhi del mondo. Per non essere più sexy, desiderabile, carina. Per non attirare attenzioni sgradite e per punirmi per essere stata così sciocca da pensare di avere un "potere" decisionale che non avevo. Per proteggermi, sostanzialmente.

Poi ancora un periodo di benessere, poi una terza crisi che mi ha portata oltre gli 85 kg. Con una fatica enorme e con l'aiuto della terapia, più avanti, ho perso di nuovo parte del peso e, una volta sistemata la fonte principale di stress del momento sono tornata a un peso che per la mia altezza era più che adeguato. Avevo sì alti e bassi ma sembrava tutto sotto controllo.

Poi di nuovo su. Nuove tensioni, altri problemi e nonostante lo sport praticato con costanza ho ripreso a ingrassare. Stavolta la dieta tentata non è servita a nulla e, anche se molto più lentamente di prima ho cominciato a lievitare. E non è che non mi rendessi conto della cosa, o del fatto che a ogni segnale di stress la prima reazione fosse di nuovo andare a mangiare qualcosa, solo che ho lasciato di nuovo che andasse così e lo so che sto solo cercando di sparire un'altra volta alla vista del mondo.



Quindi ingrasso per legittima difesa ma non ho ancora capito da chi o cosa mi difendo. Perché non credo sia il mondo il problema esattamente come mangiare non è la soluzione. E mi sento ancora indifesa se pur sapendo come funziona il meccanismo non riesco a togliermene. Perché non servirà fare l'ennesima dieta - che poi non funzionano mai come devono - e perdere peso se poi non smetto di ricascarci.

Solo che per una volta, e una volta per tutte, vorrei vincere io e avere il mio posto nel mondo senza pensare di dovermi difendere ancora - anche se dovrò difendermi in ogni caso. 

Vorrei smettere di aprire il frigo ogni volta che una frase mi fa sentire a disagio, ogni volta che devo reprimere un moto di rabbia, ogni volta che mi detesto perché non riesco a reagire. Vorrei smettere di sentirmi in difficoltà a dire no, di non pensare a chi sono e cosa voglio, di vedermi diversa da chi voglio essere. Vorrei smettere di nascondermi, di fare le stesse cose di un tempo, di sentirmi soffocare.

Di riempire i vuoti che non ci sono con cose che mi fanno male. Di lasciare che qualcosa crei vuoti inesistenti da riempire. 

5.5.21

Angelo - Singolare femminile 6

 Angelo voleva educarmi.




Ero troppo indipendente, troppo sicura, troppo libera per i suoi gusti. Per mia sfortuna ero anche innamorata di lui, che riusciva a tenermi testa e a farmi allenare seriamente (danzavamo insieme, allora, jazz io e break dance lui). Per mia sfortuna gli ho dato retta.

Ha iniziato dicendomi che ero grassa. Non lo ero. Pesavo 48 kg ed ero in splendida forma.

Ha continuato dicendomi che non valevo niente, facendomi sentire a disagio in mezzo agli amici comuni. Flirtando apertamente con altre ragazze per umiliarmi e provocare una reazione, che ovviamente sarebbe stata esagerata.

Poi ha iniziato a dire che anche come "donna" - a 19 anni - non ero abbastanza bella, o sensuale. Che le vere donne erano fatte diversamente, avevano un altro fisico.

A dire che non ero una ragazza seria. A pedinarmi, a mettermi alla prova su qualsiasi cosa. A leggermi la posta. Non poteva fidarsi di me.

E a mollarmi ogni 15-20 giorni, perché non avevo carattere. Con qualsiasi scusa. Una presunta bugia, una gelosia immotivata, una pirouette non riuscita. Se non reagivo ero colpevole, se reagivo lo ero lo stesso. Lo faceva per fortificarmi, diceva.

Qualsiasi altra ragazza era meglio di me e si faceva corteggiare tranquillamente, mentre io non potevo avere amiche, amici, affetti. Trovava il modo per allontanarmi da loro, per tenermi al suo guinzaglio più facilmente. E per un po' l'ha fatto.

Angelo si fingeva mio cugino quando andavo a farmi intervistare in radio, per vedere come si comportavano gli altri con me. Era certo che prima o poi mi sarei tradita e a quel punto mi avrebbe mollata - davvero? - per l'ennesima volta.

Se voleva ferirmi non veniva a vedere gli spettacoli in cui lavoravo da sola, perché dovevo lavorare solo con lui. Se lavoravo da sola era perché mi sentivo "figa" e superiore a lui e lui non voleva darmela vinta. Se lavoravo con lui dovevo sottostare alle sue regole e mai farlo sfigurare. Se avevo costumi troppo vistosi non andava bene, se avevo troppo spazio nemmeno.

Per lui non sapevo vestirmi, non avevo stile; non potevo mangiare perché dovevo restare magra, non dovevo parlare con altra gente o ribattere alle sue parole.

Mi ha messo contro chiunque. Dai suoi agli amici alla sua ex - in un gioco di tiro incrociato in modo che io fossi gelosa e lei mi odiasse. Lei una santa, io una troia; lei perfetta, io da correggere continuamente. Ha "corrotto" mia sorella, facendosi raccontare ogni cosa che succedeva quando lui non c'era, testando continuamente le mie versioni per cogliermi in fallo. C'è stato un momento in cui avevo paura di parlare in casa mia e sussurravo sempre. C'è stato un momento in cui sono crollata. Ci sono state botte, liti furiose. Con e dopo di lui ho distrutto la mia vita definitivamente.

Se non avessi subìto altro, prima di stare con lui, probabilmente non gli avrei dato chances. Se non mi fossi già sentita inadeguata non gli avrei dato retta. Ma mi ha trovata in un momento terribile e ne ha approfittato per annientarmi come poteva.

Ciononostante, e nonostante tutto quello che ho fatto dopo, non ha vinto lui e me ne sono liberata proprio quando pensava di avermi piegata a ogni suo volere.

Tutto ciò che mi sono lasciata fare da lui è stato un mio desiderio di autodistruzione, lui non aveva potere su di me se non quello che io gli ho dato.

Perché pensavo di meritare il peggio.

Perché già pensavo di non valere niente.

Perché mi odiavo per non aver evitato un abuso. Per essere stata debole e stupida. Perché non riuscivo a perdonarmi.

Ma non ha vinto lui.

Nemmeno quando ha provato a riprendersi il suo potere con l'inganno, perché ormai io avevo capito chi era e che non avrebbe mai smesso di torturarmi.

Non ha vinto.

Io ho sempre perso contro me stessa, in quegli anni.

Ma ho imparato che nessuno mi doma mai fino in fondo, per quanto pensi di stringermi in pugno, per quanto io ami, per quanto io appaia cedevole e morbida.

Dopo di lui ho continuato a punirmi, perché pensavo che fosse giusto. Lui è stata solo la prima stazione, ma fondamentale per creare un danno. Sono arrivata al fondo. Sono ingrassata, ho lasciato svanire ogni sogno, mi sono spenta per anni trascinandomi da una storia all'altra senza cambiare il meccanismo che con lui avevo innescato. Nessuno è stato più come lui, nessuno ha potuto trasformare quelle macerie in polvere ma su quelle macerie non ho potuto costruire per tanto tempo.

Poi però sono risalita, passo dopo passo, imparando a perdonarmi e a perdonarmi anche per lui e per tutte le persone cui ho lasciato fare quando sapevo che mi stavano calpestando. Perché mi merito di più, di meglio, anche se non sono perfetta. Anche se sbaglio, anche se non sono bella, anche se non sono furba, o coerente, o quello che non solo gli altri ma io stessa continuo a chiedermi di essere.

4.5.21

Piedi

 Un giorno mi sono innamorata di un paio di piedi. 

Sì, lo so che viaggiano quasi sempre in due e che di solito c'è attaccata una persona ma il ricordo nitido che ho del nostro primo incontro è la visione di due piedi abbronzati sul pavimento verde smeraldo della casa dei miei cugini all'Elba (posto che fosse verde, è passato del tempo, i piedi comunque erano abbronzati e bellissimi). 



Dico dei piedi perché quel mattino di Luglio ero uscita dalla cameretta in cui stavo rintanata per il trambusto che avevo sentito, ché io in realtà non volevo tanto uscire dalla stanza ed ero ancora in pigiama e decisamente non presentabile. Però c'era casino e questo voleva dire che i miei due cugini stavano già combinando qualcosa e davvero non volevo perdermi nulla, visto che lì non ci andavo da secoli e che avevo preso quella vacanza un po' come un castigo. Insomma, dal frastuono sembrava che ci fosse finalmente da fare qualcosa ed ero curiosa. Solo che non me l'aspettavo.

Ho aperto la porta e ho fatto un passo fuori in corridoio, piedi nudi e pigiama dicevo. Che poi era un vecchio pigiama del più giovane dei miei cugini ed aveva più buchi che pezzi sani ma io lo adoravo. Quindi sono uscita senza pensare e mi sono bloccata immediatamente: piedi. Abbronzati. Non erano i miei cugini, arrivati con me da sì e no due giorni e bianchi di città. Sopra ai piedi due gambe, bei polpacci, ginocchia con una morbida peluria bionda e calzoncini. E una racchetta da tennis. 

Dopo un attimo di perplessità ho alzato lo sguardo e ho trovato un sorriso che mi ha trapassata e due occhi - lo so, sono quasi sempre due, ho il vizio di specificare - tra il verde e il castano, accesi d'oro. Ho temuto di svenire, ho chiesto scusa e sono rientrata in camera prima che l'ospite potesse aprire bocca, con il cuore in gola e la sensazione di essere la ragazzina più orrenda del pianeta.


Avevo quattordici anni e tutte le paure del mondo.



I piedi di cui sopra, ho scoperto in seguito, appartenevano a tale Giuseppe R. di Milano, cugino degli amici dei miei cugini che a dirlo sembra uno scioglilingua. Studiava da geometra, nuotava benissimo e giocava a tennis strascicando il piede destro a terra quando serviva la palla tanto che aveva una scarpa distrutta. Era cotto a puntino dal sole e credo fosse orribilmente simpatico o comunque matto, che non cambia: i matti e i simpatici li ho sempre amati. E lui lo amavo, credo, con tutta la mia vergogna di ragazza timida. Da lontano, senza osare una parola, desiderando la fuga.

La mia prima storia d'amore, ovviamente fallimentare visto che non ho rimediato nemmeno un numero di telefono o qualcosa più di un paio di frasi in un momento di distrazione del resto del mondo, quando lui mi ha trovata sul tetto della darsena a cercare di rimediare almeno il colorito del pollo del girarrosto. Solo due frasi, quel paio di domande che si fanno a quell'età per capire chi hai di fronte tipo "che classe fai?" con nonchalance per indovinare un'età (che a una signorina non si chiede mai) e quella roba lì un po' inutile. Che poi a pensarci bene suona meglio di un sacco di altre cose che mi son sentita chiedere più avanti, altrove e da gente meno educata.

La mia prima storia d'amore, rigorosamente platonica, il cui misero trofeo è una T-shirt bianca con scritta blu e rossa che il semidio si era strappato di dosso in un impeto di orgoglio sportivo, che aveva iniziato a distruggersi perché un po' troppo tesa su quel fisico da urlo. E la spiegazione della differenza tra "parce que" e "pourquoi" fatta da lui mentre giocava, che è stata la prima e ultima lezione di francese che ho ascoltato. E il ricordo di una gita in gommone, in cui lui aveva cercato di attaccare nuovamente bottone ma il cugino premuroso - mio, ovvio - si era precipitato a dire che non sapevo nuotare prima che io compissi l'irreparabile gesto di fare il bagno al largo insieme a loro. Ê stato bellissimo vederli tuffare dagli scogli e nuotare nell'acqua limpida restando a beccheggiare sotto il sole da sola tutto il tempo. Davvero, quelle cose romantiche che non ti scordi mai. Infatti son qui che le scrivo.


E la sua fine ai primi di agosto quando, ormai disperata perché incapace (inguardabile, inadeguata, piccola, femmina, talmente timida da guardargli sempre e solo i piedi per due settimane), ho chiesto di poter tornare a casa, a Torino. Per chiudermi in una depressione senza fine in cui ripassare mentalmente tutte le occasioni perdute. Ultima delle quali un meraviglioso pigiama party sui bordi della spiaggia, a fine giardino, i Dire Straits di sottofondo, Giuseppe in pigiama corto ceruleo, loro che giocavano a tennis al buio (sì, c'era la luna) e una punta di dispiacere nel sentire che sarei partita. E io nel sentirlo ridere ancora fino a tardi quando per me era scattato il coprifuoco e loro, più grandi, erano rimasti fuori. 

Quando mi chiedono se vorrei tornare indietro a quando ero adolescente ripenso a quei piedi e a me che li guardavo e mi ripeto che no, per niente al mondo vorrei sentirmi più così inadatta alla vita, così indifesa e in difficoltà. No, per niente al mondo. Nemmeno sapendo. Nemmeno per sentirlo ridere ancora. Io non so se voi ve la ricordate quell'età. Io ancora me la porto dietro.

27.4.21

Sottile

 Perfettamente confusa.



Sottile ritorna il pensiero, il legame, l'immagine della tua pelle. S'insinua. Non è, come non è mai stato, ma torna. L'idea di una possibilità, l'idea di poggiare la schiena alla tua e respirare su un prato.

Annebbiata, come ricordi in una vecchia pellicola. Non c'è. L'odore del tuo collo. Un gesto. Nessuno.

Ché quel che stringo mi soffoca. Quel che mi stringe mi mostra chi sono. Lo specchio, il rifugio nella carne, il dolore come d'aver perso la rotta. E i pensieri, e un amante perduto e quei ricordi lontani. Niente è stato vero, niente lo è troppo a lungo quando non sei, o non sai di essere.

Ho vissuto un sogno, più d'uno, in cui ero Regina di un castello lontano e il mio Re tornava dalla guerra con cavalieri e omaggi, e omaggio di cavalieri ma poi riandavo alla finestra e i cavalli s'allontanavano e io restavo avvolta e sola in un drappo colmo di tramonti. E lacrime, e ferite sul corpo che non si vedono.

I miei lacci recisi, ma la mente corre e non è a te che viene se deve venire. Va. Una maschera da indossare prima che qualcosa inizi davvero. La paura. Il bisogno. Quel disagio. Il desiderio di sparire, di non essere più, di non perdere il controllo. Il desiderio più forte, e gli occhi chiusi.

Domande, parole, la storia che prende un contorno oscuro. La mia vita che com'era è finita. La mia vita che non so più com'è. Ma grida.

Basta. Basta. Basta. Amami. Non farlo mai più. Non costringere il mio cuore a odiarti, non distruggere l'idea. Scioglimi.

Ed ecco, vedi, che in tutto questo non c'è il tuo nome ma mille altre cose e comunque allungo la mia mano per cercare la tua e sanguino perché non sei. Non sei, non sono, non c'è niente qui addosso. È solo tutto qua dentro e pieno di mille parole e sorrisi. Tra cent'anni sarai un filo nei miei capelli lunghi, tu resterai sottile. Sul mio corpo tutto senza esserci mai.

Amami. Non così, amami. Io sto guarendo le ferite che non sai d'avermi fatto, le ferite che mille dita affilate han fatto sanguinare prima che tu fossi in me. E ora, ora che so chi sono ho bisogno che tu sia. Ora che deliro e che non sei tu il fantasma cui mi rivolgo, ecco, vorrei carezzare le tue mani e non baciarti mai, vorrei incontrare i tuoi occhi e il tuo sorriso lontano ancora una volta prima di andare. 

Non voglio andare. Non esisto. Sono.

25.4.21

Uguale e diversa

 


In un paio di giorni, questa settimana, ho completato la stesura di "Lucio".

Si tratta dello spin-off de "Il gioco dei vampiri", romanzo che ho pubblicato l'anno scorso e che mi ha dato alcune soddisfazioni e qualche critica ma che ha rappresentato per me più di quanto immaginassi.

Mi è stato detto che era troppo hard, che avevo esagerato, che davvero rasentava il porno ma il divertimento provato a scrivere completamente libera da limiti è stato enorme e mi ha riportata alla scrittura come amavo farla.

In questi anni a leggere mille post su come si scrive, su cosa si deve scrivere, su come si costruisce una storia, su come si fa a crearsi un pubblico etc., devo dire che mi era passata la voglia. Ché, se tutto deve essere studiato e costruito non c'è più spazio per l'immaginazione e io quella ce l'ho a pacchi. Mi è sempre pesato il fatto di metterle dei limiti e sapere che non avrei avuto alcuno spazio in quel mondo senza saper costruire a tavolino qualcosa mi ha bloccata.

Come chi mi segue sa, non avevo intenzione di pubblicare "Il gioco dei vampiri" inizialmente. Sì, era un progetto di racconti erotici in serie, con gli stessi protagonisti ma da dosare un po' alla volta se ritenevo fosse il caso. Poi il mio editore ha ceduto e i nuovi proprietari hanno messo limiti diversi e alla fine hanno chiuso la casa editrice per favorire la loro attività principale, quindi per tutto il mio progetto non c'era stato spazio né luogo adatto. L'idea di mettere tutto insieme mi è venuta più tardi e in effetti mi rendo conto che il risultato è stato più piccante del previsto e che la maggior parte della storia è concentrata sul sesso - perché in ogni episodio ne avevo inserita una scena e ho continuato a farlo anche quando ho unito i pezzi - ma io che sono la mamma vedo la cosa in modo differente. Così ho fatto del self e ho pubblicato il romanzo tra un lockdown e l'altro. Non ho fatto grande pubblicità come al solito ma le mie copie le ho vendute e il romanzo è lì per chi lo vuole.


Un paio di persone che lo hanno letto, comunque, sono andate oltre alle scene piccanti e mi hanno confessato di aver amato Lucio in modo particolare, come era già successo con Vittorio ne "Gli attimi in cui Dio è musica". Per quest'ultimo, dietro consiglio del primo editore, avevo creato un racconto apposta che era gratuito su Amazon e piattaforme varie e che finché è stato gratuito ha avuto un gran numero di download, per essere. Ora non è più così e siccome la formula dello spin-off mi è sempre piaciuta ho pensato di fare lo stesso con Lucio, che da ora è disponibile su Wattpad. I mezzi cambiano, le opportunità pure. 

Diversamente dal romanzo, lo spin-off su Lucio non contiene grandi ammucchiate e sesso estremo. Racconta una parte della sua storia che non avevo affrontato nel romanzo e allo stesso tempo rende l'aspetto profondamente umano di Lucio, che umano non è.

Io sono molto affezionata a lui e avrei voluto scrivere e scrivere, e scrivere ancora di lui ma non è il momento e mi accontento di questo racconto di una dozzina di pagine. Se qualcuno di voi che state leggendo ci incappa, spero che ne approfitti per dargli un'opportunità. Lucio è speciale.


Nell'ultimo anno sono cambiata, come tutti.

Non so se sarei ancora in grado di scrivere un erotico, non come "Il gioco", però mi ha insegnato tanto sulla libertà, su cosa amo fare, su come dentro a qualsiasi storia ci siano tantissimi livelli da scoprire e questo influirà su come scriverò in futuro. Uno dei complimenti migliori, fatti da una persona che so essere molto critica è stato che il romanzo è "ben scritto". Era quello che volevo, perché so che i miei contenuti non sempre sono ben accolti - peccato, però è così - ma una volta che il romanzo è scritto bene pure il contenuto ha un valore in più.

Sono la stessa, sicuro, ma sono diversa dalla me dell'anno scorso. E ancora lo sarò.

9.3.21

In loving memory 1: V.

 V. era un sempliciotto.

Carino, capelli neri, bel sorriso. 


Faceva l'aiuto cuoco in un buon ristorante del paese vicino ed era per alcune un buon partito. Lui, diciamo, "partiva" volentieri qui e là come succede ai ragazzi di provincia una volta presa la patente e un'auto di seconda mano. 

Conosceva ogni bar a cinque paesi di distanza e tutte le stradine sterrate con scarso passaggio. Conosceva abbastanza bene quasi tutte le cameriere della zona, anche, e loro spesso conoscevano lui. Che non era una cima ma ci sapeva fare. Gli devo un paio di prime volte, che a pensarci mi fa tenerezza. 

Non era una cima, no. Sapeva però che più in là di tanto non avrebbe mai potuto andare a meno che non gli fosse capitata una gran botta di culo, e la cercava. In questo era caparbio, non si accontentava pur facendo buon viso a cattivo gioco. 

Un giorno mi ha anche dato un anello, pensando di farmi felice. Non avrebbe mai potuto farlo. Però sapeva cucinare. 




18.2.21

Un brindisi a te

Non c'è mai stato un giorno facile con te.

Nemmeno uno, nemmeno quando mi sono impegnata davvero.

Eppure ti ho amato tanto, e ti amo ancora anche se non so quanto. 

Come in molte relazioni sfasate non riesco a capire se il mio amore lo devo al fatto che da te non avrò mai niente in cambio o se è perché mi fai sentire inadeguata molto spesso e adoro farmi male. 

Non so se devo insistere.

Non so perché dovrei. So che in sei anni ho ricominciato da capo più volte mettendomi in gioco senza mai lamentarmi. 

Ho incontrato tantissime persone che altrimenti non avrei conosciuto, grazie a te. Alcune le ho perse di vista, altre inaspettatamente mi hanno accolta nel loro cuore e confortata nei momenti più brutti. 

So che con te ho sognato di volare, so che con te l'ho fatto. So che ho osato, che ho cercato di raccontare chi sono e che a un certo punto non ho più avuto le parole. Non le ho ancora.

Ho solo una collezione di false partenze, di tentativi non riusciti, di idee mai completate.

E la sensazione che con te non devo mollare, non stavolta. 

Quando ero giovane avevo una passione simile, un fuoco sacro che mi guidava. Un dolore l'ha spento e io ho smesso di vivere. Ora no, ora non posso. Ho poco tempo e ho voglia di vivere.

Voglio decidere in che modo. Voglio capire chi sono. Voglio scegliere che posto hai.

Voglio amarti davvero o smettere di farlo, davvero.



12.2.21

Questa non è più camera mia - parte seconda

 Da quasi sette giorni il mio cane non c'è più.





Ho dedicato a lei tutto il mio spazio e il mio tempo, ultimamente, ché da dicembre è peggiorata sempre più e non potevo in cuor mio far niente di diverso. Ha lasciato una voragine nella mia vita e una scia di sofferenza - e sangue - che ancora non ho metabolizzato. Gli ultimi due anni sono stati suoi, e la mia esistenza tutta scandita dai suoi ritmi e bisogni. Ora devo ricominciare e tutto sta a me.

Qualche tempo fa - all'inizio del secondo periodo di chiusure - ho cambiato il sottotitolo del blog come accade ogni volta che io cambio; non era chiarissimo allora, o meglio c'erano frammenti di me che "galleggiavano" nell'aria, qualche certezza e qualche dubbio e alcune cose ora sono più chiare.

C'era, da quando siamo tornati a un'apparente normalità a maggio, la sensazione di essere fuori luogo.

Non più come nella mia crisi di identità "polistica" rispetto al mio essere anomala e outsider anche in un ambiente così variopinto e ricco. Non una cosa che riguarda il fisico e l'inadeguatezza vera o presunta. 

La sensazione chiara e definita di non essere "a casa".

Ora che per necessità devo riorganizzare una vita da capo, la sensazione è ancora più forte e intensa e risente non solo della stanchezza accumulata giorno dopo giorno da maggio, ma anche della rabbia che alcune situazioni mi provocano sempre più. Ci sono luoghi e "posti" in cui mi sentivo a casa che in questo momento sono distanti anni luce da me. C'è una parte di me che è sempre rimasta sotto l'involucro che ho costruito e che ho tenuto nascosta ma che so che è vera e deve respirare.

Se qualcosa è stato ogni giorno più evidente, da maggio a ora, è che io non faccio parte di un qualcosa che pensavo esistere. Non credo sia cambiato, in realtà. Ero io a percepirmi parte di esso perché "nominalmente compresa" senza capire che alcuni legami o ci sono o non ci sono - con luoghi e persone - indipendentemente dal nome sul citofono. Non è così semplice rendere l'idea. Un po' come quella chat di gruppo di cui attendevo ogni singolo messaggio perché illusa di condividere qualcosa in più di due chiacchiere. Come un gruppo o pagina Facebook che invece di crearmi stimoli come prometteva è diventata fonte di disagio privandomi pian piano di un piacere che un tempo avevo. Come la critica costante e la svalutazione passate per "insegnamento". O i regali fatti per convenienza, o per senso di colpa. Come il social stesso che ormai mi lascia con l'amaro in bocca per la cattiveria sfogata malamente come per l'eccesso di sorrisi e di presenze finto-motivazionali di venditori di illusioni. Come quei gruppi di amici che amici non sono, come quei parenti che non vedi mai ma si offendono se non li inviti al matrimonio.  

E non è che questa realtà fosse piacevole manco prima ma nell'illusione di farne parte io ho perso parte di me, ho fatto compromessi, mi sono fatta "maltrattare", ho lasciato che mi ferissero e mi spegnessero. Invece non faccio parte di un bel niente, lo spazio in questa grande casa su cui c'è scritto il mio nome è fasullo. Io sono altrove. Io non ci sono. Io ero già via. Questa non è mai stata davvero camera mia. 

Io sono altro.

Ok, quell'angolo di casa dietro al velo era già lì. Sono io che non gli ho dato luce. 

Il mio desiderio ora è solo di tornare a vivere in quello spazio perché sono stanca di essere spenta.

22.1.21

Confessioni di una mente poco geniale

 A quasi 49 anni ho fatto il mio primo - e probabilmente ultimo - Pole Theatre.


L'ho fatto poco convinta, è vero. Ho mandato il video entry come avevo già fatto per altre gare, ma ho mandato il video fatto al cellulare da una mia amica del saggio di Natale quasi del tutto improvvisato e ripreso in un bad angle assoluto. Ho fatto il meno possibile per partecipare eppure mi hanno scelta. A quel punto non potevo più tirarmi indietro, così ho dovuto partecipare. 

Nel bel mezzo di una crisi, tra l'altro, in cui niente di ciò che facevo mi piaceva più. Non come ballavo, non come mi vedevo, non ciò che scrivevo. L'idea per la coreografia mi è venuta subito, comunque, come accadeva ancora all'epoca. Idea, brano, costume, qualche combinazione di passi...


Contrariamente al mio solito ho anche fatto qualche prova, pur saltando quasi sempre una parte della coreografia con l'idea di perfezionarla all'ultimo momento. Per due motivi, soprattutto: paura e vergogna. Bizzarro, perché la parte più difficile mi era venuta al primo colpo alla prima prova - anche se non era perfetta - e con un buon numero di prove avrei fatto quel trick a occhi chiusi e invece no, alla fine non l'ho nemmeno tentato; l'idea di provare davanti alle mie compagne mi provocava un tale disagio che ho preferito cazzeggiare, come sempre, aspettando i pochi momenti in cui ero sola per provare qualcosa. 

Non sono forte, non ho una gran resistenza e la mia flessibilità rasenta il livello "tronco centenario". Avrei dovuto allenarmi meglio, chiedere aiuto a Natalya (la mia insegnante, il capo) e rischiare di sentirmi prendere a male parole, di faticare oltre ogni mio limite e di dover cambiare tutto, proprio tutto, della mia coreografia. Avrei dovuto affrontare la gara veramente. Perché ho mille difetti e non sono una poler eccezionale ma non sono malaccio, solo non mi impegno. 

Ho fatto il mio primo Pole Theatre a quasi 49 anni.


A dispetto dell'età e della mia cazzonaggine estrema sono stata selezionata per farlo, tra decine di persone. Avrei dovuto avere un minimo di maturità in più. Invece, per paura e vergogna che erano frutto della mia crisi non solo non ho affrontato la cosa seriamente ma ho ulteriormente peggiorato la mia autostima facendo di tutto per arrivare ultima. Non che la classifica sia veramente il punto: probabilmente sarei arrivata ultima anche impegnandomi di più, ma almeno ci avrei provato. Davvero.

Su quel palco, alla fine, dopo aver perso la presa di ginocchio sul fisso - ed evitato il trick incriminato - ho dovuto improvvisare quasi tutta la coreografia, con le braccia che tremavano per lo sforzo e per la paura di cadere, arrivando alla parte finale talmente stanca da scegliere di non fare l'ultima spaccata, che certo non avrebbe salvato la gara ma il mio benessere psicologico sì.

Ho fatto il mio Pole Theatre a un mese dai 49. C'è gente con la metà dei miei anni che ci ha provato e dall'Australia hanno scelto me col mio video sghembo. Posso pensare che mi abbiano scelta perché in fondo ci vuole qualcuno che arrivi ultimo, ma non so se è questa la storia che mi voglio raccontare.




18.1.21

Riflessioni sparse in un campo minato

 Prima di ogni altra cosa voglio dire che lo so che sono fortunata.

Ho una casa, innanzitutto. Ho la possibilità di contattare gli affetti tramite web e telefono, anche se vivo sola. Ho un lavoro che nonostante i due mesi di cassa integrazione della primavera scorsa - i cui soldi sono arrivati con la calma e la lentezza di un bradipo in letargo, posto che vadano in letargo ma rende bene l'idea - ha ripreso a girare non senza fatica. Quella che era stata la preoccupazione principale del primo periodo di chiusure forzate ha lasciato il posto ad altre, forse meno immediate ma non meno importanti. 

Io non ho mai sofferto la solitudine e non è esattamente solitudine quella che ho sentito. Certo, non poter vedere la dolce metà, non poter frequentare la scuola di pole, non avere la possibilità di trascorrere una serata con le amiche di sempre o gli "amici del sabato sera" alla lunga hanno pesato sul mio umore, ma almeno all'epoca ero abbastanza sicura che le cose sarebbero cambiate. Non speravo nemmeno che tornassero come prima, e se avete frequentato questo blog lo sapete, ma dopo aver avuto lo spazio e il tempo per pensare a come avrei voluto vivere  ero decisa a iniziare a farlo.

Invece no. Da una parte perché c'era l'ansia generale di dover recuperare tutto il tempo "perduto" che ci ha fatto correre - volenti o nolenti - ancor più di prima e non concedendoci in cambio niente più di ciò che avevamo; dall'altra perché si è fatta sempre più chiara l'idea che non era finita affatto e che prima o poi sarebbe stato il momento di richiudere ogni cosa. 

Così i progetti che alla prima volta avevo iniziato a mettere in moto si sono congelati. Io mi sono bloccata. Di nuovo, e peggio.

Ci sono persone che sono abituate a pianificare, a scrivere scalette e rispettarle, a decidere con largo anticipo tutto ciò che desiderano. Io sono istintiva, come artista - se mi passate il termine - non riesco a produrre molto se non vivo. Le cose che mi ispirano arrivano spesso da "fuori": da un sorriso rubato per strada a un gesto, a una voce o un tramonto intenso, ogni istante può suggerirmi le parole per il mio prossimo romanzo o uno spunto per una coreo di pole, o la linea per un disegno. Anche solo limitare il mio sguardo sul mondo mi toglie aria al cervello.

Ma c'è di più. 

Non sono mai stata una persona con progetti a lungo termine, con obiettivi e scadenze, non mi è mai piaciuto fare programmi: mi fa sentire ingabbiata in qualcosa - anche se non è vero - senza possibilità di uscirne. Non che lo sia diventata nell'ultimo anno, ma almeno prima c'erano miliardi di possibilità ogni giorno e questa cosa io non la sento più. 

È come se mi avessero tolto la possibilità di progettare. Di alzarmi con la motivazione per fare qualcosa in più che andare a lavorare e tornare a casa già stanca. Di immaginare, svegliandomi, che la sera a pole potrei tentare questa o quella figura, chiedendo a Nat di aiutarmi o aiutando qualcuna delle mie amiche a fare qualcosa. Di chiedere a Marisa se dopo lezione le va una birretta, o un panino. Di stare fuori dalla fermata della metro a cantare le sigle dei cartoni animati anni '80, anche se non abbiamo assolutamente più l'età. Non solo, è come se con tutto il resto compresa la motivazione a scrivere si fosse spenta in un grosso "a che pro?";  come non ci fosse più niente da dire, o da immaginare, se non un infinito ripetersi di settimane al lavoro e poi casa. Come se la vita fosse già tutta lì e non mi dovessi più aspettare altro. 

E per me, dicevo, va ancora di lusso. Perché più andiamo avanti e più sento amici e conoscenti che perdono speranza e passione, e voglia di lottare ancora, perché ora sembra tutto inutile. Tutto ciò che si è fatto finora nella speranza di costruire qualcosa e tutto ciò che si desiderava aggiungere a quel progetto di vita. Perché alcune persone hanno avuto il coraggio di lanciarsi, investire, faticare e indebitarsi nella certezza di poter fare qualcosa di davvero loro e ora tutto è fermo, tutto è in bilico, tutto rischia di crollare da un momento all'altro.

Come se vivessimo cristallizzati nel tempo, senza possibilità di "fare". Di vivere. 

Ecco, io mi spavento un po' quando mi sento così vuota dentro. Se non posso nemmeno immaginare un domani, oggi è un giorno sprecato. E pur avendo in mente tante storie da scrivere, pur avendo voglia di allenarmi, pur volendo ancora creare io mi fermo, lo sguardo fisso e il pensiero assente, e non riesco a smuovermi da qui. Come se mi avessero portato via il futuro, un boccone per volta. 

Lo dico con tutto il rispetto per chi sta peggio di me e chi mi conosce sa benissimo che non sono mai stata cieca o sorda alle sofferenze altrui; lo dico con rispetto perché leggo e ho letto le vostre storie, le vostre esperienze. Lo dico sapendo che ci sono state cose terribili in questo anno. 

Ma ho paura che ce ne saranno ancora, e non direttamente legate al virus. 

6.1.21

L'analisi illogica del testo (senza testo) 14 - La forza e la magia

 Avevo già parlato, a caldo, delle mi impressioni sulla nuova trilogia - all'epoca appena iniziata - di Star Wars in un post qui.


Dopo aver visto il primo della serie J.J./Disney, ho evitato di spendere i soldi per andare al cinema e mi sono accontentata della versione in dvd appena reperibile a un buon prezzo. Il secondo, e dopo qualche tempo infine il terzo. Quello che forse concluderà la storia. Quello che, forse, salva l'ultima trilogia.


Per i ragazzi della mia generazione, per una buona parte di essi almeno, la saga di Guerre stellari ha rappresentato molto. Non solo a livello tecnico, ché all'epoca non eravamo tutti in grado di capire la magia del cinema e degli effetti speciali, ma anche per un modo di intendere la narrazione e il sogno, la sospensione dell'incredulità più totale cui avessimo assistito fino a quel momento, la meraviglia, la spiritualità un po' spiccia ma intensa che conteneva. Per me, bambina, è stato davvero un colpo di fulmine. Immagino che lo stesso effetto lo abbia avuto Matrix, qualche annetto dopo.

Non del tutto priva di difetti e incongruenze, già dall'inizio la prima saga  aveva il pregio di farle dimenticare tutte. Certo, a risentirle ora le mille ripetizioni di "c'è un conflitto in te" fanno quasi venire l'orticaria. Chi di noi non vive un costante conflitto tra "bene" e "male"? Tra ciò che ci piacerebbe e ciò che dobbiamo fare? Nei sentimenti che proviamo quotidianamente? Insomma, se sei il prescelto in una cavolo di guerra per salvare la galassia, vorrai mica scamparti la maledetta crisi di coscienza? Il problema di sentirlo ripetere millemila volte in nove film è più che altro un rischio di scadere in una semplice e ridicola macchietta. In questo, almeno, l'ultima serie ha un minimo di autoironia che strizza l'occhio al pubblico più giovane che sicuramente risente meno dell'effetto nostalgia e prende meno sul serio il percorso di un Jedi* - qui sbrigato in un paio di allenamenti nella foresta e nel tentativo di incontrare i fantasmi dei maestri miseramente fallito fino quasi alla fine. 

Da fan della vecchia guardia mi sono spesso domandata - e già lo accennavo nel post linkato sopra - perché, con tutte le possibilità che un universo così immenso potevano offrire (e che invece in qualche modo sta cercando di sfruttare George Lucas con gli spin off), perché offrire una ripetizione aggiornata della prima trilogia ricorrendo anche al fantomatico Imperatore di sempre se non per attirare noialtri anziani appassionati? Perché tra la prima e l'ultima continuano a esserci troppe somiglianze tanto da renderle quasi uguali nonostante le apparenze. 

Unico tratto distintivo - a parte l'autoironia che nella prima trilogia era dote del contrabbandiere Solo - è la faccenda del legame tra Rey e Ben, che invece di essere gemelli di nascita sono, diciamo "gemelli nella forza", cosa che come altri spunti interessanti viene liquidata con l'utilizzo dei suddetti come batteria vitale. E, al netto di mille ammiccamenti, la mancanza di una storia d'amore (nuova).

E questo trono?



E il novello quasi cattivo Kylo Ren che al pari di suo nonno è perennemente imbronciato e altrettanto capriccioso e infantile pur  nascondendo così un enorme ego da bambino ferito, utilissimo per lasciare aperta la porta al lato oscuro ma alquanto ridicolo a vedersi?

In quanto al titolo dell'ultimo episodio, che dire? Perché "l'ascesa di Skywalker" quando il solo e unico Skywalker è sempre Luke? E se era inteso come famiglia, perché non "degli"? 


Ma, diciamolo, forse io sono invecchiata.

Forse col meccanismo del prescelto, con il percorso spirituale che non è uguale per tutti, con il conflitto padre-figlio e con quello col maestro, con la lotta tra il bene e il male, con l'ambivalenza dei protagonisti (mai del tutto buoni,  mai del tutto cattivi), con le storie d'amore mal riuscite (mai dichiarate o mai vissute) e con tutte le trappole narrative tra archetipi, cliché e varie... beh, forse ci ho già fatto i conti abbastanza. 

Sull'estetica dei personaggi non vorrei dilungarmi, da tempo trovo brutti gli attori che altri trovano bellissimi e alla fine non è più importante (visto che per me IV, V e VI restano l'unica vera trilogia) perché la bellezza, in fondo, poco ha a che fare con la bravura. 


Quindi che dire? Continuo a pensare che la Forza non sia protagonista di questa trilogia come sembrava essere nella prima, penso comunque che la magia del cinema, sebbene sia difficile che io guardi un film con lo stupore di quella prima volta, la si può percepire e che quindi alla fine - anche per amore - la trilogia la salvo. Sperando che sia l'ultima, ché la prossima volta sarò troppo vecchia per fare una critica intelligente.




*Sul percorso di un Jedi, come sull'attuale scarsa resistenza a tutto ciò che non è immediatamente "godibile", sulla civiltà del "tutto e subito" e del divertimento a tutti i costi ci sarebbe da fare un discorso assai più lungo; se nella prima trilogia l'addestramento di Luke aveva preso quasi tutto il secondo episodio, il successivo - in ordine di uscita - di Anakin era già stato quasi del tutto saltato, ora è davvero inesistente un po' perché Rey sa già tutto (a questo punto poteva essere autogenerata come Anakin in versione 2.0) e un po' perché a uno spettatore giovane la cosa sarebbe di certo sembrata noiosa...