4.5.21

Piedi

 Un giorno mi sono innamorata di un paio di piedi. 

Sì, lo so che viaggiano quasi sempre in due e che di solito c'è attaccata una persona ma il ricordo nitido che ho del nostro primo incontro è la visione di due piedi abbronzati sul pavimento verde smeraldo della casa dei miei cugini all'Elba (posto che fosse verde, è passato del tempo, i piedi comunque erano abbronzati e bellissimi). 



Dico dei piedi perché quel mattino di Luglio ero uscita dalla cameretta in cui stavo rintanata per il trambusto che avevo sentito, ché io in realtà non volevo tanto uscire dalla stanza ed ero ancora in pigiama e decisamente non presentabile. Però c'era casino e questo voleva dire che i miei due cugini stavano già combinando qualcosa e davvero non volevo perdermi nulla, visto che lì non ci andavo da secoli e che avevo preso quella vacanza un po' come un castigo. Insomma, dal frastuono sembrava che ci fosse finalmente da fare qualcosa ed ero curiosa. Solo che non me l'aspettavo.

Ho aperto la porta e ho fatto un passo fuori in corridoio, piedi nudi e pigiama dicevo. Che poi era un vecchio pigiama del più giovane dei miei cugini ed aveva più buchi che pezzi sani ma io lo adoravo. Quindi sono uscita senza pensare e mi sono bloccata immediatamente: piedi. Abbronzati. Non erano i miei cugini, arrivati con me da sì e no due giorni e bianchi di città. Sopra ai piedi due gambe, bei polpacci, ginocchia con una morbida peluria bionda e calzoncini. E una racchetta da tennis. 

Dopo un attimo di perplessità ho alzato lo sguardo e ho trovato un sorriso che mi ha trapassata e due occhi - lo so, sono quasi sempre due, ho il vizio di specificare - tra il verde e il castano, accesi d'oro. Ho temuto di svenire, ho chiesto scusa e sono rientrata in camera prima che l'ospite potesse aprire bocca, con il cuore in gola e la sensazione di essere la ragazzina più orrenda del pianeta.


Avevo quattordici anni e tutte le paure del mondo.



I piedi di cui sopra, ho scoperto in seguito, appartenevano a tale Giuseppe R. di Milano, cugino degli amici dei miei cugini che a dirlo sembra uno scioglilingua. Studiava da geometra, nuotava benissimo e giocava a tennis strascicando il piede destro a terra quando serviva la palla tanto che aveva una scarpa distrutta. Era cotto a puntino dal sole e credo fosse orribilmente simpatico o comunque matto, che non cambia: i matti e i simpatici li ho sempre amati. E lui lo amavo, credo, con tutta la mia vergogna di ragazza timida. Da lontano, senza osare una parola, desiderando la fuga.

La mia prima storia d'amore, ovviamente fallimentare visto che non ho rimediato nemmeno un numero di telefono o qualcosa più di un paio di frasi in un momento di distrazione del resto del mondo, quando lui mi ha trovata sul tetto della darsena a cercare di rimediare almeno il colorito del pollo del girarrosto. Solo due frasi, quel paio di domande che si fanno a quell'età per capire chi hai di fronte tipo "che classe fai?" con nonchalance per indovinare un'età (che a una signorina non si chiede mai) e quella roba lì un po' inutile. Che poi a pensarci bene suona meglio di un sacco di altre cose che mi son sentita chiedere più avanti, altrove e da gente meno educata.

La mia prima storia d'amore, rigorosamente platonica, il cui misero trofeo è una T-shirt bianca con scritta blu e rossa che il semidio si era strappato di dosso in un impeto di orgoglio sportivo, che aveva iniziato a distruggersi perché un po' troppo tesa su quel fisico da urlo. E la spiegazione della differenza tra "parce que" e "pourquoi" fatta da lui mentre giocava, che è stata la prima e ultima lezione di francese che ho ascoltato. E il ricordo di una gita in gommone, in cui lui aveva cercato di attaccare nuovamente bottone ma il cugino premuroso - mio, ovvio - si era precipitato a dire che non sapevo nuotare prima che io compissi l'irreparabile gesto di fare il bagno al largo insieme a loro. Ê stato bellissimo vederli tuffare dagli scogli e nuotare nell'acqua limpida restando a beccheggiare sotto il sole da sola tutto il tempo. Davvero, quelle cose romantiche che non ti scordi mai. Infatti son qui che le scrivo.


E la sua fine ai primi di agosto quando, ormai disperata perché incapace (inguardabile, inadeguata, piccola, femmina, talmente timida da guardargli sempre e solo i piedi per due settimane), ho chiesto di poter tornare a casa, a Torino. Per chiudermi in una depressione senza fine in cui ripassare mentalmente tutte le occasioni perdute. Ultima delle quali un meraviglioso pigiama party sui bordi della spiaggia, a fine giardino, i Dire Straits di sottofondo, Giuseppe in pigiama corto ceruleo, loro che giocavano a tennis al buio (sì, c'era la luna) e una punta di dispiacere nel sentire che sarei partita. E io nel sentirlo ridere ancora fino a tardi quando per me era scattato il coprifuoco e loro, più grandi, erano rimasti fuori. 

Quando mi chiedono se vorrei tornare indietro a quando ero adolescente ripenso a quei piedi e a me che li guardavo e mi ripeto che no, per niente al mondo vorrei sentirmi più così inadatta alla vita, così indifesa e in difficoltà. No, per niente al mondo. Nemmeno sapendo. Nemmeno per sentirlo ridere ancora. Io non so se voi ve la ricordate quell'età. Io ancora me la porto dietro.

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