18.11.16

Nebbia


Ci sono punti, nel nulla, che non ricordavo. È da tanto che non viaggio in treno. Mi ero dimenticata delle distese velate dell’inverno. Quei colori appassiti, il gelo sugli arbusti che costeggiano i binari. Gli strati sovrapposti di alberi sempre più sbiaditi.


Un tempo era il mio mondo, un paio di ore al giorno. Diverso, sì, ma sempre uguale.
La ultima volta che ho raggiunto Modena in treno ero quasi bambina, quasi adulta. Andavo a trovare mio padre, che allora ci viveva. Il “Treccia Bianca” non lo avevano ancora inventato e la giornata mi era sembrata lunghissima tra una stazione e l’altra. Potevo contare solo su un piccolo walkman, un paio di nastri nella borsa. Bagaglio leggero, anche allora.

In quel viaggio, come forse accade a ogni viaggio che si fa da soli, mi era sembrato di ricominciare. Cosa, non saprei. In definitiva la mia vita era un disastro. Avevo smesso di ballare, il mio unico sogno, avevo lasciato un fidanzato psicopatico, speravo di essere uscita da un tunnel da cui, invece, non ero uscita. Perché le cose non sono mai come sembrano.
Mio fratello era piccolo, ricordo di aver scritto poesie mentre lui dormiva nella stanza accanto alla mia, sentendo il suo respiro nel silenzio della notte fuori città. Avevamo girato il centro a piedi, era freddo anche allora, e in un negozio lì avevo comprato una gonna pantalone che ho amato per anni e una casacca tutta bottoni e sonagli che mi ha accompagnata in decine di serate in discoteca.

Anche allora avevo indosso degli stivali. Erano i “camperos” di Mara, neri e a punta leggermente squadrata. Li aveva lasciati a casa mia, li ho usati – come il suo pigiama e altri capi, come lei ha tenuto e usato i miei – per almeno un anno prima di incontrarla ancora. Usavamo così, tra noi. Non c’era un gran concetto di proprietà; ci si scambiava un po’ tutto. A volte troppo. Ma con le amiche si fa così.

È buffo come la nebbia stimoli i pensieri. Forse l’assenza di cose “vere” da guardare induce ad approfondire altrove. Ombre di case e alberi, cavi che corrono e si perdono nel vuoto. Dettagli più nitidi che richiamano a uno squallore tutto umano. Cartacce, rifiuti, bidoni, tutto dove esistono insediamenti umani è più triste ancora della nebbia.

Questa volta sono qui per altri motivi. La danza c’entra ancora. Non del tutto mia, o almeno solo in parte. Io vengo a imparare e a guardare Valentina. Che è così simile a quel che ero, che potevo essere un tempo, che non mi sono data il modo di diventare. Bella e fragile, in quel senso buono degli artisti, perfezionista e insicura. Perché alla fine se si vuole la perfezione non si può  essere sicuri. Non c’è mai quella certezza. E se c’è, è spavalderia bella e buona. Ma non è il suo caso.

E sono ancora io, nella nebbia, persa tra un ricordo e un rimpianto. Come se dopo questo viaggio in treno cambiasse la vita, come allora, mentre invece non cambia – se non impercettibilmente, se non come deve essere, col tempo suo – non ricomincia. Va solo avanti. Dritta sui suoi binari.
Biglietto pagato, ci si siede e si guarda fuori. Fino alla meta.

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