29.3.20

Comunicare, vincere...

Ricevo stamattina una newsletter cui sono abbonata.
Ne scorro il testo, salto tutti i link cui mi rimanda e chiudo.
Mi rendo conto che, se già da tempo ho qualche problema con le "comunicazioni importanti" che tentano di vendermi qualcosa o di istruirmi a seguire il loro metodo per essere vincente.
Io non voglio essere vincente, questo è chiaro a chiunque mi frequenti.

Poi ripenso alla mail.
Comincia con una sorta di aggiornamento sulla situazione riguardo al virus, come per mettere in evidenza l'empatia dell'autore e farmi sentire che anche lui è qui. Coinvolto, presente e attento. Tre righe dopo mi scrive dell'argomento della newsletter e mi sottolinea più volte quanto sia importante quello che mi sta dicendo, ma io sono ancora disturbata dalle prime righe.
Mi torna subito in mente un post di "Talento e felicità", un team di persone che conosco bene e che si occupano di consulenze di carriera  (se volete seguirle su Instagram), in cui si parla di parole di plastica, ovvero quelle parole e quei modi di comunicare che sono diventati uno standard e che non necessariamente comunicano qualcosa. La formalità, la forma invece della sostanza.
Quello che mi ha sempre dato fastidio, come con le pubblicità, è questo tentativo di coinvolgere le mie viscere per farmi agire secondo un fine. Ora capisco che sia normale, se vuoi vendermi un prodotto, che tu me lo faccia percepire come assolutamente necessario. Altrimenti potrei non desiderarlo, ovvio. Capisco anche che ci siano studi approfonditi su come arrivare a questo scopo e che sia uso comune in politica, in pubblicità, sui social; siamo esposti ogni giorno a questo modo di comunicare e spesso cerchiamo di usarlo anche noi per "venderci".



No, non che io mi venda. Ma ho una pagina Facebook pubblica in cui promuovo i miei libri (ma non solo) e certe volte mi chiedo se dovrei adeguarmi anche io al sistema. Cioè, io vorrei vendere libri ma non mi piace affatto l'idea di dover usare come paravento la situazione emotiva di chi mi legge.
Ognuno di noi ha dei problemi, ognuno affronta ogni giorno delle difficoltà, che siano personali, di lavoro, di relazione, di soldi, di desideri irrealizzati, di frustrazione per non essere chi si vorrebbe.
Quando si vive una situazione che fa sentire a disagio è normale diventare vulnerabili ed è su questo che molta della comunicazione attuale si fonda. Farci avere paura, farci crescere un bisogno, farci seguire il loro modello per tenerci buoni. Funziona così da sempre.

Il gioco del mondo è creare uno status, scatenare una crisi per innescare il panico, ristabilire uno status simile al precedente ma con maggiori vantaggi per sé, aspettando che il panico diventi dolore, perché nessuno ama il dolore.

Questo lo pensavo cinque anni fa. All'epoca era dovuto a una lite con risvolto psicologico - io tendo a frequentare manipolatori, sto cercando di smettere e il primo passo è sempre e fondamentalmente accorgersi del meccanismo - ma, appena formulato il pensiero, mi è sembrato applicabile alla realtà del nostro mondo.
Così è ovvio che tutti gli spot urlati "contro" chi ci sta togliendo il poco che abbiamo (ma davvero abbiamo così poco?), contro chi minaccia il nostro status, contro chi o cosa non importa basta che sia  un "altro da noi"; tutti questi spot io li patisco. Mi fanno rabbia, certo, ma più verso chi li fa che verso le persone cui sono rivolti. Ovvio anche che mi faccia rabbia vedere molti seguire questo schema per paura di perdere qualcosa. Perché, e siamo alle solite, è troppo facile guardare fuori da sé e trovare il nemico.
Non nego che, nel momento in cui sono partite le attuali restrizioni, io abbia pensato a un tentativo di scatenare una crisi generale per poi trarne vantaggio. Probabilmente è anche così. Il Dio Denaro continua a governarci e trovarci tutti con le pezze al culo non farà che farci adeguare a lavorare anche di più per meno soldi di prima - perché non ci sono, dicono, quando in realtà ci sono sempre delle soluzioni - o impedirci di vivere "come prima", come se prima vivessimo bene e non strozzati da un giogo che ci impedisce di realizzarci.

Cosa c'entra con la newsletter?
Ecco, è il modo. Questo volermi convincere che si è preoccupati per la situazione prima di ogni cosa. Probabilmente è così che ti insegnano nelle scuole di web marketing. Non ne ho frequentate ma, visto che lo schema sembra sempre lo stesso in qualsiasi contenuto volto a farmi acquistare un bene o un prodotto, anche qui mi è sembrato "vuoto".
Se sono iscritta alla tua newsletter è perché mi interessa conoscere i tuoi contenuti, non farmi aggiornare da te sulla salute del mondo. Per questo esisterebbero i giornali o i canali specifici che (stendiamo un velo anche qui) dovrebbero informarmi senza cercare di vendermi alcunché - nemmeno una visione del mondo. Allora se mi vuoi sembrare più umano, o almeno più normale, lascia che siano loro a occuparsi del virus; lascia che io mi informi come e dove desidero senza cercare di farmi vedere che sei umano, Stai facendo il tuo lavoro: la newsletter mi serve per essere aggiornata rispetto a quello. Che tu sia profondamente colpito dalla situazione di paese non mi riguarda e se ti pare puoi condividerla con chi hai accanto materialmente.
Se mi sono iscritta alla tua newsletter è perché mi interessa la tua competenza, poi spero anche che tu sia umano ma non è da tre righe in una mail che me lo dimostri. Le parole sono importanti (cit.), mi piacerebbe che fossero usate meglio anche da chi mi circonda.
Perché sono stufa di essere trattata come una stupida, qui come altrove; sentirmi dire di cosa ho bisogno e cosa mi farebbe bene, sentirmi raccontare quanto sono bravi loro a fare qualsiasi cosa - compreso l'essere umani - e farmi mettere nella posizione di obbedire al diktat perché altrimenti non vinco.

Sapete che c'è? Io non vinco, non me ne frega niente. 

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