14.8.14

Mamme di carta, libri che parlano di loro e noi, noi che le mettiamo nei libri...

Nelle mie ricerche per il racconto che sto scrivendo sono tornata al 2010 e di rimando a mia madre. Non solo per una ovvia coincidenza di date, ma anche perché lei circola un po' ovunque in questo periodo o sempre. Che ne so. Mamma è il mio dna, anche. Quindi difficile vivere senza.
Leggevo in una serie di post sul blog di un attento lettore (Pippo Russo, che potete leggere qui, qui, qui, qui a proposito di un libro che ama, la cui copertina è giusto qui sotto)  e critico della parola scritta, di quanto alcuni personaggi dei romanzi ci riportino indiscutibilmente a casa, alle nostre mamme e a ciò che ci hanno inciso dentro nel bene e nel male. Se non alla nostra, comunque a un'idea di madre che ci lascia il segno come solo una mamma può fare. Con i suoi segreti e con la sua vita.


Il romanzo di cui parla lui non l'ho ancora letto, ma l'ho ricevuto come regalo di compleanno e lo leggerò presto. Non è questo il punto fondamentale. Sta di fatto che tra le sue considerazioni e una serie di altri pensieri, iniziata quando il primo giorno di vacanza ho visto un quadrifoglio nel pezzo di verde dove porto il cane a fare i suoi bisogni ultimamente, il pensiero è andato spesso a mamma e al mio rapporto con lei.
L'anno in cui ho perso mia madre ho raccolto un numero impressionante di quadrifogli, tanto da farmi pensare a una svolta positiva in arrivo. Ne ho raccolti oltre 45, prima dell'estate, e mi chiedevo se per caso fossero mutazioni dovute a radiazioni di qualche tipo. Ne ho regalati, ne ho conservati ovunque e ne ho usati 36 per un quadro.
Inevitabile che il pensiero, che come sempre fa tutti i suoi giri strani, sia finito proprio a lei.
Io adoravo mia madre, e la detestavo contemporaneamente. Ne abbiamo passate tante, troppe, insieme. Cose che legano e che dividono, parole non dette, azioni non ponderate e con conseguenze importanti. Per tutti quelli che l'hanno conosciuta, mia madre era una donna eccezionale. Lo era, a modo suo. Una donna difficile, dura con se stessa e con gli altri ma estremamente fragile. Rigida e ferma sulle sue cose per poi fare errori clamorosi che hanno coinvolto tutta la famiglia. Forse per amore. Ma non l'avrebbe mai ammesso, non lei. Lei faceva tutto da sola e non aveva bisogno di nessuno. Questo si raccontava e a questo cercava di educarmi.
Così sono cresciuta pensando che mia madre fosse una specie di amazzone in lotta perenne con il mondo, capace di fare ogni cosa e di farla meglio di chiunque altro, maschi compresi. Una donna che per principio avrebbe smosso montagne solo per dimostrare di avere ragione. La mia migliore amica, pure, ha ancora oggi un'immagine di mia madre che conferma quello che provavo. Mia madre era la mia e la sua eroina. Finché non ho scoperto che era umana e che sbagliava e l'ho scoperto pagando per i suoi errori insieme a lei quando ancora non ero abbastanza grande per pretendere spiegazioni - o forse sono sempre stata troppo educata per chiedere sapendo di ferirla.

Se torno alle mie letture passate, credo che quella che più si avvicina al mio rapporto con mia madre sia la storia raccontata da Janet Fitch in White Oleander. La questione non sta tanto nel conflitto madre-figlia che a un certo punto esplode - e meno male che capita, nel libro - quanto nell'influenza che la "filosofia di vita" della madre ha esercitato nella piccola Astrid facendo di lei un disastro ambulante. Il legame fortissimo tra le due, femmine sole in un mondo fuori dal mondo costruito dalla madre per dimostrare alla figlia che loro erano qualcosa di speciale e superiore, è un legame malato ed è l'unico che Astrid conosce. Finché sua madre uccide l'amante infedele e viene condannata a 35 anni di carcere. Astrid si ritrova affidata a una serie di famiglie, tutte sbagliate - davvero o per una complicità del destino che mette insieme vittime e carnefici - e deve imparare a riconoscere il mondo per quello che è, a staccarsi dall'idea materna della vita e crearsene una sua. Tutto questo tra un casino e l'altro, sparatorie, suicidi e quanto di peggio può capitare.
La ricostruzione di Astrid dopo la "caduta" della madre è lenta e faticosa ed è molto simile alla mia. Tra disgrazie di vario tipo, pur non avendo una mamma in carcere, ho costruito la mia versione del mondo. Non mi muovo nell'adorazione acritica di lei, non la incolpo di tutti i miei mali, ma vivo in una dimensione che da lei è lontana. Ammiro i suoi pregi e sto lontana dai suoi errori più che posso. E le voglio bene. E la ringrazio anche io, perché non sarei chi sono se lei non fosse stata esattamente così.

Non so se c'è qualcosa di lei nei miei personaggi. Ho scoperto che tendo ad avere protagonisti orfani o comunque soli. L'assenza dei genitori, la loro fine precoce, la scoperta di chi sono in realtà quando è tardi e sono lontani o morti, la riscoperta in età adulta di genitori sconosciuti. Solo la protagonista de "Gli attimi in cui Dio è musica" ha una madre e non un padre - come me in qualche modo, anche se un padre ce l'ho - e di conseguenza anche nei due romanzi che dovrebbero seguire se mai li scriverò. Una madre piena di problemi e umiliata, di cui in qualche modo la figlia cerca di prendersi cura e che vive solo per sopravvivere.
Ecco, forse in alcune delle protagoniste c'è quel pizzico di "amazzone" che le appartiene. Sono donne sole e forti, ma non così simili a lei. Più contorte - penso al fantahorror - o più sognatrici  - penso a quello che aveva passato le selezioni di IoScrittore - ma meno rigide e forse più confuse di lei.
E credo che ognuno di noi abbia un modo per "trasportare" la propria mamma in un altrove in cui renderla eroina. Che ognuno trovi in questo o quel personaggio di libro o di film dei piccoli pezzi di sé che riportano al proprio DNA, alle origini, all'amore...

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