13.6.23

Cometa

La canzone che avevano composto per me era orribile, almeno secondo i miei gusti.
Poi immagino che in qualche modo non sarebbe andata bene anche fosse stata meravigliosa.
Niente di testo e melodia sembrava appartenermi, ma poteva qualcosa farlo davvero? Avevo appena compiuto diciotto anni e non sapevo niente di niente anche se ero convinta del contrario.

Già dal provino improvvisato in discoteca, una sera che il loro gruppo suonava lì, poco prima dell'apertura. Mi hanno mandata sul palco e mi hanno detto canta qualcosa ma ero abituata con le basi e non al live, soprattutto ero terrorizzata.
Perché mi abbiano dato corda posso solo supporlo: prendere soldi e avere una ragazza in più in scuderia per riempire vuoti.
 
In sala d'incisione andò tutto al contrario rispetto alle previsioni: un disastro in italiano, molto meglio in inglese tanto da registrare un brano praticamente buono alla prima, fatta eccezione per i cori. 
Poi quella canzone da portare al concorso. Quel testo assurdo e quella melodia finta, non mi veniva proprio. C'era quel "ce la farò, sono sicura" che mi si strozzava in gola e tutto sembrava talmente moscio che avevo solo voglia di piangere. Nemmeno a riscriverla in inglese avrebbe funzionato.

E io sognavo il palco, la musica, le luci ma forse non ero sicura per niente a dispetto di qualsiasi aspettativa avessi creato nella mia mente e in quella degli altri. 
Quarta a un concorso invisibile, tempo e liti furibonde, e mamma non capiva che cantavo più volentieri le canzoni degli altri concorrenti, e quel fidanzato psicopatico che avevo mi tormentava ogni giorno per paura che spiccassi il volo. Ma quale volo?

Avevo esordito che nemmeno avevo diciassette anni, la voce potente ma acerba e nessuna preparazione. «Sì, brava ma non abbastanza matura,» mi aveva fatto il prezzo mio padre. E come mai avrei potuto esserlo se non ci provavo neanche?
Ma poi, provarci significava fare playback con la voce di un'altra donna truccata quasi al suo stesso modo per sostituirla a un capodanno idiota? Significava diventare marionetta? Significava perdere la fiamma?

Poi, ancora, è successo qualcosa nella mia testa e piano piano ho rifiutato tutto. Serate, spettacoli, inviti. Urlavo dentro ma non avrei più cantato. Volevo solo spegnermi e non sognare più. Non ho più saputo usare la voce.
E ne ho, ne ho ancora.

Ma non potevo. Non è la mia cosa. Non il mio talento. Però ancora sogno.
Io sto bene quando sparisco, quando non mi guarda nessuno. Sono un topo.
Un'ombra, un alito di vento nella furia prima del temporale.
Dovevo esserlo, il temporale. La mia occasione mancata numero uno: lasciarmi esplodere.

Essere.

Nessun commento: