29.6.14

Ecco che riappare la padrona di casa

Latito un po', ultimamente.
Il lavoro è tanto e mi stanca, le ricerche per articoli e varie mi portano via del tempo, quello che resta lo uso per rilassarmi e magari tentare di scrivere. Non sono molto in forma da quel punto di vista. Ho degli exploit, frasi a effetto che tendenzilamente scrivo su facebook e poi restano lì, nel dimenticatoio della bacheca, sommerse dai test e quiz più improbabili e tra una condivisione e l'altra di articoli.
Avrei voglia di scrivere a lungo, ma poi mi lascio tentare da qualsiasi cosa, letture, telefilm, giochi, e cibo. E qui ci passo ma da quando non partecipa più il mio amico Easy Runner con i suoi commenti - la pensione gli occupa bene il tempo, spero- mi sembra di parlare da sola.
Che non è vero, ma la sindrome dell'abbandono è difficile da sradicare.
Finalmente ho il mio nuovo tatuaggio, quello sì. Fatto venerdì dopo averlo tanto atteso.
Sostanzialmente, però, sono un poco annoiata. Questo lo ammetto e mi infastidisce un po'. La pace va bene, la noia che mi cade addosso dal mondo un po' meno.
Attendo l'uscita del nuovo racconto, stavolta inedito, nelle antologie del mio editore attuale. Capire se piace.Intanto ne sto scrivendo un altro, diverso. Poi vedremo.
Correggo il fantahorror in attesa di capire come riempire l'ultimo spazio vuoto, sono in pausa con il romanzo nuovo, coome ogni volta che mi sento cambiare.
Ecco, sto cambiando, ancora. E mi piace, anche se poi mi guardo attorno e ciò che vedo mi annoia.
Si è sposato mio fratello, si sono sposati amici, si è festeggiato e ora si riparte con le solite cose. In attesa delle ferie, in attesa di un poco di relax. In attesa della vita nuova che sta arrivando. Come l'inverno...

18.6.14

La settimana scorsa

Una delle attività che mi portano lontana da questo spazio è lo scrivere per Gazzetta Torino. Ero partita con l'impegno di un articolo a settimana, un impegno sostenibile che mi avrebbe lasciato lo spazio necessario a fare tutto il resto.
Poi il mio resto si è tradotto spesso in un poco sano cazzeggio in giro per le pagine di Facebook e con i suoi malefici giochini. Poi è arrivata anche l'insonnia, così abbiamo iniziato a giocare in due - l'insonnia e io - fin dopo le due di notte. Ieri anche alle tre. C'è di buono che prima o poi crollo, già lo so, e a quel punto chi s'è visto...
Avevo iniziato la settimana tranquilla, consegnato un articolo la settimana precedente mi stavo attrezzando per produrne uno nuovo quando mi è balzata all'occhio la notizia di una fantomatica Fondazione che pare abbia truffato una settantina di piccoli e medi editori in tutta Italia. (Potete leggere l'articolo qui )
Già l'umore s'è incrinato, anche perché conosco personalmente uno degli editori coinvolti finora e mi dispiace che siano sempre i piccoli a subire.
Poi un mio contatto su Facebook, su un articolo per Satisfiction, ha messo in evidenza un caso bizzarro di autoplagio da parte di uno scrittore che attualmente fa parte della cinquina dello Strega. Anche su questo caso ho scritto un articolo, come meglio potevo, tra il dubbioso e l'indignato (potete leggere il mio articolo qui, con tutti i link utili se vi interessa il caso) come molti altri bloggers/aspiranti scrittori/lettori.
Non che l'autore incriminato sia uno di quelli che leggo, ma la faccenda mi ha dato da pensare. Insomma, se ti copi pezzi interi di romanzo da un libro all'altro con cambiamenti che sfiorano il ridicolo, magari non infrangi nessuna regola o legge ma mi prendi per i fondelli. E io non lo apprezzo granché, come atteggiamento. Soprattutto se pago i tuoi libri pensando di acquistare qualcosa di nuovo in tutto e per tutto. Se pensi che io sia stupida, e sei libero di pensarlo, scordati che io perda del tempo con te. Superba? Forse.
Ho smesso di leggere altri, posso evitare di leggere un altro autore. Pas de problem.
Quello che però mi ha lasciato un retrogusto amaro è la bruttura di queste cose. Per soldi o per non so cosa (nel caso dell'autoplagio, poi, davvero non capisco la motivazione o il fine ultimo) si passa sopra a qualsiasi forma di rispetto, etica, onestà intellettuale.
Si trattano gli altri come ottusi, minimo, o come "cose" di cui approfittare. O di cui liberarsi, come nei recenti fatti di cronaca ahimè ben più gravi di quello di cui sto parlando.
Capisco che se riguarda grosse cifre di denaro ci sia ben poco da stupirsi. Ma per il resto, invece...
Non so, davvero.

14.6.14

Mondiali

Stasera pensavo al mio rapporto con il calcio e con quella porzione di calcio che spesso mette d'accordo tutti, almeno per breve tempo.
Io ho memoria solo di due mondiali, e temo di averne persi tanti e tanti vivendoli senza alcun interesse.
Il 1982...
Una sera, in giardino in collina. Il buio che si fa strada sostituendosi al giorno. Non so chi gioca contro l'Italia, non mi interessa. Ho 13 anni e preferisco guardare il cielo stellato d'estate e le luci della città là sotto...
Seduta su prato appena umido, le gambe raccolte al petto, osservo i gialli, i rossi e i bianchi che mi brillano davanti in quella distesa piatta costellata di luce artificiale. Torino è magnifica.
C'è un silenzio innaturale tutto intorno. L'estate porta inevitabilmente un vociare che rimbalza lungo la collina, cosa che in questa serata non si sente... C'è attesa. La quiete prima del boato. All'unisono, un grido. E di nuovo attesa, poco dopo. E ancora...
L'immagine resta incisa nella memoria, senza un senso preciso di appartenenza o di orgoglio. No, immagine di quiete e di una gioia non mia, passeggera, mentre contemplo la notte.
Il 1990...
Altra storia. Mondiali in casa, sogni crollati e una storia che non ha ali. Noi, dopo la partita, la città piena di gente in festa. Bandiere, schiamazzi, spintoni. Eccessi di vita che non comprendo e che mi lasciano indifferente, con la mia sofferenza che preme insolente su ogni ferita vecchia e nuova. Non sono felice e non lo sarò a lungo. Ma soprattutto non quella notte, non per le bandiere che mi sventolano davanti e non per l'uomo che mi stringe la mano - che mi perdoni, non l'ho mai amato - non per la vita che mi si prospetta.
Eppure andiamo, vagando, la città con noi. In attesa di un treno per il mare, all'alba. Per addormentarsi su di una spiaggia in Liguria, sotto al sole, coperti con gli asciugamani per non bruciare...
E niente, nessuna emozione. Solo queste bandiere al vento e il vociare forte. Solo il vuoto senza fondo che mi divorava dentro. Il pensiero di non valere niente e di non meritare gioia.
E la gioia che osserva da lontano aspettando un cenno.
Oggi...
Non me ne importa niente dei campi di calcio. Mi perdo in un abbraccio e nel guardare fuori il panorama. E la gioia è lì, sottopelle, in attesa di esplodere forte. Ma c'è...

11.6.14

Lacrime



Sono le cose che imparo piangendo quelle che poi non faranno più male.
Me ne sono accorta da poco, a ogni crisi di pianto divento più forte senza sapere perché. Non so perché piango ma quelle piccole cose che mi fanno esplodere, stupide piccole cose senza senso, mi lasciano dentro una consapevolezza che prima non c'era.
Si può crescere con cose stupide?
Credo sia più spesso con quelle stupide che si cresce, non perché siano stupide per loro conto ma perché probabilmente non le vediamo per quello che sono. E non capendole superiamo l'ostacolo.
Forse sono impazzita e con l'età ha sempre meno importanza il comprendere il senso delle cose, come se una volta apprese si potessero vivere meglio.
Ho bisogno di capire il senso della vita per vivere? No. C'è un universo intero che vive inconsapevole e vive meglio di me. Allora perché dovrei ostinarmi io a comprendere cose che sono più grandi di me?
Io non so perché succede, comunque, ma mi capita adesso. Negli ultimi mesi, qualcosa mi si agita dentro, qualcosa mi spinge a piangere a dirotto e in continuazione per una sera, un giorno, due... Poi passa e mi rendo conto che quello che ha scatenato l'inferno solo il giorno prima all'improvviso non esiste più.
Sparito. E insieme alla scomparsa viene un attimo di benessere e di sicurezza che prima non c'erano.
A questo punto ben vengano le lacrime, se mano a mano che piango divento più forte, più felice, sicura, ma anche dolce e meglio disposta; se ogni volta che capita io cresco io voglio continuare a piangere.
Perché poi sorriderò soltanto.

8.6.14

Fragilità diverse



Il barista ha due figli adolescenti.
Ne parliamo, ogni tanto, anche se io di figli non ne ho. Perché sono stata figlia, perché sono una maestra mancata e perché la gente con me parla spesso di cose impensabili. Non che parlare di adolescenti sia strano, lo è parlarne con me mentre bevo un caffè e il cane si gode i suoi tre biscotti a forma di osso.
I baristi ci viziano, da sempre.
Parliamo di quanto a volte siano un po' sciocchi, i ragazzi. Di quanto sia facile prevederli in alcune delle loro trasgressioni. Non sempre,ma se si ha un minimo di rapporto con loro le cose sono sì complicate ma non terribili.
Io sono stata un'adolescente terribile. Una merda, letteralmente. Arrabbiata, ingestibile, presuntuosa e spaventata a morte. Perché tutto quel dolore e quella rabbia altro non erano che paura.
Eppure sono passata attraverso tutto, in qualche modo. La perdita di ogni bene materiale, la minaccia e l'umiliazione, l'abuso e i sogni che non ero capace di gestire in modo costruttivo. Ma sono viva e ho superato i quaranta dignitosamente, ricostruendo quello che avevo sistematicamente distrutto e vedendo molti dei miei amici arrendersi e morire mentre io arrancavo e risalivo.
Non penso di aver avuto una gioventù facile, la mia psicologa mi diceva che era come se avessi vissuto almeno tre vite al posto di una ed era comprensibile che mi sentissi stanca, ma sono sopravvissuta.
Forse sopravvivere non è esattamente vivere, ma non mi sono uccisa.
Poi penso a mia madre, nata quasi sotto alle bombe e bambina coi soldati davanti. Tra soldati e partigiani con mia nonna, spaventate dai primi e minacciate dai secondi. Con una madre depressa e alcolista e con un padre insensibile e meticoloso. Con un nome da mantenere e apparenze insopportabili. La sua adolescenza di certo non è stata facile e anche lei è sopravvissuta. Come poteva, al meglio, se possibile. Ed era fragile anche lei, molto.
E ora mi chiedo, parlando col barista, che cosa sia successo negli ultimi venti o trent'anni. Cosa abbia reso quelli che potrebbero essere i nostri figli o che lo sono, così fragili da uccidersi per una bocciatura a scuola (quando facevo prima media, nel 1980, tutti i ripetenti andavano fieri del loro essere asini, diversi, tosti) o perché i coetanei li prendono in giro su facebook, o perché scoprono che non essere uniformati alle aspettative del gruppo è difficile e doloroso.
Mi chiedo chi non ha spiegato loro che non si può vincere sempre. Chi non ha detto loro che da che mondo è mondo c'è sempre un "cicciobombo" o una "zoccola", o una "ritardata", uno "sfigato", una "checca" e che non c'è ragazzino stupido al mondo che non approfitterà di una minima debolezza per farsi bello e credersi superiore. Ci si prende in giro, ci si azzuffa, ci si spacca qualcosa, si diventa amici. O si impara a passare sopra a certe cose senza sentirsi umiliati per più di dieci minuti. Sebbene per l'età ogni cosa sembri enorme, niente è la fine del mondo.
Eppure qualcosa dobbiamo aver sbagliato. Noi, che a quarant'anni suonati non vogliamo crescere. Noi che abbiamo in mente eroi e gloria, furbetti e immagine vincente. Noi che abbiamo orrore dell'età adulta e che se potessimo resteremmo giovani a oltranza. Noi che le cazzate dell'adolescenza le abbiamo fatte tutte e che se si ripresentasse l'occasione... noi.
Quelli che se l'insegnante sgrida nostro figlio andiamo a discuterci per lavare l'onta. Ma come si permette? Noi che però diciamo che la scuola non insegna più come una volta (ed è vero), noi che facciamo correre e urlare e distruggere, lasciando fare ai nostri figli qualsiasi cosa senza mai prenderli a calci nel sedere (oh no, non si dice, ragazza cattiva, i bambini sono belli, sono sacri, sono intoccabili); bambini e ragazzini cresciuti a "tutto e subito" come se a comandare fosse la legge del mercato (ops, questo forse è vero, ma è di nuovo colpa nostra), come se rinunciare fosse peccato capitale, come se fosse dovuto quello che invece va guadagnato.
Oh, quanto avrei voluto averlo io il dovuto, invece no. E sono viva. E quanto ancora avrei amato fare più danno di quello che ho fatto e seguire me stessa.
Quanto avrei voluto essere meno fragile di quel che ero, ma sono sopravvissuta ugualmente e so che tutto quello che vedo oggi mi piace ancora meno di quello che vedevo un giorno, ma fa meno male.
Ho imparato a perdere, a rinunciare, a faticare, a guadagnarmi ogni cosa. Nessuna scorciatoia, nessun regalo. E sono viva.