26.10.20

Fuori dalla ruota

 Forse dovrei riprendere il Prozac.

Rassegnarmi.

Fare il mio lavoro di bravo criceto, produrre e tornare a casa nel carro bestiame come dovrei fare secondo il sistema. Dimenticare i sogni, i desideri e le poche cose che mi fanno andare avanti. Annebbiarmi.

Spegnermi.



Alla fine non è una cosa nuova, l'essere solo un numero. Lo so da tempo e l'unica cosa che mi ha salvata è stata la mia capacità di sognare e di aggrapparmi a ciò che vedevo di bello e leggero. Diverso da me.

Mi sono illusa di poterne stare fuori, di galleggiare nelle mie mille cose fino a quando il mio obbligo nella grande ruota della società non fosse finito. E poi è arrivato quest'anno.

Non lo nego: il lockdown mi è servito per pubblicare il romanzo che altrimenti non avrei pubblicato. Avevo deciso di non farlo più. Può essere perché in fondo non amo mettermi in gioco sul serio e dopo i primi libri pubblicati ci voleva un vero salto di qualità, che implica un lavoro extra, un impegno maggiore mentre per me scrivere è facile, pure troppo, e io sono pigra e insicura.

Ma chiusa in casa con le mie parole in testa è stato semplice. Ho lasciato tutto il carico che aveva dentro e ho sorriso pensando a che facce avrebbero fatto i lettori. Scrivere "Il gioco dei vampiri" è stato facile, divertente. Fluido e liberatorio. Rileggerlo mi ha resa consapevole di quanto di più io possa fare ma a oggi non ho la forza di compiere il salto. 

La forza che ho sempre avuto finora era data dal tempo che passavo fuori dalla ruota. All'aperto, con gli amici, in palestra. Non più del necessario, mai in mezzo alla gente - non mi è mai piaciuto - e in modo quasi religioso. Ma ora...

E sì, sto parlando solo di me. Ma tra le persone cui voglio bene ci sono alcune che di sport ci vivono, come di arte, come di ristorazione e le vedo colme di una disperazione sempre più grande, come quella che sento io e mi chiedo fino a che punto dovremo essere schiavi di questo sistema in cui il profitto e la produttività contano più del benessere psicofisico della maggior parte degli individui che lo compongono a beneficio di pochi e vuoti, cinici mostri.


24.10.20

Ho perso le parole (cit.)

 Da qualche tempo mi mancano le parole.

Sono state soffocate dalla chiusura di marzo, da tutti i pensieri di aprile e dalla riapertura di maggio, senza criterio nel considerare le vite degli individui come tali; sono morte nell'attesa di giugno - 200 Euro per tutto un mese - e nell'affanno di luglio per recuperare quel poco di speranza di una ripresa del lavoro; non hanno trovato modo di tornare ad agosto né un minuto nella corsa di settembre e ora...

Le prospettive così poco allettanti per il futuro mi lasciano fiacca e disadattata. Non sono preoccupata per la mia salute, mai stata.

Pur avendo spento la tv e la radio sono sommersa da numeri di cui non mi importa assolutamente niente. Non sono negazionista ma rifiuto di vivere nel terrore. So che si muore, so anche che fa parte della vita e che pur non andandosele a cercare le cose succedono ugualmente: prima o poi, di qualcosa, morirò anche io. E non è poco rispetto per chi c'è passato o ci sta passando, per chi ha perso qualcuno, per chi sta male. La vita è fatta di questo, anche. Di malattia e morte, come di nascita e di vecchiaia. Inutile correre a Samarcanda, inutile immaginare un mondo in cui saremo tutti giovani e sani per sempre. Quindi faccio il possibile per evitare il pericolo ma voglio continuare a vivere la mia vita, qualsiasi cosa capiti.

Non credo nei complotti, eppure so che da ogni cosa c'è sempre qualcuno che sa trarre profitto. So di essere solo un ingranaggio piccino in un mondo di cui non ho una comprensione così ampia. So che "devo" produrre necessariamente, per il mio e l'altrui sostentamento. So che da quando sono tornata al lavoro sto facendo il triplo della fatica per il medesimo pezzo di pane ed è questo che non mi dà pace. Essere niente a parte quel piccolo ingranaggio per chi sta sopra di me e decide. 

Sono fortunata. Un lavoro da dipendente e a tempo determinato. Ma non è tutto nella vita e per me da sempre è solo ciò che mi permette di fare tutto il resto. Che non è chissà quale folle cosa. Pagare le spese, mangiare, curare le bestie di casa, pochissimo shopping, sere in palestra, a letto alle 23,30 quasi sempre. Pochi amici ma buoni, con cui passare il tempo libero senza assembramenti. Una cena fuori, due passi, un gelato, una fuga di un giorno al mare. Più che altro qualche allenamento casalingo e qualche birra in più con quella che ormai è "la mia congiunta" pur non essendo l'amore mio. Non chiedo molto. Sono una a "basso mantenimento" come dicevano forse in "Harry ti presento Sally".

Mi scoccia la burocrazia assurda tesa a far scarica barile nel momento giusto, tipo la firma ogni mattina al lavoro riguardo alla salute. Che poi io la febbre la misuro da quando è iniziata 'sta storia, visto che ho il raffreddore 12 mesi l'anno. Mi scoccia dover portare la mascherina quando sono sola per strada se poi vedo la gente gomito a gomito in pizzeria vicino al lavoro e nessun problema a riguardo. Mi scoccia vedere gli amici ristoratori in difficoltà perché con alcune restrizioni lavorare diventa davvero un'impresa. Mi scoccia che non passi un tram e che la metro nelle ore di punta sia piena e nessuno decida di tentare di sistemare le cose. Mi scoccia vedere le code per entrare a scuola.
Mi dispiace che si parli di chiudere palestre e parrucchieri. Per la pole poi, dove siamo immerse nell'alcol con cui puliamo i pali costantemente e con sale poco capienti mi pare ancora più assurdo. E il non riuscire già oggi a fare la spesa on line... manco avessi chiesto lievito di birra.

Mi sento un criceto tra milioni di criceti, bloccato in un ingranaggio da cui non posso uscire. Un numero utile a far girare la baracca e niente più. Il sistema mi pesa addosso. Hai voglia a fuggire con la mente in luoghi immaginari per salvare quel minimo di felicità; hai voglia a sognare momenti, soddisfazioni. Non mi basta più tutta l'immaginazione che ho. Non riesco nemmeno più a scriverla.