27.7.10

39 bis

Ovvero: prove tecniche di compleanno.

Fino a qualche anno fa avevo il desiderio di morire giovane. La vecchiaia non mi attira un granché in effetti. Che porti o no saggezza è sempre una gran rottura di balle. Tra acciacchi, dentiere, pannoloni, semolini, demenza e chissà che altro... Insomma, l'idea di evitarmi tutto ciò era certo più che allettante. E lo resta.
Poi m'è toccato compiere 40 anni e a questo punto ho pensato: " Cavolo - si vabbè, la parola era un'altra -!!! Non posso più morire giovane..." Perché, tra l'altro, uno normalmente considera la mezza età dai 50 in su, ma mica la vita media è sempre fissa sul 100 - per fortuna, mi dico - , quindi che senso ha? Dunque, raggiunta la mezza età (secondo i miei criteri, che saranno anche confutabili, contestabili, condannabili, commentabili, fate voi) la mia speranza è andata a farsi friggere.
Ecco, l'Idea! Con la I maiuscola, sì!
Dall'anno prossimo torno indietro. Così ogni anno ho la possibilità di essere più giovane e di realizzare il mio sogno primordiale: tornare a giocare a poker, ciucca come una biglia, con altri spiritelli in attesa di collocazione e rimanerci il più possibile senza perdere una mano.
Quindi quest'anno sono 39 bis.
E siccome i regali per il 39esimo me li avete già fatti potete risparmiare quei soldini e festeggiare con me senza impegno il 5 agosto. Stare insieme è quello che conta, raccontarsi le proprie storie ed emozioni, guardare il cielo stellato e sorridere al nulla, ma tutti insieme.
Ovunque voi siate (io sarò qui) il 5 date uno sguardo al cielo, giorno o notte che sia, respirate profondamente e sorridete. Non c'è niente di più che potete regalarmi.

- Nota per i soliti noti che i regali me li fanno sempre e comunque: davvero non ho bisogno di molto, mi piacerebbe pubblicare il mio romanzo, una casa con terrazza vista mare in cui ritirarmi per l'imminente giovane età, poter scrivere per professione. Rose nere come la Abby di NCIS, magari un tir di magliette come le sue ma XL, un collare con le borchie da rottweiler... Stephen King mi ha un po' rotto, se volete regalarmi un libro datemene uno che scegliereste per voi, come faccio io... -

16.7.10

Luna piena lassù (e l'uomo lupo ulula)

Quando ero piccola mio padre usava chiamarmi strega. A forza di sentirlo dire ho finito per credere che, esaurita la mia discussione interna sull'esistenza di Dio così come me lo presentavano, in qualche modo la magia fosse la strada giusta per me.
All'inizio ciò significava principalmente che le mie letture fossero concentrate su qualsiasi cosa riguardasse altre vie. Archiviata la parte della magia nera che riguardava il Satanismo (mi chiedevo se non credendo in Dio fosse corretto affermare di credere in qualcuno così strettamente collegato a lui) trovai testi alla mia portata che riguardavano la magia bianca, soprattutto la Wicca, e la rossa, poi tutte le varie tradizioni a casaccio.
Avevo undici anni quando tentai il mio primo esperimento woodoo pur non conoscendo assolutamente il mondo che lo circonda e la vera natura dei rituali che ne derivano. Mi piaceva più che altro l'idea di usare una bambola feticcio per intervenire sulla vita di una persona.
Così mi armai di una bambolotto (di plastica), candele (in casa ne avevo solo di bianche), qualcosa della vittima, una seguace (la compagna di banco Gabriella S.). Di pronto e a disposizione avevo già un magnifico giardino e un altare di pietra (un masso rossiccio che campeggiava nel giardino dei nonni) e una bellissima luna piena. Era quasi primavera, quel sabato sera. Faceva freddo, ma non troppo, così mia madre ci lasciò giocare in giardino dopo cena.
Il rituale esatto non lo ricordo. Eravamo entrambe molto emozionate, direi convinte, quando staccammo con un coltello una gamba del bambolotto che rappresentava un nostro compagno di classe particolarmente molesto. C'era l'atmosfera giusta. Penso sia quello a fare la differenza. L'atmosfera che si crea e il fatto che ci si creda. E se non si è disposti a credere nella magia a undici anni...
Verso la fine del rito sigillammo quel che restava del bambolotto in una scatola di metallo, chiudendone il bordo con una colata di cera delle candele bianche che avevamo acceso. Cominciò a fare freddo, ma sul serio. Allora alzammo lo sguardo e ci rendemmo conto che la luna aveva un colore strano, sul verde. Pensavamo a un effetto ottico dovuto all'uso delle candele nel buio, così controllammo se tutto era a posto accendendo la luce. Anche la cera che chiudeva la scatola era tendente al verde. Poi seppellimmo la scatola e tornammo a casa.
Il giorno dopo io avevo la febbre a quaranta e dolori ovunque. Gabriella tornò a casa sua.
Il lunedì mattina io non andai a scuola per la febbre che non accennava a scendere. Gabriella mi telefonò spaventata all'ora di pranzo, dicendo che il nostro compagno s'era rotto la gamba cadendo dagli sci domenica, quella gamba.
Lei quasi non mi rivolse più la parola, io da lì a qualche mese lasciai la scuola per ricominciarla altrove. Ero convinta che non avrei mai più tentato una cosa simile.
Invece...

13.7.10

Con occhi diversi

Metti un matrimonio nel weekend più caldo del mondo a molto più di 6km di curve dalla vita; metti una chiesetta arroccata quasi in cima a una montagna dolce, con un bel giardino intorno e quella sana puzza di merda di cavallo; metti un viaggio di tre ore e mezza per arrivarci in tempo e ancora freschi.
Parcheggiamo la macchina nel momento esatto in cui arriva la Mercedes con la sposa. Siamo in orario, quasi. Lei, un metro e ottanta di meringa di una bellezza e luminosità rarissime, ci vede e quasi esulta. Agitata, emozionata, si aggrappa al padre e aspetta che sia il momento giusto per fare il suo ingresso in chiesa. Noi ci facciamo notare da chi ci aspettava e ci posizioniamo strategicamente al fondo della chiesa. L'organo comincia la marcia, la sposa entra e si parte.
Dannata empatia, mi commuovo un pochino pur essendo allergica a più di una cosa tra quelle elencate prima. Curve, caldo, chiesa, matrimonio classico... Fate voi.
Qualche frase e usciamo, manca l'aria. Fuori, all'ombra del giardino, va meglio. Così pensano anche tutta una serie di invitati che fanno la nostra stessa spola tra dentro e fuori a intervalli regolari. Noi ci guardiamo attorno, oltre agli sposi e ai genitori della sposa non ci pare di conoscere altre persone. Sguardo critico-satanico attivo per capire dove siamo e cominciamo a fare le nostre considerazioni.
Innanzitutto ci sembra incredibile il fatto che, nonostante gli anni di assenza prolungata dal rituale cattolico, ci ricordiamo entrambi la messa, parola per parola. Che non è una cosa grave in sè, ma ci pare uno spreco di risorse per qualcosa di cui non ci è mai importato granché.
Accanto a noi sfilano gli altri invitati, molti con pupo nella carrozzina, qualcuna allatta all'ombra di un albero poco distante. L'antica fighetteria del corso presenta una sfilata di cravatte in diverse tonalità di viola, colore dell'anno, sopra a un abito formale ma non troppo. Bambini si rincorrono con i pugni pieni di riso, ci si sistema per il lancio simultaneo coordinato dai fotografi, si baciano gli sposi fuori dalla chiesa. E fin qui tutto nella norma.
Poi vengono le usanze del luogo. Ci si sposta rigirosamente in macchina fino al paese dello sposo per un rituale decisamente pagano. E va beh. La mia idiosincrasia per qualsiasi tipo di rituale è nota, quindi tocca mettere tutta la buona volontà per mantenere il sorriso sulle labbra. Questa gente non m'ha fatto niente, ancora... Segue una specie di corteo a piedi in giro per il paese a brevi tappe sotto il sole di mezzogiorno, tutti bardati a festa e io col mio solito tacco 10.
Poi il ristorante, a 40 minuti di altre curve dal paese. L'aria condizionata a livello surgelatore mi salva la vita. Quasi.
Gli antipasti serviti fuori sono fuori discussione, non ne tocco uno manco se mi pagano finché non mi si risistema lo stomaco, la testa e l'umore. Poi il delirio.
Insomma: scene da un matrimonio che per chiunque sono nella norma tranne che per me. Gente che urla, invoca il brindisi in nome di una appartenenza qualsiasi, un continuo rombare di posate di tavole e di piedi. E un altro rituale che si compie. Forse un po' troppo, per me. Mi salvano dalla crisi i racconti bizzarri del medico che ho davanti. Mentre osservo, però, che i paesani bevono un po' più degli altri, che i loro occhi diventano sempre più liquidi, che la "violenza" della comunità si fa sentire, sottile. Dall'obbligo del brindisi a quello del taglio della cravatta da parte dei solti "noti" (per i locali di certo) travestiti da briganti (ancora) e armati, questa volta, di vere accette e falcetti ( e in più, più bevuti di prima).
E osservo... Una parte di questa cosa mi sembra già vista. Serate di paese senza un tubo da fare se non bere fino a dimenticare dove si è. E mi domando: "ma sono di nuovo qui?". Questi personaggi mi inquietano. Mi domando se sia perché li sento tanto distanti o se in qualche modo ci sia una parte di me che sente la nostalgia di questo "potere" di gruppo che si manifesta nel controllo totale della vita degli sposi, sebbene in modo simbolico.
Insomma, dopo un po' li osservo con occhi diversi e non mi stupisce vedere il fighetto con l'aria del tipo tutto d'un pezzo che dopo un bicchiere di troppo sembra un cucciolo bastonato, mentre il suo socio che aveva l'aria tranquilla ha uno sguardo più cattivo. Queste cose le conosco.
Sono scappata da queste cose. E mi chiedo: "ho fatto bene?" o "mi mancano?"
E se avessi sbagliato io a scegliere la distanza? Se questa fosse la vera realtà e io mi fossi ritirata in un sogno? Se davvero la vita fosse quello e non quella che io credo sia?
Al di là del pranzo, della piacevole compagnia dei nostri conoscenti, del relax seguente, mentre gli altri ballavano e storpiavano canzoni, quello che mi resta è una visione Lynchiana di uomini seminudi con parrucche e sacchi di plastica in testa, armati in vario modo, che irrompono nella normalità di un matrimonio per trasformare il giorno in un sogno dai risvolti più simili a Twin Peaks che al Matrimonio del mio migliore amico (che mi sembra più normale, ma molto più normale).
Sono piuttosto confusa...

8.7.10

Quattro schiaffi

Il primo in assoluto l'ho preso a dieci anni, dalla mia nonna preferita. Non l'aveva mai fatto prima e credo non avrebbe voluto darmelo. Era, credo, il giugno del 1980. Un mese prima che morisse, un mese dopo la morte di suo marito. Era triste, distrutta, e io non volevo vederla così. Certo non era mai stata una donna particolarmente allegra, ma la morte del nonno l'aveva lasciata senza energia. Le ho detto che in fondo il nonno era fortunato, lui di certo stava meglio di noi. Cosa che pensavo davvero e che ho continuato a pensare anche dopo il ceffone che mi ha presa in pieno viso. Non mi sono arrabbiata anche se pensavo di avere ragione. Ho solo imparato che certe cose potevo pensarle ma non potevo dirle e mi sono regolata di conseguenza, quasi sempre.

Il secondo l'ho preso da mia madre una sera di giugno davanti al Teatro Alfieri a Torino. Era la sera in cui sono scappata nei camerini dopo lo spettacolo. Avevo dodici anni e la mia folle passione per la danza era appena cominciata. Dopo aver visto uno spettacolo proposto dalla mia futura scuola di danza, approfittando del fatto di aver ballato in quel teatro per il saggio dell'anno precedente e quindi sapendo benissimo dove andare mi sono fiondata sul lato della platea che portava all'ingresso al palco, ho chiesto di entrare all'omino che vigilava l'ingresso e sono arrivata correndo fino in cima alle scale. Primo e secondo piano, a parlare con le prime ballerine della scuola, a guardare le ragazze cambiarsi, struccarsi e metter via la roba nei loro borsoni. Ho perso la cognizione del tempo e mi sono resa conto troppo tardi che in sala non c'era più nessuno e che avevo perso mia madre. Così, visto che non potevo uscire da dove era uscita lei, sono uscita dal retro (ingresso artisti) e ho fatto il giro dell'isolato. Lei era furiosa. Io euforica. Se non fosse stato per i capelli sciolti mi avrebbe fatto male...

Il terzo me l'ha dato il tizio che io chiamo Psycho, con cui sono uscita per circa due anni (di troppo) tra i diciotto e i venti. Non faceva altro che sminuirmi davanti agli altri, mettermi sempre in secondo piano rispetto alle qualità di qualsiasi altra ragazza conoscesse. Quel giorno (e credo fosse di nuovo giugno, ma non ne sono certa) aveva esagerato e io mi sono ribellata, forse in modo anche eccessivo e poco discreto. Fatto sta che alla mia reazione, diciamo isterica, lui mi ha aggredita. Io l'ho colpito per prima, lo ammetto, pur essendo lui ben più grosso di me. Così mi ha assestato un manrovescio da paura, facendomi cadere. Appena rialzata ho cercato di colpirlo ancora, ma se ne è andato. Mi sono rifatta poi...

L'ultimo, quello che ha lasciato il segno, me lo ha dato un altro ragazzo. Lo ha fatto per farmi reagire quando, un giorno, ho deciso che non mi andava più di stare con lui. non ricordo la discussione, ma so che non volevo infierire, così l'avevo messa giù un po' sul depresso. Forse troppo. Volendo risvegliare la belva che c'è in me, il giovane ha ben pensato di darmi uno schiaffone a mano aperta con tanto di rincorsa. Avevo ventitrè anni. Ho girato per una settimana con la guancia blu. Inutile dire che lui ha rischiato grosso, perché se fossi riuscita a prenderlo, dopo avergli gridato insulti irripetibili, non so cosa gli avrei fatto. Sono quelle volte in cui perdo il controllo e le persone che mi conoscono scommetterebbero sulla mia capacità di uccidere. Sono quelle volte in cui mi rendo conto di quanto sia facile per me passare da un estremo all'altro e di quanto mi faccia paura tutto ciò.

Ci pensavo oggi. Non so perché. Sono gli unici quattro schiaffi fisicamente ricevuti. Tutti gli altri erano schiaffi, pugni, calci e randellate ancora più efficaci. Quelli che ti porti dentro molto più a lungo e che condizionano parte della tua vita. Quelli che spesso sono proprio le persone che più ami a darti. Quelli che fanno ancora più male...

7.7.10

Il mio rapporto con i desideri

Ci sono diverse cose nella vita che mi mettono in difficoltà. Alcune sono solo fastidiose e ogni volta mi tocca affrontarle con un certo sforzo. Tra queste i desideri occupano un posto in prima fila.
Sono sempre molto in dubbio su cosa desidero pur essendo una persona che ama sognare e che ha poche e piccole ambizioni.
C'è stata la danza, che mi ha appassionata nel periodo più difficile della mia vita tanto che ho cominciato a pensare che fosse una specie di appiglio per non sprofondare, per non cedere. Non che non la amassi. Era una passione divorante. Ballavo sempre. Mattina, pomeriggio e sera, finché non ero distrutta di fatica e crollavo sul letto senza particolari sogni se non incubi.
L'unica cosa per cui ho lottato, ho sudato, mi sono sacrificata in vita mia. Solo la danza e la folle idea di poter fare solo quello nella vita.
Prima e dopo la parentesi della danza, che ha occupato la mia vita dai 12 ai 22 anni e che ha solo rimandato una bella crisi depressiva risparmiandomi al contempo un'adolescenza allo sbando (perché tutte le regolette per farcela mi hanno impedito di buttarmi in cose ben peggiori dello sport e mi hanno insegnato qualche valore in più) tra amici drogati e annoiati alcolisti da bar di paese che finiscono con lo schiantarsi in auto nella nebbia; prima e dopo la danza, dicevo, niente è stato così importante. Niente.
Tutto il resto per me è stato un sopravvivere lasciandomi trascinare dalla vita dove voleva lei. E, visto come è poi andata con la danza, forse avrei risparmiato energia evitando di buttarmici così.
Niente di materiale, o di tangibile.
Nessun titolo, posizione, riconoscimento
Non il denaro o la proprietà di qualsivoglia bene. Gioielli, vestiti, veicoli, casa. Non mi interessano.
Quando per un certo periodo ho praticato un determinato tipo di buddismo in cui c'era bisogno di obbiettivi ero in difficoltà perenne. Non riuscivo a trovare qualcosa per cui sforzarmi anche solo di pregare. Se lo facevo dovevo scrivermi il desiderio da qualche parte perché nel giro di una settimana avevo già dimenticato tutto. Nemmeno la pace nel mondo, vera utopia nella mia mente, poteva diventare un mio desiderio.
Così, quando più di dieci anni fa Mohammed mi ha legato un braccialettino blu di filo facendo i tre nodi canonici e dicendomi di esprimere un desiderio... è possibile che io l'abbia fatto. Mi sembra anche probabile che in quell'istante il desiderio fosse sincero e magari profondo. Che ne so, un po' di tranquillità interiore (che non ci faticherei più di tanto, ma non mi dispiacerebbe tutto sommato) o qualsiasi altro bene spiritual-interiore, visto che sono le uniche cose che per me valgono qualcosa.
Ieri pomeriggio quel braccialetto si è aperto, dopo oltre dieci anni di docce, di lavaggi, di lavoro, dopo un mese in India cinque anni fa, dopo che altri se n'erano andati senza durare oltre a un mese e senza desiderio espresso (nel frattempo avevo adottato Mohammed che mi riempiva di bracciali ogni volta che mi vedeva, tanto da farmi sentire un albero di Natale).
Si è aperto mentre lavoravo e subito ho sentito il braccio leggero, come se quel braccialetto blu fosse stato il vero peso che mi portavo addosso. Allo stesso polso ne ho altri sette, quindi non avrei nemmeno dovuto accorgermene, invece...
Ieri non è successo nulla di interessante, a parte il rientro a casa del coniuge assente da tre giorni (ma era previsto e comunque non avrei potuto esprimere un desiderio simile quando nemmeno lo conoscevo). Nemmeno nella settimana, per ora. Niente neppure oggi.
Mi scoccia non ricordare quale fosse il benedetto desiderio, perché se quel braccialetto è durato così tanto ci sarà un motivo. Ma nulla, la nebbia.
A tal proposito, cioè parlando di desideri, intorno a me si comincia a chiedere una lista di desideri per il mio compleanno (stessa cosa a Natale) e io non voglio niente, proprio niente che mi si possa regalare. Ho tutto, ho fin troppo, ho più di quel che serve.
E ho sempre quella strana sesazione allo stomaco...

4.7.10

Il destino e la scelta

Se potessi tornare indietro, rinuncerei a quello che ho vissuto e che mi ha resa ciò che sono?
Sarei disposta a farlo per "salvare" qualcuno dal suo destino scegliendo io per lui/lei?
Non credendo in un destino immutabile, avendo la possibilità di tornare al momento cruciale, sarei capace di scegliere un'altra strada rispetto a quella percorsa pur sapendo dove mi porterà?
E cosa cambierei?
C'è davvero qualcosa di così importante tra quello che sognavo per me e che non ho raggiunto? Qualcosa per cui avesse senso un minimo di sacrificio, qualcosa per cui avrebbe senso ora?
Non so.
Sebbene io creda nella scelta, in fondo ho sempre preferito non opporre resistenza e lasciarmi trascinare dalla vita ovunque volesse portarmi, che questo significasse rinunciare ai sogni, oppure crearmene di nuovi ogni volta. Forse sono semplicemente pigra, questo è possibile. Forse sono troppo adattabile, come mi hanno più volte detto. Forse non ho il coraggio di lottare per ciò in cui credo. O forse in realtà non credo e basta. Non c'è qualcosa in cui credere se non in quella forza stravagante che fa muovere il mondo.
Ma se potessi tornare indietro e modificare il mio destino (o la mia storia) sarei felice più di quanto sono adesso? O meglio, sarei più propensa a credere che esista la felicità?
E i miei sogni col mio destino che c'entravano? Cosa c'entrano adesso?
E, soprattutto, ho mai avuto davvero scelta? Entro quali limiti, in che misura?
La scelta di non voler dare un senso a tutto ciò che mi circonda è stata liberatoria, ciononostante le domande continuano a venir fuori. Non le stesse di un tempo, ma in modo alquanto fastidioso.
E temo non ci sia risposta valida al mondo.

3.7.10

Vicinanze lontane

"In quest'auto bollente sento freddo e ho i brividi. Mi sento sola. Appoggio la mano sulla coscia, a palmo in su. Come vorrei che Shyam la prendesse. Se lo fa - penso - andrà tutto bene.
La mia mano rimane lì, aperta e non toccata. E allora mi viene in mente perché non chiederei mai a Shyam la luna.
Odio dover chiedere."

Anita Nair, Padrona e amante.