31.12.15

Un anno se ne va...

Pare sia uso comune riflettere sull'anno passato, nel giorno in cui l'anno finisce e a me capita invece che oggi la mente stia pensando al futuro. Cosa strana, perché io si sa che non ci credo nel futuro - con felicità e speranza sono parole ostiche per me - e non amo fare progetti e pianificare; non organizzo, non mi aspetto successi, non chiedo.
Ecco che invece oggi si fa prepotente un senso di "rivalsa" sull'ultimo periodo. La lentezza estrema, i sogni che ho iniziato a fare, la fatica di affrontare ogni giorno uguale al precedente, abitudine nelle abitudini che in qualche modo mi stanno strette. La sensazione di volere di più, di non avere ciò che vorrei, non so se lo merito o meno, ma lo desidero.
Oggi, leggendo uno degli innumerevoli oroscopi per l'anno futuro in cui mi si diceva di non avere fretta, un senso di rabbia mi ha colta alla sprovvista:quanto ancora devo aspettare?
Sì, i progetti sono tanti e tutto si muove, ancora lentamente, ma io comincio a essere stanca. Anche in tv, in questo momento, Malika Ayane canta "adesso e qui", come fosse un segno.
Sì, inutile dire "non desiderare"... Cavolo, io voglio desiderare. Sono stanca di stare dietro ad aspettare.
Come direbbe Julia Roberts in "Pretty woman": io voglio tutto, voglio la favola.
Quindi ben venga la pubblicazione di "Sette stanze", a brevissimo disponibile sia in ebook che in cartaceo, ben venga quella di "Addio a Bodhgaya" - altro romanzo breve - sempre molto vicino; ben venga quella di "La festa", sequel dell'erotico vampirico "La caccia".
Ma non mi basta, ora comincio a scalpitare.
Anche se sono un leone ascendente bradipo, predisposta alla lentezza e al guardare il mondo con occhio annoiato e rimirandomi le zampe anteriori mollemente... comincio a scalpitare.
Vedo rosso come un piccolo toro - pianeta in cui campeggia la mia luna - ho voglia di risultati, di incornare un bersaglio, di vedere che la mia fatica, la mia attesa, il mio costante lavorare ingoiando bocconi a volte amari, porta a qualcosa. Piangere per stanchezza, per l'eternità che ci metto ad avere una risposta.
Non ho più voglia.
L'anno scorso... sì, mi ha dato piccoli e costanti segni che il progresso è a un passo. Ma ora basta, tra un po' salto. Non ce la faccio a procedere coi piedi legati. Quel singolo passo ci mette un sacco di tempo e io di tempo non ne voglio perdere più. Quando sai che cosa desideri, desideri che tutto inizi subito (anche questa è una citazione, anche non letterale). E io, oggi, desidero.

27.12.15

Una analisi illogica senza testo (e priva di spoiler)

La risposta è no.
Nel buio della sala dell'Ideal, poco dopo i miei otto anni, quando vidi entrare Dart Vader, nero nel fumo bianco dei folgoratori, rimasi senza fiato. Da quel momento in poi, per anni, ho visto e rivisto Star Wars prima al cinema, poi in tv, vhs, dvd un numero incalcolabile di volte, tanto che avrei potuto recitarlo al contrario senza sbagliare una battuta. Poi, ovvio, sono cresciuta. Cioè, no.
Non potevo crescere abbandonando quel mondo, che fa e farà parte di me in quella esatta versione del 1977; dimenticando la meraviglia di quegli effetti speciali, di quell'universo creato con un'immaginazione che oggi non esiste più.
Ho difeso per tutta la vita quel film e quella versione, anche discutendo con i miei professori all'università, privi di fantasia e spenti, che non comprendevano la ricchezza di ciò che ci vedevo. La magia. La Forza.
Tutto, nella prima trilogia, è pervaso dalla Forza. Non solo perché ne parlano, non solo per le evidenti ripetizioni che già creavano un effetto "ridondanza" nei due sequel, ma che lì facevano parte di un linguaggio in qualche modo sia nuovo che "di culto"; nella prima trilogia la Forza è tangibile al di là dei semplici effetti speciali. C'è, e si sente, si immagina, le si dà un significato quasi New Age, ma c'è.
Archetipi, certo. Una fantascienza che è in qualche modo un fantasy; il bene e il male, la lotta tra padre e figlio, il saggio maestro, il potere soprannaturale, armi speciali, la missione.
Una fantascienza che era diversa dai mondi creati da "Spazio 1999" fino a quel momento: non più quegli ambienti puliti, nuovi, impersonali - per non parlare delle scenografie improbabili e comunque bellissime di Star Trek - ma dei luoghi e delle attrezzature "vissute", che in qualche modo apparivano familiari e veri. Non una sola umanità a confronto con altre civiltà ma decine, centinaia di razze e specie diverse più o meno pacificamente conviventi.
Questo film ha condizionato il mio modo di percepire il mondo, nel bene e nel male; mi ha aiutata a credere nella magia della vita e del cinema. Niente è stato più appagante dello scoprire i trucchi utilizzati per quella versione. La Morte nera che esplode in un mare di scintille non ha niente a che vedere con l'esplosione perfetta e, di nuovo, impersonale della versione rimasterizzata uscita nel '97.
No, non ho apprezzato i "ritocchi" apportati da Lucas - pur essendo appassionata di effetti speciali, quelli fatti al computer non mi sembrano belli quanto gli originali - e continuo a vedere la versione vecchia appena posso.
Poi sono arrivati "L'impero colpisce ancora" e "Il ritorno dello Jedi". Stessa magia, con qualche ripetizione e qualche ingenuità, forse - o forse ero io a percepirle laddove anni prima non le avrei viste - ma ancora potenti.
A confronto con la "vecchia" trilogia, la seconda già sfigura. Ma ci sono ancora in parte le vecchie ambientazioni, c'è un futuro conosciuto che aspettava il suo passato e la Forza, che ormai conosciamo, appare nel momento in cui comincia la decadenza. Come fosse scontata, c'è e si manifesta senza "intaccare" l'immaginario che le si è creato intorno. C'è una magia di costumi e di nuovi mondi; personaggi da amare e il piccolo Anakin che da piccolo tesoruccio molto dotato diventa un adolescente capriccioso e arrogante e un adulto poco cresciuto con evidenti problemi di comprendonio. Che forse a non spiegarne l'evoluzione gli si faceva un piacere. In ogni caso, nonostante si noti la grande differenza tra le due trilogie, sia per profondità che per costi di produzione, non si può non legarsi anche a questa favola.
I sei episodi stanno tutti in bella mostra nella colonna porta dvd di casa. Almeno una volta l'anno si fanno un giro nel lettore e mi riportano a quella prima volta al cinema, bambina.
Quindi veniamo a oggi. No, a due giorni fa.
Quando sono entrata, priva di grandi aspettative, al cinema. Sì, perché J.J. è un genio. Questo lo so. Solo che tra mito e genio vince il mito, per me.
Il nuovo Star Wars è un film ben confezionato, buon ritmo, begli effetti, il ritorno dei protagonisti della prima trilogia studiato apposta per attirare i "vecchi" fan, qualche nuova arma. Il 3D...
Se non avessi mai visto il primo/quarto episodio, se non sapessi niente dei film precedenti, se non li sapessi a memoria potrei dire che il film mi è piaciuto. Ed è così che cercherò di considerarlo: come un film a parte. Nonostante non capisca perché, con un universo di possibilità al mondo abbiano dovuto far tornare i tre anzianotti invece di raccontare altro; nonostante io trovi delle somiglianze inquietanti tra il nuovo "male supremo" e Gollum; nonostante la bruttezza infinita dei protagonisti maschili; nonostante la trama pressoché ripetuta di primo e settimo... lo accetto.
Priva di grandi aspettative perché sapevo che avrei trovato un film "attuale", un blockbuster assoluto, qualcosa di altamente spettacolare e veloce. Una pellicola di J.J. lo è praticamente sempre. Perché lui è davvero bravo: a fare il suo lavoro, a portare la gente al cinema, a stupire.
Eppure se mi chiedete se mi è piaciuto l'episodio VII non posso che rispondere no. Se fosse stato un film qualunque mi sarebbe anche piaciuto. Questo l'ho trovato privo della magia, dell'immaginazione, della novità, della vita che accompagnava la prima trilogia. Privo della Forza.
E senza la Forza non c'è storia.

15.12.15

Della falsità e dei circoli viziosi

Oggi ho letto un paio di cose, in pausa pranzo.
La prima era una pagina della nuova politica di Amazon riguardo alle recensioni. Non che le norme fossero poco chiare, da sempre. Eppure dopo il recente scandalo delle recensioni false, pare che il sito abbia cancellato moltissime recensioni a loro parere sospette.

Riguardo alle recensioni su siti, piattaforme varie e blog, sono sempre stata molto critica. Da una parte la facilità con cui chiunque può dire bene o male di un tuo lavoro - semplicemente perché tuo amico o per uno scambio di segnalazioni - la scarsa affidabilità del giudizio di un lettore qualsiasi, la possibilità di farsi in questo modo auto promozione utilizzando profili creati apposta, il potere di un circuito di autori e autrici che si spingono a vicenda - che ovviamente giova solo a chi fa parte del circuito ma che non garantisce la qualità, esattamente come sopra.
Quindi ovvio che io sia sempre diffidente riguardo alle recensioni "non professionali". Non le leggo, non lo faccio né per scegliere le mie letture e nemmeno per gongolarmi o disperarmi nel caso riguardino me. Non ne chiedo, di solito. Chi, tra i miei amici, decide di lasciare traccia su Amazon del suo pensiero è libero di dire quel che pensa.
Allo stesso modo non scrivo recensioni di libri che non ho letto - al massimo ho pubblicato qualche segnalazione su Gazzetta Torino, che è cosa differente - e soprattutto non uso la recensione come mezzo di scambio. Scrivo quello che penso o non scrivo affatto. O insomma questo sarebbe il mio desiderio.
Uno dei motivi per cui non ho più scritto recensioni, però, o ne ho scritte poche, è che stavo cascando anche io nel circolo vizioso del "non si parla mai male di nessuno" e mi sentivo a disagio nel mondo finto zuccheroso di quelli sempre entusiasti del lavoro altrui, perché io non lo sono.
No, io sono una snob. Non mi piacciono tutti. Mi attacco alle virgole, ai nomi improbabili, alle frasi imprecise e ai tempi sbagliati. Ai dettagli che non corrispondono, ai buchi nella trama. Alla noia di una storia già vista e rivista, alla mancanza di editing, di cura, di un editore.
Diciamocelo, il più delle volte non parliamo male di un altro autore solo perché abbiamo paura che ci si ritorca contro, invece di argomentare efficacemente in una recensione - non pagata e non richiesta - esprimendo un giudizio quantomeno "professionale". Insomma, se si vuole scrivere è vero che ci si deve creare un pubblico e di certo è più facile crearselo essendo gentili ma a discapito di cosa?
Leggo da sempre solo i titoli che voglio leggere, non ho mai accettato di fare la recensione a un libro che non avrei letto di mia spontanea volontà e non penso che cambierò il mio modo di fare.
Leggere, per me, continua a essere un piacere - anche se è formativo in ogni senso - e non voglio che diventi un lavoro vero e proprio.
Quindi, appena possibile, riprenderò a scrivere le recensioni con il mio solito piglio critico.

La seconda cosa che ho letto, l'ho letta su una pagina Facebook di autori.
Io non vado forte in auto promozione. Evito il più possibile lo spam, che mi infastidisce anche quando lo subisco. Alcune pagine, purtroppo, sono sempre più luoghi in cui fare pubblicità alla propria opera. Il problema è che ci si fa spam uno con l'altro, ma non ci interessa molto il lavoro degli altri. Per qualche anno ho letto ogni singolo post di promozione, ho seguito i link di quelli che erano quantomeno scritti in italiano, aperto anteprime di quelli la cui sinossi poteva sembrare interessante, acquistato il poco che in effetti mi interessava. Poi ho smesso, per leggere solo le persone che conosco e frequento da un po', per seguire i loro consigli se segnalano qualcosa.
Purtroppo tra "emergenti" c'è questa specie di obbligo a comprarsi e sponsorizzarsi a vicenda. A me piace poco questa abitudine, perché falsa la percezione di chi scrive. Dà un feedback falsamente positivo all'autore e un'idea dei tuoi gusti bizzarra a chi invece legge e segue abitualmente la tua pagina. Ci sono romanzi di amiche che non leggerò mai. Molte mie amiche non leggeranno mai me. E non mi importa che scrivano recensioni o post al sapore di caramello se non piace loro il mio modo di scrivere.
Raramente condivido post che promuovono qualcuno solo per fare un piacere. Perché non lo trovo corretto. Mi importa di promuovere i lavori che trovo interessanti e spero che chi trova interessanti le mie storie abbia voglia di fare altrettanto. Non lo chiedo e non lo faccio su richiesta. Perché, come per le recensioni, non voglio che quello che condivido passi per qualcosa che faccio in cambio di altrettanta"devozione". Non mi importa se così facendo vendo centinaia di copie in meno.
Credo anche che sia controproducente indurre i propri "colleghi" ad acquistare un libro solo per farci un piacere se poi a loro non interessa leggerlo. Penso che ognuno di noi abbia un certo numero di lettori, che ogni libro abbia un determinato pubblico e che non si possano falsare certe cose. Non senza conseguenze.
Ora, è possibile che io sia un po' stronza, ma sentirmi obbligata a condividere la pubblicità di un perfetto sconosciuto altrimenti non verrà fatta a me, non mi piace. Non mi piace affatto. 

7.12.15

La donna che dovremmo essere - Singolare Femminile 2/l'analisi illogica del testo 2bis

(Post doppio a tema unico)
Tutta la sera che mi gira in testa una frase che ho copiato su un post it senza segnare da dove veniva. L'ho riconosciuta subito, in realtà, ma volevo essere certa. Così ho aspettato che il kindolo si ricaricasse e sono andata a cercare la pagina esatta. Devo per forza estrarne altre parti, perché quella frase, anche se significativa, da sola non basta.
Quando ho letto il romanzo di Silvia Longo ne sono rimasta folgorata, per la sua voce, per quel modo sottile ed educato di dirti le cose senza mai eccedere o sparire sotto al peso di una storia che vuole narrare.
Foto: Matteo Malagutti
Quello che ho subito sentito è che il suo modo di raccontare una sola donna, Viola, è in realtà il modo di raccontare noi tutte. Il nostro modo di amare restando spesso un passo indietro. Non rispetto al successo del nostro uomo, indietro nella nostra vita. Come fosse meno importante della sua, o di quella di un figlio. Questo dare incondizionato, che si chiede alla "madre" - che però è madre anche per il compagno, non solo per i figli, ed è madre anche per il padre - che si chiede come fosse naturale, tanto che a un certo punto lo diventa. Questo farsi carico di ogni respiro dell'altro. Adattarsi a tutto per lui. Rinunciare a sé, per lui.
Ecco, credo che questo dare non sia naturale affatto. Credo lo sia in certi casi e in certe alchimie e che in altri contesti diventi una prigione. Gabbia in cui si trova Viola, perfettamente inadeguata all'idea che lei stessa ha di ciò che dovrebbe essere.
Contorto, femminile. Un luogo in cui a noi donne capita di finire senza riuscire a farne a meno. Avere quel ruolo di "madre". Come se il mondo intero volesse questo da noi.
Invece, come capita a Viola, questo ruolo scatena un senso di rabbia e impotenza che è capace di stritolare una vita intera e farle vestire panni non suoi. Fino alla liberazione, che è dolorosa e traumatica, che la priva di un ruolo costruito in anni di limature. Liberazione che Viola stessa desidera segretamente sentendosi in colpa e punendosi con un peso da portare che si fa insostenibile davvero nel momento in cui si trova sola con sé, e con Mauro.
Come un suo doppio, quest'ultimo, un io dialogante che la mette al confronto con tutte le sue contraddizioni di donna "madre" che rivuole per sé il ruolo di donna "femmina" , rimasto nascosto per tutti gli anni in cui ha seguito quella che "doveva" essere la sua strada. Metodica, come l'uomo che ha scelto, Viola ha lavorato per anni al suo stesso smantellamento quando si trova davanti la vita - finalmente - senza rinnegare un solo attimo d'amore ma riconoscendo tutto il non-amore che ha vissuto. Soprattutto nei suoi stessi confronti, riversandolo sulla figura di Federico per poi specchiarcisi.

"Oppure sì, ci amavamo, ma non era il genere di amore che serviva all'altro."

Perché il problema di questa donna che ci siamo cucite addosso è che ci impedisce di essere ciò che siamo. Ci rende succubi, o violente, o represse, o infedeli, o frustrate, depresse, tristi, grasse. Ci fa rifugiare in personaggi di film o libri, illudere che la vita vera sia questa.
Poi qualcosa accade e noi ci risvegliamo, se accade davvero, e non sappiamo più chi siamo. Abbiamo paura perfino di respirare. Ci sentiamo in colpa se ci rendiamo conto di non essere quello che gli altri hanno sempre creduto che fossimo. Ci sentiamo "in difetto" pensando all'amore che abbiamo dato ogni giorno senza che fosse vero amore.
Un amore fatto non solo di non detto, perché a volte anche spiegarsi non basta e a volte nemmeno noi sappiamo che c'è un altro modo di vivere le cose. Un amore fatto di non visto e non vissuto, di non compreso perché in qualche modo dato per scontato. Anche senza volerlo, ed è questo il senso di quel "serviva all'altro". Un amore fatto di gentilezze e regali, ma anche di invisibilità di fronte alle necessità del partner. Invisibilità cui noi spesso ci prestiamo senza porci domande. O facendoci quelle sbagliate.
Perché non è un non-amore, è semplicemente un amore che non fa crescere. Che non fa bene a entrambi, che permette di reiterare gli stessi errori all'infinito e di crogiolarsi nelle proprie paure, illusioni, sicurezze. Un amore comodo, in qualche modo, finché non comincia a stare stretto davvero.

"Alla fine avevo cominciato a immaginare una vita senza di lui, che in qualche modo si concludesse la nostra convivenza. E nello stesso tempo mi sentivo colpevole di desiderare la libertà, la mancanza totale di obblighi, una vita da spendere a piacimento solo con le mie risorse, in base alle mie necessità. Una vita mia, finalmente."

Contorto, femminile. Il romanzo di Silvia è un ritratto che si adatta a ogni donna, ché almeno una volta nella vita ci si ritrova a farsi le stesse domande di Viola. Almeno una. E la risposta è vita, quella che ti sa stupire quando meno te lo aspetti e nei modi meno "comodi". La vita fa sempre un po' male prima di fare bene ed è il confronto con noi stesse, con la realtà, con l'altro-sconosciuto-noi che ci fa crescere e diventare le donne che dovremmo essere e non più quelle che il mondo ha pensato per noi. Donne non incapaci d'amore, ma capaci di amare nel modo giusto.
Capaci di sciogliere nodi interiori portati per secoli. Per vite intere. Capaci di usare il tempo al meglio, di non perdere una battuta. "Il tempo tagliato" non è la storia di Viola che ha perso il marito, né di lei che ha trovato un giovane nuovo amore. Non la storia di una fuga che è tuffo all'interno di un sé. Tutto questo solo per portare Viola a quello che non si è mai permessa di essere.

Quale frase ho trascritto? Quale ho riconosciuto come la voce di Viola e di molte donne?
"Ma c'è una cosa che voglio dirti. Anche senza amore, è per amore che l'ho fatto. Dall'inizio alla fine. Come una missione, per avere un senso. Perché nessuno soffrisse. A parte me."
Ecco, forse dovrebbe essere diverso il senso che ci diamo. Il nostro non è "quel" dare e non è tanto questione di non ricevere in cambio, ma di ricevere la cosa giusta. Per tutte le persone coinvolte. Prima che il tempo finisca senza averlo danzato fino all'ultima nota, l'amore.