9.9.16

L'analisi illogica del testo 10 - Ottusi e infelici

Un po' il filo conduttore di "Scream", in fondo, ciò che facciamo per cadere in trappola.
Quelle idee stupide che vengono quando si è colti dal panico; un po' come in amore, a volte, anche.
So che in qualche modo, a parte i primi episodi di questa strana serie di post di analisi illogica, finisco sempre per prendere come metro di paragone un horror. Tant'è.

L'horror insegna a vivere, o meglio ci insegna quanto siamo stupidi, brutti, cattivi e senza speranza. Inutile mascherarci.

Così lo sappiamo già che Louis Creed, il protagonista di Pet Sematary di King, farà un errore seppellendo il gatto nel cimitero indiano. Perché è una cosa stupida e terribilmente umana. Piuttosto che spiegare "la morte" alla bambina più grande preferisce l'incognita della magia. E infatti il gatto mica torna normale. Ma è un gatto. Un animale, sarà quello che ha fatto andare storto qualcosa. E il gatto si può sempre sopprimere...
Stupido e umano.
Così come è stupido e molto umano quando a morire è il piccolo Gage. Troppo piccolo per andarsene, troppo dolore per tutti. E lo capiamo che sta facendo un errore quando ripete l'esperimento del cimitero indiano, ma capiamo benissimo perché lo fa. Perché siamo umani e ci piacerebbe poter fare una scelta in un momento di dolore che invece di scelte non ne dà.

E infatti non funziona, nemmeno con Gage. Bellissimo demonio biondo. Glielo aveva detto di non farlo, quel maledetto fantasma che lo perseguita da quando è arrivato a Ludlow, più volte. E niente, anche se qualcuno più saggio di noi prova ad avvisarci noi andiamo imperterriti col nostro sacco in spalla fino al cimitero indiano. Perché l'altra volta è andata male, ma questa volta no. Invece sì, va male un'altra volta. Non può andare diversamente, lo sappiamo noi e lo sa lui - nel profondo - ma preferisce raccontarsi una storiella. Quindi, dopo il disastro, ecco che Louis ci casca per la terza volta, non pago delle perdite subite fino a quel momento.

«Steve», disse, con voce alterata e incerta. «Ciao, Steve. Vado a seppellirla. Devo farlo solo con le mie mani nude, credo. Ci vorrà fino a stasera, forse. Il terreno lassù è molto sassoso. Non mi daresti una mano?»
Steve aprì la bocca, ma non ne uscì neppure una parola. Nonostante la sorpresa, nonostante l’orrore, lui voleva dare una mano a Louis. Chissà perché, là in mezzo a quei boschi, sembrava ben fatto, sembrava molto… molto naturale.
«Louis», riuscì a dire alla fine, «cos’è successo? Lei era… era nella casa in fiamme?»
«Ho aspettato troppo a lungo, con Gage», ribatté Louis. «Qualcosa si era impadronito di lui perché ho aspettato troppo. Ma con Rachel sarà diverso, Steve. So che sarà diverso.»
Barcollava un poco e Steve comprese che Louis era impazzito: lo capì perfettamente. Louis era folle e di una stanchezza abissale.


Inutile dire che cosa succederà dopo.
Il romanzo non lo dice, non tutto. Ma certo lo sappiamo, come lo sa Louis, che non può andare bene.
Eppure lo fa: compie ogni singolo passo verso la follia e la morte. Verso il fallimento.
Verso quello che aveva cercato di evitare con tutto se stesso.
In questo caso la perdita della sua famiglia, la morte e la sofferenza, che sono poi buona parte delle cose che temiamo tutti.
Sono anche cose che succedono facilmente.




Sto ragionando da tempo sulla perdita, sul perché e come le cose finiscono. Non perché voglia evitarmelo, non si può. Noi cambiamo, inevitabilmente, e il cambiamento ci fa paura perché è più semplice restare attaccati ai pochi dati certi che abbiamo, ai meccanismi che conosciamo.
Una leggenda tibetana narra che l'uomo sia nato dall'unione tra una scimmia e un demone. Non mi è difficile crederci. Perché un po' animali lo siamo, pure tanto, ma pensiamo di non esserlo. Perché siamo un tantino ottusi, quando si tratta di combattere le nostre paure o realizzare i nostri desideri.
Tendiamo a compiere le stesse azioni anche quando non hanno dato buoni risultati.
Tendiamo a non imparare dai nostri errori, o dalle esperienze negative. Così possiamo ripeterle all'infinito e avere lo stesso risultato altre mille, duemila, diecimila volte.
Insistiamo diabolicamente, nella strana convinzione che modificando una sola variabile dell'esperimento il risultato sarà differente.
Così in tutto.
Come in amore. E anche qui torno ai miei classici (orrore e amore, che siano parte di una sola cosa?).

Perché non impariamo mai dai nostri errori e tendiamo a ripetere la medesima modalità relazione dopo relazione. Comunque vada. Anzi, peggiorandola a volte. Non tenendo presente che abbiamo di fronte persone diverse e che magari per ogni persona c'è un modo diverso di interagire per instaurare un rapporto decente.

Ma noi no, caterpillar. Ci piace un'idea di relazione e vogliamo appiccicarla alle persone con cui stiamo. Ci piace quell'idea e proviamo a ripeterla finché non sarà esattamente ciò che vogliamo. Per poi magari fallire ugualmente per una variabile differente dalla volta prima.
Nella scelta dei partner, nel comportamento che teniamo, nel mostrarci diversi da ciò che siamo pur di farci accettare...
Un po' come tentare di avere un bambino per incastrare un/una fidanzato/a, anche fingendo, per poi tentare di avere un bambino per salvare un rapporto, cosa che "ai miei tempi" accadeva spesso.
Usiamo giochetti, piccoli inganni, strategie. E roviniamo tutto, spesso.
Tutto perché "la volta scorsa ho aspettato troppo, ma con Rachel sarà diverso".

Invece di fare la cosa saggia ed evitare la catastrofe.
Perché appunto siamo tutti diversi, reagiamo a cose diverse, abbiamo paure e desideri simili ma non uguali. Abbiamo un passato che è inciso nella carne. Abbiamo bisogni differenti.
Quello che per un po' ha funzionato con qualcuno, non necessariamente funzionerà con noi.
Forse basterebbe non ripetere gli schemi, non fare ciò che ci si aspetta da noi (ciò che ci aspettiamo da noi stessi) e non cadere in trappola. Per non essere ottusi e infelici.

Siamo davvero condannati a ripetere sempre gli stessi errori?