30.4.07

Sweet nightmare

Lui mi cerca nei miei sogni. Lo incontro spesso ed ogni volta sono immersa nella sua dolcezza. Quasi sempre le sue mani cercano le mie. Quasi sempre le sfiorano teneramente. Lo fanno di nascosto, come fossimo amanti segreti, come se per tenersi per mano ci fosse bisogno di un permesso speciale. A volte, invece, ci cerchiamo insieme ed insieme teniamo il contatto, ci accarezziamo le dita, le intrecciamo.
Siamo sempre seduti vicini e parliamo a bassa voce, io lo guardo nei suoi occhi scuri e ascolto la sua voce che mi racconta cose che non so.
Più di una volta mi ha passato un braccio sulle spalle, tenendomi contro di se, ed io ho accettato il suo conforto e il suo calore senza mai sentirmi in pericolo.
L'unica volta che le sue labbra si sono posate sulle mie ho sentito una gran gioia e la calma più totale allo stesso tempo.
Mi cerca nei miei sogni ed io lo ricordo appena sveglia e vorrei che fosse con me, ma è un pensiero che dura un attimo. Nei miei sogni è sempre presente. Quello è il suo posto.
Tutto quello che mi dà mi resta appiccicato addosso come un profumo incredibilmente adatto alla mia pelle, mi riempie i polmoni e mi dà aria per cominciare la giornata.
Lui è parte del mio mondo. So che non se ne andrà. Lui è il mio incubo preferito...

25.4.07

Diabolica attrazione

Lo vedeva ogni giorno, intento a lavorare alla sua casa. Era bello. Di quelle bellezze statuarie che ti fanno voltare per guardarle ancora. Il suo corpo stava al sole e brillava di oscurità, talmente nero da sembrare oro, coperto dalla polvere e dal cemento. La pelle liscia e perfetta. I muscoli forti ed allenati dal lavoro. Una tentazione irresistibile.
Fu difficile non guardarlo negli occhi, vederlo come un corpo e niente più. Dal suo sguardo usciva una forza travolgente. Occhi neri, ciglia lunghe e folte e nere come lui. Come i suoi capelli che brillavano di riflessi platino pur nel loro essere scuri come la notte e ricadevano mossi intorno a lui. Le labbra erano proporzionate, scure e perfette, ed i suoi denti bianchi e precisi.
Lo vedeva ogni giorno salire e scendere dalle impalcature, entrare ed uscire dalle stanze in cui lei avrebbe vissuto. Lui impregnava quel posto.
Le stava lontano, ma mai abbastanza. Sapeva che lei lo avrebbe guardato ogni volta ed ogni volta cercava i suoi occhi. La provocava con gli sguardi, le faceva assaggiare a distanza il suo frutto proibito. E lei non riusciva a non guardarlo, a non sperare di poter allungare una mano e sentire la sua pelle morbida sotto di lei. Sapeva che quella pelle era morbida. Lui sembrava più leggero dell'aria e non lavorava facendosi venire i calli. Sembrava protetto dal tempo, dal sole, dalla fatica, come fosse una visione, un'allettante allucinazione. Quasi diabolica.
Lei poteva disegnare il suo corpo in ogni posizione, vestito solo di un paio di calzoncini rossi, così come lo vedeva andare e venire tra le mura.
Voleva avvicinarsi, ma lui glielo impediva, la sgridava, annunciava il pericolo. E lei saliva sulle impalcature ogni volta che lui non c'era, lasciava il segno così che lui sapesse che c'era stata.
Poi venne la parola e con la parola lui giocava. Voleva che lei facesse i capricci, voleva che cadesse in tentazione, voleva portarsela via, mente e corpo.
Lei si scopriva piano e lui assimilava tutte le sue parole, tesseva la sua tela finchè non fu certo di poterla prendere.
La invitò tra le mura, camminarono sui calcinacci, vicini ma senza toccarsi finchè non furono al riparo da tutti. Gli altri operai gli sussurravano di starle lontano, ma mentre fissava i suoi occhi in quelli di lei sapeva che ne valeva la pena. Poteva rischiare.
Parlò, le offrì su un piatto d'argento la testa del suo fidanzato, aspettò che lei sorridesse e la baciò, bloccandola contro i mattoni del muro. Lei si perse in quel bacio ed in quella pelle, e nei suoi occhi, le labbra, i denti, le spalle, la vita, le gambe. Tutto.
Lui le prese solo il cuore. Nient'altro. La voleva portare con se così com'era, per renderla moglie e schiava nel suo mondo. Non voleva darle nulla, solo prenderla per sè.

22.4.07

Vivere

Prima o poi la leggerete dinuovo...
Per ora devo toglierla.

2391 - 1 - Volut

La terra del vicolo era bagnata, come se avesse appena smesso di piovere. Purtroppo non era possibile che piovesse, non a Volut e nemmeno nelle altre città sotterranee. Forse nemmeno in superficie pioveva più, per quel che ne si sapeva...
Samantha e Nicholas camminavano nella penombra con le mani pronte sulle armi. Non erano di quella zona e anche lo fossero stati... beh, era sempre meglio esser pronti. Le guardie, come anche gli altri gruppi erano sempre pronti a dare grane.
Cercavano i loro compagni, impegnati in una spedizione punitiva. Susan, appartenente ad una banda rivale, aveva fatto arrestare uno di loro. Non poteva passarla liscia.
La vita nelle città sotterranee non era mai stata facile, ma le difficoltà maggiori le si avevano da qualche decennio. La popolazione tendeva ad aumentare eccessivamente, quindi sacerdoti e politici si erano accordati per una drastica riduzione dei pericoli delle nascite. La legge puniva chiunque venisse trovato in atteggiamenti "romantici", chiunque producesse o consumasse alcool, chiunque ballasse in modo provocante. Non erano gradite feste, riunioni, cene in compagnia. Non era permesso avere più di un figlio da un decennio e solo le coppie regolarmente sposate potevano procreare.
Non c'erano abbastanza medicinali per una contraccezione di massa. Non c'era abbastanza spazio per tutti, non c'era cibo, nè acqua. La vita in quei rifugi era stata un ripiego, ma ormai erano lì da troppo tempo. Quasi due secoli.
Secoli in cui la scienza si era adoperata solo per rendere vivibili quei cunicoli, per mantenere sane le persone che vi abitavano, per fare sì che avessero proteine, vitamine e liquidi a sufficienza, usando tutti i mezzi possibili per rendere la vita in quelle città il più vicino possibile alla vita che svolgevano fuori.
Ma ora, col passare del tempo, diventava sempre più difficile controllare che tutto andasse bene. La gente era difficile da controllare, si sentiva in gabbia e troppo limitata. Finchè c'era la paura delle radiazioni era più facile, ora anche ciò che restava della guerra era storia e qualcuno cominciava a credere nella possibilità di uscire dal sottosuolo. Si cominciava a sperare.
I giovani erano inquieti ed inclini a ribellarsi alle regole, gli adulti non riuscivano a tenerli a bada. Nella migliore delle ipotesi si aggregavano in bande innocue, in cui al massimo bevevano e ballavano, rischiando l'arresto e una breve condanna. Oppure, come capitava sempre più spesso, ragazzi e ragazze sfogavano le loro energie in modo violento, giravano armati e qualche volta finivano con l'uccidere i rivali (il che, a dire il vero, non dispiaceva molto alle autorità). Erano proprio come Samantha e Nicholas, come i loro amici e come il gruppo cui apparteneva Susan.
Certe volte, per divertirsi, le ragazze di un gruppo attiravano in trappola ragazzi di un gruppo rivale con la scusa di bere o di fare sesso. Poi, d'accordo con le guardie, si facevano beccare e il poveretto veniva arrestato, riempito di botte e trattenuto in prigione. Alle ragazze il merito di aver fatto arrestare un pericoloso sovversivo...
Quella era la colpa di Susan e per quello stava pagando.
Samantha, detta Sam, non aveva nemmeno vent'anni. Portava i capelli biondi legati in una coda di cavallo ed era brava coi coltelli e con le pistole. Aveva già ucciso, una volta. Per questo era considerata uno dei capi della sua banda. Per questo, i suoi genitori la ringraziavano. Aveva ucciso l'uomo giusto e lo aveva fatto al momento giusto. Loro erano troppo distrutti per poterlo fare, mentre Sam non aveva nemmeno dovuto pensarci.
Lo aveva guardato negli occhi e gli aveva sparato proprio mentre usciva dalla prigione in cui aveva ucciso Mary, sorella di Sam e sua amante. E lo aveva fatto per essere liberato.

21.4.07

Cose

Qualcosa è cambiato. Lo sento.
Le tue mani indugiano sulle mie appena possono, così anche i tuoi occhi mi cercano più spesso. Non ho bisogno di guardarti per accorgermene. Sono brava a percepire certe vibrazioni. Riusciamo a capirci, noi due. In certi momenti mi rendo conto che basta uno sguardo e so che anche tu pensi alle stesse cose.
Vorrei tenerti per mano a lungo e parlarti senza parlare. Vorrei ascoltare con te ancora una volta la musica che amo, con te ascoltare le parole e con te vederle come presenze fisiche nel nostro mondo. Vorrei riprovare l'emozione di "World in my eyes", la dolcezza di "Somebody" e la sfrontatezza di "Blasphemous Rumors" e ancora la verità di "Enjoy the silence". Perchè so che tu le senti, queste cose.
Non l'ho cercata io questa sensazione. Succede. Non ci avevo mai pensato prima.
Certe volte basta un solo istante perchè cambi tutto, buffo no? Una mano che ti sfiora per salutarti e tutto sembra improvvisamente chiaro. E non lo è.
Vorrei baciare le tue labbra proibite per rendere questa comunione di spirito ancora più forte, vorrei farlo perchè diventi vera anche se non lo sarà mai.
Mi basterà sapere che ci sei, che mi senti, che ascolti le mie parole come fossero davvero importanti e che ti ricordi quel che dico. Che confronti ciò che ti piace con ciò che piace a me, che respiri la mia stessa aria e che ovunque sei io sono con te, nei tuoi polmoni, tra i tuoi capelli, dentro ai tuoi occhi e sotto alle tue unghie. Perchè io è così che ti sento.
Quanto sei bella...

17.4.07

Francesca


J&J - 1 - Cacciatori

Nel suo nascondiglio, l'uomo tremò. Le notti erano ancora fredde e l'umidità intaccava ogni parte del corpo. Sapeva di doversi muovere e di doverlo fare in fretta. Col buio tutto era più facile.
Da qualche parte, in quella dimensione o in un'altra, Jane stava combattendo la sua battaglia con il virus. Nessuno era certo della sua sopravvivenza. Dipendeva tutto da lei.
Lui, una volta certo di esser solo, si mosse. Non aveva altra scelta, doveva raggiungere il Centro prima dell'alba. Doveva farlo per Jane, perchè se non avesse fermato il virus lui avrebbe dovuto ucciderla. Come ogni altro che era stato infettato. Non poteva permettere che una donna con le sue capacità divenisse succube dei persuasori, se non una di loro. In fondo nessuno sapeva ancora quali fossero le caratteristiche che permettevano il mutamento.
Avevano combattuto insieme diverse volte da quando tutto era cominciato. Si erano trovati di colpo nell'altra dimensione e li avevano visti, poi si erano visti e avevano capito che cosa dovevano fare. Combattere fino all'ultimo respiro, fino all'ultimo mostro.
Dopo averne eliminati alcuni e messo in fuga i restanti persuasori, avevano contato le vittime, gli infetti. Loro erano molto veloci, non si riusciva a fermarli senza vittime. E di vittime ce n'erano sempre in quantità.
Jane e quell'uomo che ancora non conosceva non sapevano niente dei persuasori, fino ad allora. Poi ne seppero fin troppo. La Clinica trovò entrambi, non si sa come. Avevano un apparecchio, forse, che captava le onde della loro trance.
Da quel momento Jane e Jack erano diventati dei cacciatori. Non avevano mai smesso di uccidere i mostri nell'altra dimensione, dalla loro postazione al Centro.
Jack era solo ed al freddo. Ora.
Attraversò la piazza e si avviò verso il gruppo di case non illuminate. Dove non c'era vita, non c'erano nemmeno i persuasori. Avrebbe continuato a camminare fino al centro, fino all'alba. Fino a Jane, in ogni caso. Era stato lontano troppo a lungo e la sua ricerca non aveva fruttato.
Accidenti a lui, in parte era colpa sua se Jane era in quello stato, non avrebbe dovuto lasciarla sola nemmeno un istante, laggiù.
Camminò e camminò, ora dopo ora, mentre lontano il cielo cominciava a schiarirsi. Era tardi, sempre più tardi, ed il Centro era ancora distante. Jack cominciò a sperare che non lo vedessero. Gli infetti di solito non avevano una gran vista, ma nella mutazione acquistavano forza e in quella dimensione lui non era abbastanza veloce. Doveva arrivare prima della rivolta. Salvare il salvabile, portare via Jane e gli altri cacciatori, salvarsi.
Aveva sbagliato di grosso credendo di essere abbastanza preparato. Era sempre stato una testa calda e questo era l'ennesimo errore. Se suo padre fosse stato vivo non gliel'avrebbe perdonata. Si era lasciato attirare in una trappola e un persuasore l'aveva portato via...

14.4.07

Nella foresta

Uscendo dalla stanza si fermò ad osservare quell'otto in ottone che brillava sul legno scuro. Era un albergo strano, il suo. Tutto sembrava inverosimilmente bianco e pulito, a dispetto di ogni previsione in un paese del terzo mondo. Le porte, le scale e gli altri infissi si stagliavano nere su tutto quel bianco come a dire: "io sono qui".
Lei indossava un vestito leggero, una garza di cotone che si appoggiava appena sulla pelle già abbronzata da mesi di viaggio. Sulla sua pelle quella tonalità ricordava l'acqua marina.
Scese le scale, sfiorando con le dita la ringhiera, sicura di non averne bisogno, forte del suo equilibrio. La luce del sole creava un bizzarro riverbero in ogni angolo di quel posto, che alla fine sembrava brillare di luce propria.
Fuori, invece, tutto era verde.
Il prato, le siepi, le palme. I tronchi degli alberi, persino. Un colore ipnotico, penetrante. Giusto il tempo di abituarsi e non se ne poteva più fare a meno.
Lei stessa usciva dalla stanza solo per immergersi in quel verde. Percorreva giorno dopo giorno tutti i sentieri possibili, cercandone di nuovi, come per perdersi definitivamente in quel sogno.
Anche quel giorno, uscendo, si era inoltrata da sola lungo i sentieri della foresta. Subito la sua percezione ritornò animale.
I suoni sordi dei rami e delle foglie, le noci di cocco che si staccavano e piombavano a terra con un tonfo fangoso, il movimento furtivo degli uccelli e dei piccoli animali che temono l'uomo predatore.
L'odore di terra umida, di acqua che scorre lenta, di muffa che cresce, di vita.
E la meraviglia della visione di tutto quel verde che scintilla in milioni di sfumature. Seguire un sentiero diventa quasi impossibile se si tiene il naso puntato verso il tetto di foglie infinite.
Così lei camminava, assorta nelle sensazioni che quelle sue passeggiate le davano, certa che se le sarebbe portate via al suo ritorno alla vita di sempre. Proseguì, lenta, nella sua perlustrazione. Era un sentiero nuovo, uno di quelli il cui ingresso è sempre nascosto dalla vegetazione. Eppure sembrava così battuto...
Quando le sembrò di non poter proseguire spostò l'ennesima foglia gigante e trovò la radura.
Rimase senza fiato per la bellezza di ciò che vide davanti a sè. Rovine. Pietre levigate dalle mani e dal tempo, squadrate, impilate, ordinate per essere utili all'uomo. E una vasca.
Una vasca enorme con acqua pulita e giovani ninfee che ne prendevano possesso. Una scalinata di pietra indicava la via all'acqua e fiori a cascate la incorniciavano.
Senza pensare lei si tolse il vestito e s'immerse, nuda, nell'acqua fresca. D'improvviso un gruppo di bambini dalla pelle ramata invase la radura e, vedendola nell'acqua, ridendo la imitarono. Nuotarono insieme, giocarono a lungo, senza badare alle differenze, ai colori, alla pelle nuda, come se fossero tutti fratelli e sorelle, finchè non furono stanchi.
Lei uscì dall'acqua. I capelli neri le si incollarono lunghi sulle spalle e sulla schiena, disegnando insoliti tribali sulla sua pelle, così come faceva l'acqua che scivolando sulla sua pelle ritornava alla vasca, come se ne temesse la lontananza.
Indossò il vestito sulla pelle bagnata, rimise i sandali e tornò per il sentiero che l'aveva condotta là, senza dubbi sulla strada da fare.
Quella notte sognò la vasca, ed il sogno la turbò. La vasca divenne la sua ossessione, come una strana malattia. Fece alcune ricerche per scoprire quali origini avesse, ma il tutto sembrava molto oscuro. Finchè non trovò una donna, che le raccontò una strana storia riguardo ad un rituale di fertilità che si svolgeva in quella vasca nell'antichità, quando si pensava che nell'acqua vivesse un essere vermiforme e che quest'essere fosse un dio.
Partì dopo una settimana, come previsto. Era tornata ogni giorno alla vasca ed ogni giorno si era bagnata coi bambini, ogni notte aveva sognato di immergersi.
Ogni volta aveva amato il dio che in quella vasca viveva.
Quando tornò alla vita di sempre, lei non era più la stessa donna di prima.

10.4.07

Il cielo sopra

Nel sogno le colline davanti a me hanno i colori dell'oro e dei boschi. Il grano ondeggia al soffio del vento mentre io cammino lungo un sentiero mai tracciato da piede umano. Sulla collina che ho davanti vedo tre alberi carichi di foglie, che gettano un'ombra che promette frescura attorno a loro. Non so perchè, ma nella mia mente Zucchero canta "Il volo" ed io continuo a camminare perchè, di questo son certa, sotto ad uno di quegli alberi tu mi stai aspettando. Lo so perchè ti sento molto chiaramente mentre mi dici che stai bene. Perchè so che stai bene.
Anche ora ne sono certa.
La sera, fuori città, dove il cielo è più scuro che mai e dove le stelle brillano più forte per ognuno di noi, so che ci sei e che guardi il cielo anche tu. So che ti dà la stessa calma che dà a me, lo stesso senso di far parte di questo universo, di essere parte di quelle stelle anche se questo non è il nostro luogo.
Perchè io, qui, ho imparato a viverci. Nonostante tutto. Vedo la stessa immondizia che vedevi tu, ma là dietro vedo anche il mare. Sento la puzza, ma riesco a sentire l'odore della terra. Questo, la maggiorparte delle volte, mi basta.
Sapere che non c'è solo quello che riesco a vedere, ma molto di più.
Sapere che mi basta guardare il cielo per non sentirne il peso.
Sapere che sono così inutile e allo stesso tempo così importante, proprio qui ed ora.
Sapere che non esisto se non in questo istante in cui provo amore.
(Spiacente, ho dovuto cancellare parte di questo brano in quanto ne ho momentaneamente ceduto i diritti editoriali...)