28.12.23

Dita mozzate sul campo di battaglia

Mi sono ricordata da poco di essermi rotta un dito facendo pole. Niente di che, in ogni caso se fossi andata in ospedale mi avrebbero solo steccato l'anulare facendomi cazziare pure sul lavoro, quindi ho fatto che mettere la mano nel ghiaccio e dimenticare l'accaduto. 


Non ci ho pensato più e in effetti neanche mi ricordo cosa stessi provando a fare, ché tanto in uno sport tutto lividi ed escoriazioni capita quasi ogni giorno di rimediare una botta e alla lunga non ci si fa più caso.

Io poi ho la pelle delicata e ciò fa di me una pazza masochista scriteriata. Ma al cuore non si comanda, così come da copione ho continuato a lavorarci sopra (al dito) fino a non sentire più il fastidio. 

Non è stata di sicuro la prima volta e nemmeno l'ultima che mi facevo danni a pole. Come quando cercando di farmi fare un video da Ilenia con la seconda "butterfly extended" della mia vita ma essendo stanca dalla lezione appena finita ho sbagliato a dare la spinta e mi sono trovata con il palo che girava più del previsto, ho sentito che perdevo la presa e sono volata di ginocchia sulle piastrelle da una certa altezza e a volte mi sembra ancora di sentirle scricchiolare. Ed era solo il primo anno... Più che altro è che ogni volta che voglio fare la "sborona" e vantarmi dei risultati ottenuti finisco per distruggermi.

Mi sono stirata, contratta, infiammato tendini e muscoli, rotta unghie e staccata nei dalla schiena ma non ho mollato mai per il dolore. Ho imparato a non farmi video da pubblicare, solo frammenti che potevo cancellare dopo aver estratto una o due immagini, ché tutte le volte che volevo dimostrare qualcosa agli altri finivo per farmi male. Non fisicamente.

Mi sono chiesta più volte perché continuare senza mai trovare una risposta e soprattutto continuando a soffrire mentre scivolavo giù. La depressione è una gran brutta bestia, soprattutto quando non ti accorgi che arriva. Così, dopo lo stop tra Covid e ernia - più protrusione lì accanto - tornare è stato ancora più doloroso che restare lontana. Non c'era più niente. Nessuna soddisfazione, nessuna "famiglia", pochi volti noti, la vergogna costante di guardarmi allo specchio e non trovarmi più. Ancora.

Sommando impressioni e coincidenze tra questo abbandono e il primo abbandono alla danza ho capito che c'era un nesso e che avrei dovuto lavorare diversamente su me stessa per venirne fuori - se mai ne uscirò del tutto. Ho smesso di ballare per una ferita, è vero. Ma più di ogni altra cosa ho smesso di farlo perché mi volevo punire e in qualche modo è successo anche con la pole. 

Sono di quelle persone che non "possono" stare bene, non che non lo desiderino ma che non vogliono concederselo mai del tutto. Metti per paura della delusione in caso qualcosa andasse storto, metti per l'ansia da prestazione, metti per le continue esperienze negative che ho avuto ogni volta che mi sentivo a posto dov'ero. Non il brutto anatroccolo che sono ma splendido cigno. Ecco, di essere cigno non me lo sono mai perdonato, né concesso del tutto. Sono quella del "mai abbastanza", che vorrebbe esser meglio di così ma poi per millesima motivi mai si sposta da dov'è. Perché è meglio il dolore certo di quello sconosciuto. Perché fino a un certo punto la mia testa vede solo quello: dolore. Disapprovazione, disappunto, disistima, inadeguatezza. Non razionalmente, ché sarebbe troppo semplice reagire, ma più sommerso in profondità fin da quando, da piccina e ragazzina, mi si ricordava che ero sì brava ma non abbastanza da "spiccare il volo" per quanti sforzi facessi. Non abbastanza brava a ballare, a scrivere, a cantare, a dipingere. Non abbastanza bella, non abbastanza interessante, non abbastanza tutto.

E no, non voglio piangere su questa cosa perché temo di averci già perso fin troppo tempo. Ho perso pezzi di me ovunque tentando di cambiare questa mia sensazione, pretendendo da me stessa una perfezione impossibile pur senza fare grossi sforzi. E no, senza lavoro non si arriva da nessuna parte nemmeno se si è dotati, figuriamoci se si arriva in ritardo sui tempi massimi o se si seguono gli impulsi di una mente bacata.

Hai voglia a farti mozzare dita e arti nel tentativo di riuscire in qualcosa se non ci credi nemmeno tu. E non è un lavoro facile mettersi lì ogni volta che si vorrebbe fare un passo e ripetersi che ne vale la pena: uscire, provare, sbagliare e riprovare. Cancellare le aspettative e godersi le proprie qualità.

Dite che si può, piano piano?