8.6.14

Fragilità diverse



Il barista ha due figli adolescenti.
Ne parliamo, ogni tanto, anche se io di figli non ne ho. Perché sono stata figlia, perché sono una maestra mancata e perché la gente con me parla spesso di cose impensabili. Non che parlare di adolescenti sia strano, lo è parlarne con me mentre bevo un caffè e il cane si gode i suoi tre biscotti a forma di osso.
I baristi ci viziano, da sempre.
Parliamo di quanto a volte siano un po' sciocchi, i ragazzi. Di quanto sia facile prevederli in alcune delle loro trasgressioni. Non sempre,ma se si ha un minimo di rapporto con loro le cose sono sì complicate ma non terribili.
Io sono stata un'adolescente terribile. Una merda, letteralmente. Arrabbiata, ingestibile, presuntuosa e spaventata a morte. Perché tutto quel dolore e quella rabbia altro non erano che paura.
Eppure sono passata attraverso tutto, in qualche modo. La perdita di ogni bene materiale, la minaccia e l'umiliazione, l'abuso e i sogni che non ero capace di gestire in modo costruttivo. Ma sono viva e ho superato i quaranta dignitosamente, ricostruendo quello che avevo sistematicamente distrutto e vedendo molti dei miei amici arrendersi e morire mentre io arrancavo e risalivo.
Non penso di aver avuto una gioventù facile, la mia psicologa mi diceva che era come se avessi vissuto almeno tre vite al posto di una ed era comprensibile che mi sentissi stanca, ma sono sopravvissuta.
Forse sopravvivere non è esattamente vivere, ma non mi sono uccisa.
Poi penso a mia madre, nata quasi sotto alle bombe e bambina coi soldati davanti. Tra soldati e partigiani con mia nonna, spaventate dai primi e minacciate dai secondi. Con una madre depressa e alcolista e con un padre insensibile e meticoloso. Con un nome da mantenere e apparenze insopportabili. La sua adolescenza di certo non è stata facile e anche lei è sopravvissuta. Come poteva, al meglio, se possibile. Ed era fragile anche lei, molto.
E ora mi chiedo, parlando col barista, che cosa sia successo negli ultimi venti o trent'anni. Cosa abbia reso quelli che potrebbero essere i nostri figli o che lo sono, così fragili da uccidersi per una bocciatura a scuola (quando facevo prima media, nel 1980, tutti i ripetenti andavano fieri del loro essere asini, diversi, tosti) o perché i coetanei li prendono in giro su facebook, o perché scoprono che non essere uniformati alle aspettative del gruppo è difficile e doloroso.
Mi chiedo chi non ha spiegato loro che non si può vincere sempre. Chi non ha detto loro che da che mondo è mondo c'è sempre un "cicciobombo" o una "zoccola", o una "ritardata", uno "sfigato", una "checca" e che non c'è ragazzino stupido al mondo che non approfitterà di una minima debolezza per farsi bello e credersi superiore. Ci si prende in giro, ci si azzuffa, ci si spacca qualcosa, si diventa amici. O si impara a passare sopra a certe cose senza sentirsi umiliati per più di dieci minuti. Sebbene per l'età ogni cosa sembri enorme, niente è la fine del mondo.
Eppure qualcosa dobbiamo aver sbagliato. Noi, che a quarant'anni suonati non vogliamo crescere. Noi che abbiamo in mente eroi e gloria, furbetti e immagine vincente. Noi che abbiamo orrore dell'età adulta e che se potessimo resteremmo giovani a oltranza. Noi che le cazzate dell'adolescenza le abbiamo fatte tutte e che se si ripresentasse l'occasione... noi.
Quelli che se l'insegnante sgrida nostro figlio andiamo a discuterci per lavare l'onta. Ma come si permette? Noi che però diciamo che la scuola non insegna più come una volta (ed è vero), noi che facciamo correre e urlare e distruggere, lasciando fare ai nostri figli qualsiasi cosa senza mai prenderli a calci nel sedere (oh no, non si dice, ragazza cattiva, i bambini sono belli, sono sacri, sono intoccabili); bambini e ragazzini cresciuti a "tutto e subito" come se a comandare fosse la legge del mercato (ops, questo forse è vero, ma è di nuovo colpa nostra), come se rinunciare fosse peccato capitale, come se fosse dovuto quello che invece va guadagnato.
Oh, quanto avrei voluto averlo io il dovuto, invece no. E sono viva. E quanto ancora avrei amato fare più danno di quello che ho fatto e seguire me stessa.
Quanto avrei voluto essere meno fragile di quel che ero, ma sono sopravvissuta ugualmente e so che tutto quello che vedo oggi mi piace ancora meno di quello che vedevo un giorno, ma fa meno male.
Ho imparato a perdere, a rinunciare, a faticare, a guadagnarmi ogni cosa. Nessuna scorciatoia, nessun regalo. E sono viva.

Nessun commento: