20.2.11

La testa

La testa, mozzata all'altezza del collo e con evidenti suture, era appoggiata su di un cuscino sotto alla scrivania. La donna che sedeva lì sembrava non vederla, assorta nella contemplazione delle opere esposte nella sala. Il parquet chiaro, le pareti bianche con stucchi dorati e le tende sgargianti sembravano rendere ancora più luminosa la stanza. C'era una preponderanza di rossi, di arancio carichi e di gialli.
Entrando in fretta restammo come imprigionati in tutta quella luce, quasi fosse stata creata per distogliere l'attenzione dal macabro trofeo di quell'uomo.
Lui era lì, imponente e massiccio nel fisico, quanto fragile e immaturo nella mente. S'era accorto subito del nostro ingresso e in qualche modo sapeva che l'avremmo vista, la testa. Qualcuno, una presenza, una profezia, ci aveva detto di salire lassù e noi l'avevamo fatto. Attraverso porte e scale di marmo bianco, labirinti da scalare, avevamo fatto tutto il percorso senza soste. Era urgente trovare la testa.
Solo che ora, vedendolo mentre raccoglieva il suo trofeo e ci guardava con rabbia, non eravamo più tanto sicuri del motivo per cui ci trovavamo lì.
Prima di sentire l'urgenza di salire lassù ce ne stavamo tranquilli nella nostra casa nuova. Bellissima la veranda in cui udimmo le voci. Era tutta di vetro e metallo, luce allo stato puro e con una vista mozzafiato. C'era un tetto fatto di tanti scudi che d'estate si potevano togliere per usare il posto come terrazza, c'era la piscina, le sdraio e il legno del pavimento era levigato e opaco.
Dentro, invece, le stanze avevano soffitti altissimi e grande spazio. Un loft sterminato in cui ogni mobile sembrava uscito dalla casa delle bambole; piccolo, minuscolo, quasi ridicolo. Dentro si respirava quanto fuori, era bello restarci di sera al lume delle candele e delle stelle o sotto la dolce luna.
Ma la quiete che provavamo là dentro era stata turbata dalla profezia. Una seconda testa, sì, avremmo trovato una seconda testa proprio in quell'edificio. La cosa era grave. Poteva significare solo che tutti eravamo in pericolo. Per questo avevamo attraversato di corsa lo spazio del pianerottolo, enorme, guardando le scale metalliche che torreggiavano sopra di noi protette da metri e metri di pannelli di vetro e si dirigevano ai vari palazzi che componevano il complesso. Per questo eravamo entrati nella tromba delle scale di quella galleria d'arte, salendo di corsa fino in cima dopo aver attraversato la porta ocra. Ci dovevamo salvare.
L'uomo con la testa mozzata tra le mani era alto, robusto, con capelli corti e scuri lievemente mossi e occhi piccoli e vivaci. Aveva mani grosse e tozze, le unghie sporche e la barba da fare. Guance tonde e un naso dritto e proporzionato. Stava davanti a noi col suo trofeo domandandosi come avessimo fatto a trovarlo, a vederlo. Nessuno l'aveva visto, fino a quel momento.
Anche l'uomo che non era più aveva capelli scuri e mossi. La pelle della testa aveva il colore innaturale della morte e i fili scuri delle suture risaltavano come vene varicose e marce. Mi domandai perché avesse voluto chiudere la bocca e gli occhi del suo trofeo. E perché tendere la pelle del collo così tanto per chiudere una ferita che non sanguinava più. Come se, mozzata la testa, questa potesse continuare a parlare e vedere, e se chiudendola la si fosse resa un intero capace di vivere senza il suo corpo.
Come se quella testa avesse il potere.
Noi lì, paralizzati dai nostri pensieri e dall'espressione di quell'uomo arrabbiato ma molto dolce, non sapevamo che fare...

16.2.11

Things that make me feel "mmmh"...

1) La musica, absolutely.
2) Focaccia e Nutella.
3) Scrivere quel che mi passa per la testa senza schemi da seguire.
4) Un buon libro da leggere.
5) Un film colorato o dark che sia.
6) Le fusa di Bones.
7) Cali che fa "codino codino"...
8) Pensare all'amore in modo esagerato.
9) Come ho già detto più volte: guardare il cielo.
10) Stare sopra a un albero.
11) Guardare il mare a qualsiasi ora, ma fuori dalla portata del sole.
12) Sapere che sono solo una briciola nell'universo.
13) Avere tutti nel cuore, sempre.

7.2.11

L'arrivo dello straniero

Dorotea lo sentì arrivare mentre ballava.
Qualcosa nell'aria, non solo l'odore, lo aveva preceduto. Una specie di vibrazione, diversa da quella dei bassi nelle casse della discoteca. Sapeva di sandalo, di verde e di eterno. O, almeno, di molto antico.
Lei continuò a muoversi al ritmo ossessivo della house music, voltando il capo di qua e di là per vedere chi, della sua razza, stava entrando nel suo territorio. Non che ci fossero questioni di confine, ma le loro comunità erano ben distribuite e tendevano a non spostarsi se non quando fosse una questione di sopravvivenza. Non c'erano guerre in corso, non che lei sapesse. Soprattutto, però, non aspettava visite.
Le ci volle qualche istante prima di individuarlo. Incredibile come avesse percepito la sua presenza e riconosciuto subito un uomo che non vedeva da lungo, lunghissimo tempo. Non si mosse, aspettò che lui la raggiungesse con calma camminando tra la folla accaldata come voleva il loro antico bon ton.
Lui svettava sul resto dei presenti con la sua altezza fuori dal comune. Aveva sempre un bell'aspetto anche se ora sembrava molto più magro di un tempo. I capelli lunghi e scuri scendevano lisci fino al petto, composti. Facevano un contrasto netto con la camicia bianca, resa brillante dalle luci della pista, e con il gilet rosso sangue che sembrava non indossare da molto. Erano ancora gli abiti dell'ultima volta, quando Dorotea aveva sentito tutti i sintomi che non poteva più sentire ed era scappata per non salutarlo. Lui, potente e meravigliosamente bello, aveva rinunciato a tutto. Quasi anche alla vita stessa, se ci si pensava. Ma Dorotea non pensava a lui da un bel po'.
Ora lui era in piedi davanti a lei e la guardava dal basso verso l'alto mentre lei si agitava sul cubo. Sorrideva.
Dorotea non aveva più pensato alle sue labbra. A come il morbido pizzo scuro le circondava e rendeva evidente il disegno simmetrico che formavano, ai solchi profondi che comparivano sulle sue guance ora esaltati dalla magrezza del viso; ai suoi denti piccoli e allineati di un bianco quasi innaturale. Non riuscì a trattenersi e socchiuse la bocca in un moto d'appetito che trasformò subito in un sorriso altrettanto ampio. Porse la mano destra al suo ospite e attese che la sua presa si facesse più solida prima di lasciarsi aiutare a scendere dal suo piedistallo. Non che ne avesse bisogno. Dorotea aveva gambe lunghe e solide, ben evidenti sotto alla minigonna che indossava, un equilibrio e una velocità invidiabili e nessun timore di mostrare le sue potenzialità ai frequentatori della discoteca. Li conosceva uno a uno, quelli presenti quella sera. Difficile che arrivassero forestieri in settimana. Beh, certo, tranne lui.
Saltò, senza sforzo, per cadere in piedi davanti al suo potente amico. Un po' troppo vicino, forse, ma con gli anni lei era diventata sfacciata. Lui, senza muoversi, irrigidì il corpo aspettandosi un contatto non amichevole. In fondo era lontano da tempo, non poteva sapere se la sua presenza fosse o meno gradita.
Dorotea sorrise ancora e si spinse sulle punte dei piedi per sfiorare le sue guance con un bacio ciascuna. Rapida, delicata, profumata.
Lo straniero si rilassò. Ora gli occhi non erano più tutti puntati su di loro. Come se l'atteggiamento di Dorotea avesse rassicurato tutti. Forse era così.
"Mia signora..." - disse sorridendo, rendendosi conto di quanto lei fosse più giovane di lui e di quanto fosse stupida tutta quella manfrina che continuavano a usare negli incontri ufficiali.
"Mio signore..." - rispose lei, educata e per niente sicura che ciò fosse utile a quel tempo e soprattutto in quel luogo.
"Ero diretto alla vostra residenza per parlare con Mathias - riprese lui - quando ho sentito la tua presenza. Ho pensato che sarebbe stato un gesto gradito passare prima da te."
"Mi fa molto piacere, grazie. - Dorotea abbassò lo sguardo per un istante, poi fissò di nuovo i suoi occhi chiari in quelli scuri di lui. - Mathias è a casa in questo momento, se ti fa piacere rientro con te. Mi sono stancata di ballare."
"Tu? Stanca? - Rise. - Se non fosse stato così urgente ti avrei lasciata continuare fino all'alba... o quasi."
"Ci sono problemi? - Un boccolo biondo le cadde sul viso. - Com'è andata in Tibet?"
"Ci sono problemi. Ho bisogno di tuo padre per fermare una guerra."
"Una guerra?"
"Purtroppo."
Lo straniero la prese per mano, poi andarono via così in fretta che sembrò che volassero.