28.9.20

I tre aspetti degli amori che scrivo...

 Attenzione, contiene spoiler che riguardano "Il gioco dei vampiri"

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Mi sono accorta che in due dei miei romanzi esiste uno schema particolare. Non era voluto in nessuno dei casi, l'inedito fanta-horror e "Il gioco dei vampiri" eppure in entrambi i romanzi la protagonista si ritrova in un ménage poco tradizionale che mi ha portata a riflettere sulla diversa natura sia dei personaggi che dei sentimenti che per loro nutrono le protagoniste.

Credo che in entrambi i casi le protagoniste incontrino aspetti dell'amore differenti che nei romanzi assumono l'identità di uomini diversi. Ho letto spesso storie in cui c'è una sorta di lotta tra due personaggi per conquistare la protagonista femminile, solitamente rappresentano passato/presente oppure bene/male per far propendere il lettore per quello dei due che sembra "migliore". Tutto, almeno nei romance, porta a un naturale lieto fine. Ora, visto che io non amo il classico lieto fine e nelle mie storie c'è comunque una forte componente sentimentale, in qualche modo ho sempre complicato le cose. Per prima cosa non c'è mai un personaggio completamente buono o cattivo, nonostante tutto. Almeno non i protagonisti principali della storia. 

In questi due romanzi, a differenza degli altri miei scritti finora terminati, non c'è un innamorato migliore dell'altro, non uno peggiore. Ci sono maschi tendenzialmente Alfa - per quanto io trovi assurda la definizione - ognuno con caratteristiche precise e molto diversi tra loro. In buona sostanza, però, posso distinguerli in tre diversi tipi d'amore (e ho detto di amore e non di amante per un buon motivo).

C'è l'amore viscerale o romantico in senso filosofico (Michael, nel caso de "Il gioco dei vampiri"), quello senza senso e tutto sensi che travolge e trascina via tutto ciò che trova. Sia qui che nell'inedito, questo personaggio coinvolge la protagonista e la costringe a vivere qualcosa cui non era preparata ma cui evidentemente era predestinata. Non è mai un rapporto sereno, ha un che di patologico ma serve da tramite per lo sviluppo sia della storia che del personaggio femminile. È in sostanza una guida, un maestro e un complice. Nell'inedito questo tipo di uomo ricopre il suo ruolo inconsapevolmente, essendo in pratica se stesso senza un secondo fine, cosa che invece Michael sembra avere - forse anche la consapevolezza di essere per Wendy sia dannazione che rivelazione - nell'utilizzare la donna amata per eliminare il nemico. Per quanto forte sia comunque il legame, alla fine è difficile che questo tipo di rapporto vada oltre la sua funzione.  

C'è un amore impossibile o romantico in senso più comune; quello perfetto alla Principe Azzurro per intenderci (e qui è il turno di Lucio, ne "Il gioco dei vampiri"), che avvolge e fa sognare la protagonista. La fa sentire amata e "perfetta" come nessuna. Nell'inedito la protagonista ne viene affascinata pian piano mentre per Wendy è un vero e proprio colpo di fulmine pur portando con sé i mille dubbi riguardo alla natura di Lucio e all'impossibilità di vivere un rapporto normale in una situazione tanto complessa come la loro. Stesso problema nell'inedito, in cui però la protagonista non si ferma a pensare alle conseguenze delle sue azioni, troppo presa dal suo percorso e dalla necessità di capire. Lucio è tutto ciò che Wendy vorrebbe in un mondo ideale. L'abbraccio rassicurante di qualcuno che la ama così com'è e per quello che è. 

L'ultimo è l'amore concreto, quello che c'è e che cresce con la storia. Un incontro casuale, un salvataggio, una specie di controparte maschile di ciò che è o vorrebbe essere la protagonista. Una presenza forte che non necessita della relazione in sé ma che viene coinvolto suo malgrado dagli eventi e sceglie nonostante le difficoltà e le differenze di intraprenderla. È, ne "Il gioco dei vampiri", il caso di Mirko - anche se la parola amore nel suo caso non viene mai pronunciata - che ha annusato il potenziale di Wendy ma non ha mai cercato di conquistarla, curioso di conoscerla ma non ossessionato da lei. Nell'inedito è un uomo che fatica ad accettare la protagonista e le sue stranezze ma che alla fine cede ai propri sentimenti, nonostante tutto. Certo è diverso da Mirko e non è ben definito il suo destino ma è quello che resta, dopotutto. 

Ognuno di questi tre "caratteri" ha sia aspetti positivi che negativi, può risultare interessante e piacevole pur non essendo quello destinato a rimanere. Forse ne "Il gioco dei vampiri" sono un po' più marcati, meglio delineati rispetto all'inedito - che tra l'altro ho terminato molto prima della storia di Wendy ma che non ha ancora visto la luce della pubblicazione - ma lo schema è lo stesso. 

Alla fine sono convinta che ognuno di noi incontri questi tre tipi di persone, tre amori diversi, ognuno con un suo valore e peso specifico nella propria storia personale. Per quanto forte ci appaia il legame viscerale, per quanto sia perfetto quello romantico, alla fine è quello concreto che resta. Ci vorrebbe un pizzico di ognuno dei tre per avere il compagno perfetto, immagino. Trovo interessante scoprire, comunque, somiglianze e differenze nelle storie che scrivo. È un bellissimo gioco introspettivo e non mi stanca mai. Così come lo faccio con i romanzi "seri" che leggo, amo riflettere sui miei. Un esercizio infinito...

27.9.20

Inadeguatezza

Ho smesso di ballare, anni fa, perché all'improvviso mi sono sentita inadeguata. 

Non era questione di esserlo davvero o di quel che pensavano gli altri: di colpo lo ero. O mi ci sentivo, o comunque ho pensato che tutti quelli che mi avevano detto che non ce l'avrei mai fatta - e che io ho impiegato ogni energia a contraddire - di colpo avessero ragione. Probabilmente non l'avevano, perché dall'altra parte avevo diverse persone che mi dicevano il contrario, ma non è mai quello che pensano gli altri a fare la differenza. È solo che in un attimo è cambiato tutto, dentro di me.

Le motivazioni sono molteplici. Da una parte sicuramente è un problema di insicurezza che per un periodo è sparita sotto il controllo dell'adolescente incazzata che ero, tutta tesa a dar battaglia a un mondo che vedevo nemico e ingiusto. Quella ragazza decisa è sparita di colpo dopo un'esperienza disgustosa, rendendosi conto di non avere una corazza abbastanza dura, di non avere il controllo su niente, di non avere la natura di un caterpillar. Nel turbinio di pensieri confusi del momento, l'idea di non meritare il mio stesso sogno e anzi di meritarmi una punizione per aver osato tanto ha preso il sopravvento.

C'è anche il rapporto complicato con il corpo e con l'immagine che arriva dallo specchio. Facile sognare, ma ciò che poi ci torna rivedendoci è altra cosa. Ho sempre pensato al mio corpo come a una presenza ostile, un peso inutile, una zavorra che mi impediva di "volare". Questo anche quando non avevo problemi di peso o di cellulite. Il primo amore della mia vita - decisamente platonico - è stato il pattinaggio artistico su ghiaccio. Amavo la leggerezza che traspariva da quei movimenti, i costumi sospesi nell'aria e il vento tra i capelli... So che in realtà, come ogni cosa, pattinare, saltare e volare implicano uno sforzo muscolare non indifferente ma da bambina ero estasiata dall'idea di non avere un peso, di non avere limiti fisici o qualcosa che mi tenesse al suolo. Ecco, nella mia ansia di leggerezza il corpo è sempre stato un altro nemico e come tale mi si è spesso rivoltato contro. Le mie oscillazioni costanti, l'incapacità di gestire emozioni in modo consapevole, il desiderio - perché no - di farmi male. Ricordarmi che non mi piaccio, ogni tanto, fa parte del mio modo perverso di punire la mia imperfezione. Non mi sono mai concessa un errore e tutti quelli che ho fatto - non importa se per colpa mia o di altri - o che ho considerato tali, io li ho sempre pagati per auto-tassazione.

Allora sì, ho smesso di ballare perché ho commesso un errore e di colpo mi sono ricordata di quanto non fossi meritevole, di quanto avessero ragione i miei detrattori, di quanto fossero illusi o interessati i miei "fan" e di quanto fossi stupida e sporca. Inadeguata ai miei sogni.

Poi sono cresciuta.

Qualche anno fa ho incontrato la pole dance. Immagino che se qualcuno di voi mi segue da un po' già lo sappia. Sei anni, per la precisione. Anni in cui ho ripreso a lavorare "sul" corpo. Non solo per una questione di allenamento o di sex appeal, era una cosa più profonda che andava a toccare giù giù il punto esatto da cui partono le insicurezze. Capire, osservare il proprio corpo mentre esegue figure, mentre balla, un lavoro allo specchio e con altre donne, tutte diverse per fisico, età, capacità atletiche e artistiche. Dopo un paio d'anni stavo da dio. Davvero. Lezioni, saggi, esibizioni, gare... Una cosa che alcuni non avrebbero mai pensato e pur non essendo particolarmente magra o "figa", senza problemi.

È stata una palestra importante per l'autostima e, come per la danza, una vera a propria passione. Quasi una droga. Mi è servita in un momento di decisioni difficili, in un momento di crisi personale, lavorativa e in un certo senso esistenziale. Mi è servita molto, perché ha occupato i miei pensieri e il mio corpo mentre io "andavo avanti" e crescevo una nuova versione di me. In questa versione di me ho capito che non sono una nullità, che sono in grado di fare cose che non pensavo e che nonostante tutto - il mondo continua a non essere un gran posto, le delusioni esistono, gli ideali non salvano dall'avvento della realtà, niente è separato e niente è eterno così com'è - sono contenta di me. Lo sono.

Ma ancora una volta è successo qualcosa e io sono quasi tre anni che cerco l'errore. Improvvisamente, in questo mio nuovo e più adulto percorso, mi sono sentita inadeguata. 

Ero nella sala superiore del Female Arts Studio a Modena, a prepararmi per la mia ennesima gara. Una gara di exotic a cui si partecipa con selezione e a cui l'anno prima non avevo avuto accesso. Ero lì con una bella coreografia della mia insegnante Natalya Ryzhikh che mi aveva già fatto ottenere un settimo posto tra gli amatori in un'altra gara internazionale (Exotic Moon, una garanzia), quindi non particolarmente in ansia per l'esibizione. Chi mi conosce sa che non sono animale da competizione, di solito mi accontento di fare il mio pezzo al meglio e va come va. Ero pronta col mio costume, truccata e in fase di riscaldamento. Sola - in mezzo alle altre millemila concorrenti - con le mie borse e la valigia accanto. Ho alzato gli occhi allo specchio e in quel preciso momento ecco che è tornato il mio demone. Mi sono vista e mi sono sentita fuori luogo, sbagliata, quasi ridicola. Non perché più in carne di altre, non perché più vecchia o peggio truccata o che ne so. Chi frequenta le gare di exotic lo sa che è tanto spettacolo e che c'è di tutto un po', e soprattutto lì niente sembra eccessivo. Quindi, oltre al fatto che nessuno mi ha detto o fatto nulla che potesse farmi sentire così, non avevo nessun motivo per sentirmi in quel modo. Ma mi ci sono sentita. È stato un attimo, eh. Scacciato via il pensiero ho fatto tutto quello che dovevo ma una volta tornata alla mia vita normale la sensazione è rimasta. Fuori luogo, sbagliata, quasi ridicola. Poi ho iniziato a non guardare lo specchio, poi a non riprendere più le prove, poi a non gareggiare e non esibirmi, poi a sentirmi incapace di muovere anche solo un passo nel modo giusto. Non è reale, lo so. È tutto nella mia testa, ma mi sta bloccando e il desiderio di smettere ogni cosa si fa sentire. Come allora.

Solo che stavolta la conosco, la bestia. Sì, sto cercando di capire cosa abbia scatenato di nuovo questo meccanismo. Perché nel frattempo ho preso dieci chili, ho avuto una tendinite, ho mal di schiena, il soffio al cuore e avendo sospeso per infortunio ora al palo sono una ciofeca come avessi appena iniziato. E la tentazione di mollare è costante; la rabbia, il dolore, la sensazione di aver sbagliato tutto e ancora sbagliare... Può essere iniscurezza, in fondo ora sono una cinquantenne in un mondo di ventenni, può essere depressione, può essere un milione di cose ma non voglio smettere anche questa cosa. Perché smettere di ballare mi ha uccisa già una volta e non voglio morire più. Ci ho messo una vita a capire cosa era successo allora e ci ho messo tanto per riprendermi, ho elaborato e accettato ciò che ho vissuto. Sono cambiata, mi sento diversa, non ho più la rabbia di quei giorni e nemmeno la voglia di farmi male, ma ho bisogno di capire perché non voglio perdere un'altra vita nel rimettere insieme i pezzi. 

Vorrei smettere questa inutile battaglia con la mia inadeguatezza, perché è tempo sprecato. Perché nessuno di noi è inadeguato solo che è facile sentircisi. Abbiamo modelli sotto il naso tutti i giorni cui dovremmo adeguarci per sentirci "vincenti" ma poi, anche quando abbiamo vent'anni e pesiamo 48 kg e niente potrebbe fermarci, in realtà cerchiamo una perfezione che non esiste, un corpo che non esiste, una bravura che magari non è la nostra. Possibile che non riusciamo a essere semplicemente ciò che siamo senza tutte queste idee assurde nella testa? Io non lo so, voi ci riuscite?

13.9.20

Lo so

 Un po' come fossi uscita da me stessa, ultimamente non ho aggiornato il blog, né le pagine Facebook, né altro.

Ne avevo bisogno, ne ho bisogno.

Davvero il 2020 è un anno strano, altro che il 2018 - che definivo "l'anno che non c'è" - e speriamo che porti qualche frutto. Sì, la pubblicazione de "Il gioco dei vampiri" mi ha dato un po' di soddisfazioni, nonostante sia un lavoro complesso. Non so dire quanto ancora andrà avanti (sempre con il mio modo di non farmi pubblicità), ma sono d'accordo con una mia amica- lettrice quando dice che è il romanzo più "maturo" che ho scritto - o pubblicato finora.

"Il gioco dei vampiri" è stato scritto volutamente un sopra le righe. Visto che non intendevo pubblicarlo ho pensato di evitare qualsiasi filtro alle immagini che avevo in mente. Perché poi è una cosa che dovrei fare sempre, invece di preoccuparmi di piacere a chi legge (ovvio che poi sarebbe meglio se piacesse, ché altrimenti sarebbe puro esercizio). Le reazioni sono state varie (dal "sono arrossita leggendo" al "Ferrero tu sei pazza", al "è più pornografico che erotico" fino al paragone con un altro lavoro disturbante qual è "Eyes wide shut") e di sicuro molte delle persone che lo hanno letto non ne faranno una recensione sulle piattaforme web. In realtà l'ho scritto senza pensare a cosa stavo scrivendo, ho solo seguito le idee nei tempi morti (in pausa pranzo al lavoro, per esempio) e quando avevo voglia di distrarmi. Non avevo idea di cosa stessi scrivendo, di cosa sarebbe stato il lavoro finito; l'ho capito rileggendolo per eliminare gli errori (e scrivendone una parte col tablet non vi dico cosa non ho trovato grazie al T9) e mi è piaciuto quello che ci ho trovato. Un viaggio iniziatico, quasi tantrico, in cui l'immersione graduale e non sempre "volontaria" nel proprio inconscio fatta da Wendy diventa un viaggio alla scoperta di sé e della propria natura, cui arrendersi non senza dolore o fatica.

In un certo senso, anche se non esattamente quello di cui racconta il romanzo, pure io sto facendo un viaggio simile. La mia vita è cambiata molto negli ultimi anni. Ho fatto progressi, ho fatto passi indietro, ho preso decisioni, ho fatto errori e scoperte e in qualche modo sono soddisfatta di me anche se non tutto è come immaginavo. 

Sto assolvendo al mio compito di mamma di cane terminale e ciò implica un nuovo addio e vecchi ricordi, risveglia parti di me che erano sopite e mi fa porre domande su cosa sarò dopo. No, non è il primo cane che devo salutare, non il primo animale che lascio. Cali però è diversa, lo è sempre stata, e vivere senza di lei sarà più difficile comunque. 

Sto imparando a convivere con il mio corpo che invecchia - faccio fatica, ovviamente, ad accettarlo - e con le cose che non riesco più a fare senza uno sforzo immane. Sto cercando ancora un nuovo equilibrio in cui la spinta creativa non cozzi così prepotentemente con la vita da distruggerla. Il fatto è che ogni volta cambia, che se soffoco una delle due pulsioni blocco immediatamente l'altra e mi ritrovo ferma; viva ma ferma. Tranquilla, ma non soddisfatta. E avrei voglia di scrivere, di dipingere, di ballare eppure in questo momento non ci riesco perché ho paura di "rompermi". In me tutto esplode, sempre, solo che sono stanca di raccattare i miei stessi pezzi ogni volta e rimetterli assieme per poi esplodere di nuovo. 

Una volta il mio monaco (ne ho uno pure io, come Wendy, ma terribilmente umano) mi ha detto che devo cercare di non fermare questo vento, anche se è difficile imparare a controllarlo. Ed è vero: se lo lascio andare distrugge soltanto pur di fare la sua strada, ma non sempre ho la capacità di convogliare tutta la sua forza verso una sola direzione. Sono tempesta. 

Sono quattro e non ho ancora imparato a essere uno.