25.10.15

Quello che le donne non dicono - Singolare femminile 1

Vorrei iniziare una serie di riflessioni sull'universo femminile che conosco, le relazioni e le nostre educazioni - sentimentali e non - al mondo.
Probabilmente finirò col generalizzare, probabilmente sbaglierò le mie valutazioni, probabilmente io non capisco niente di donne essendo coinvolta. Però è tanto tempo che penso alla nostra dimensione, al posto che non abbiamo raggiunto, alla condizione in cui qui e altrove nel mondo ci troviamo.

Prima o poi si sbaglia qualcosa, nelle relazioni. Con tutta la buona volontà, senza dubbio.
Certo, la prima insidia in ogni cosa che facciamo è l'aspettativa. Qualsiasi cosa pensiamo, è quasi impossibile non averne una e una precisa. Insieme a mille altri dettagli, ci aspettiamo dagli altri che ci comprendano con uno sguardo. Succede, a volte.
Raramente abbiamo un comportamento tale da permettere a chi ci interessa di capire esattamente cosa abbiamo nella testa. Il più delle volte non lo sappiamo nemmeno noi, quindi diciamo una cosa e ne facciamo un'altra. O pensiamo che una qualsivoglia strategia sia utile a conquistare un cuore.
Bene, io non credo nelle strategie. Un po' come i filtri d'amore in magia, magari funzionano per un po' ma sono risultati fasulli.
Credo invece che a fregarci sia spesso la mancanza di chiarezza. Tra amiche siamo abituate a chiederci spiegazioni approfondite, ma non siamo capaci di darne a una persona che ci interessa. Innanzitutto perché temiamo un rifiuto.
Pensate a quanto è divertente farsi ridere in faccia da un ragazzo con cui volete una relazione seria mentre gli dite cosa provate per lui davvero. A me è successo - comunque poi ci siamo frequentati per dodici anni - e sono ancora viva. Come inizio non è stato una favola, ovvio, però è stato subito chiaro che non potevo aspettarmi molto più di quanto avessi già da quella relazione.
Tutte le volte che non ho detto chiaramente cosa volevo, uno dei due ci è rimasto male.
Aspettative, dicevo.
Ognuno ha le sue. Ognuno si crea il suo film e se non si chiariscono le cose di volta in volta è difficile uscirne intatte o arricchite.
Diciamo che per quanto ne so io a noi donne capita spesso, in una relazione, di non essere chiare. Di non dire quello che sentiamo, quello che vogliamo. Per paura del rifiuto, per il timore di urtare o allontanare qualcuno, per non sembrare poco serie, poco disponibili, poco femminili. Siamo abituate a dover essere gentili, educate, "materne", comprensive. Remissive, indecise e delicate. Ci raccontiamo qualsiasi favola pur di restare nel ruolo che ci è stato affibbiato, mentiamo a noi stesse e agli altri. E una volta che si è iniziato a mentire non c'è modo di tornare indietro senza mandare tutto a "scatafascio". Cosa può pensare un altro di noi se a un certo punto ci trasformiamo in un'estranea? Una che non pensa le cose che dice, che vuole una cosa e ne chiede un'altra, che da un momento all'altro - magari dopo il matrimonio - si rivela completamente diversa dalla donna che sembrava. Non è una garanzia di funzionamento della relazione, ma noi no, continuiamo a non essere chiare.
Poi, per carità, ci sono persone a cui parli chiaramente da una vita e non capiscono che stai dicendo proprio quello, come il fidanzato che tenti di scaricare in ogni modo gentile che pensa che tu stia attuando chissà quale strategia per legarlo ancora di più, ma gli idioti si incontrano - e ce ne sono tanti in giro, convinti che tu, donna, non possa fare a meno di loro. Questa, però, è un'altra storia.
Il fatto è che poi ci troviamo tra noi a dirci "ma come ha fatto a non capire?" quando siamo state noi a dare per scontato che lui capisse tutto di noi all'istante. Ribadisco: succede, ma è rarissimo. Il più delle volte tocca spiegare chi siamo e farlo più di una volta. Pezzo per pezzo, mano a mano che la relazione va avanti. Perché si cresce, perché si capisce, perché si desidera, ma non ci si può "aspettare" che le stesse cose scattino allo stesso momento o che chi ci è vicino comprenda dal nostro modo di riporre i cibi nel frigo o dallo sbattere gli sportelli della cucina, o dalle unghie rosicchiate più del solito che siamo a dieta.

21.10.15

Piccole, costanti, belle

Le soddisfazioni arrivano, centellinate e mai esattamente come una esplosione di fuochi d'artificio, ma arrivano.
Stamattina la prima mail della mia amica ed editor Natascia Cortesi, che mi sta aiutando a rivedere il mio ormai noto "fantahorror" troppo complesso e lungo per metterci le mani da sola, che sta procedendo con la seconda lettura ed è entusiasta di come abbiamo lavorato. La parola esatta per i primi capitoli è "figata", ma le magagne - se ne trova, perché io ne vedo ovunque - vengono più avanti: tanti personaggi, tanti dettagli, trama movimentata. Diciamo che in ogni caso almeno questo oggi mi rende felice. Domani chissà...

17.10.15

Sorpresa!


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15.10.15

Di avere, essere e altre storie

Negli spizzichi di tempo che mi restavano tra una cosa e l'altra, ieri sono incappata in un articolo di Internazionale riguardo agli e-book di Amazon.
Avendo pubblicato un romanzo e due racconti in formato digitale è ovvio che la questione trattata mi tocca personalmente sia come autrice che come lettrice - visto che posseggo un Kindle e che regolarmente acquisto e-book proprio da Amazon.
La questione è duplice. Da una parte, l'autrice dell'articolo si domanda cosa succederebbe se improvvisamente Amazon fallisse - cosa che migliaia di librai auspicano, tra l'altro - visto che quello che noi "acquistiamo" ha un formato particolare (il .mobi) vincolato all'e-reader, quindi ad Amazon. Partendo dall'abitudine recente dei consumatori a servirsi dello streaming per i film e del digitale scaricato da I-Tunes nel caso della musica, si arriva al libro e al mutamento culturale in atto, che ci porta a rinunciare al supporto fisico in favore di un utilizzo più comodo e veloce ma meno "sicuro".
Quello che noi consideriamo acquisto, in realtà oggi si riduce a un noleggio a lungo termine che potrebbe terminare non appena il fornitore dovesse fallire, o cambiare le condizioni di vendita. Il digitale, programmi per pc compresi, in qualche modo non ci appartiene mai, anche se siamo convinti di averlo comprato.
Quindi il concetto di acquisto, se parliamo di beni digitali, andrebbe rivisto.
"Qualunque cosa sia conservata in un server situato da qualche parte del pianeta è effimera." Dobbiamo farci i conti. Immediatamente disponibile, comoda da fruire, ma effimera. Potrebbe sparire da un momento all'altro. Eppure questo è in qualche modo il futuro.
Alla fine dell'articolo si ipotizza addirittura la perdita di una grande quantità di contenuti: "Agli inizi del ventiduesimo secolo ci troveremo di fronte a enormi lacune di sapere e cultura, perché nessuna di queste aziende esisterà più." Il rischio è quello. Posto che Tutto il sapere e tutta la cultura siano in mano a quelle aziende. Posto che qualsiasi film e qualsiasi libro o brano musicale siano cultura. Posto che qualsiasi altro supporto sia meno effimero. Perché poi, se ben ci pensiamo, anche la carta si distrugge - come il vinile, la pellicola, la materia.
Una delle mie considerazioni subito dopo la lettura è stata appunto che non necessariamente ciò che viene prodotto dalla creatività umana è cultura o sapere. Se prendiamo la musica come esempio non potrei mai mettere sullo stesso piano Dvorak e Giusy Ferreri - senza pensare tanto a uno o all'altro, avrei potuto dire Gerswin e Biagio Antonacci o Vivaldi e Rihanna - e per quanto perdere definitivamente una traccia dei tempi quale può essere un brano musicale sarebbe comunque brutto, certo non avrei dubbi su quale dei due sia "cultura" o "sapere".
Lo stesso si può dire per quel che riguarda film e libri. Di certo con l'avvento del self publishing - di cui la stessa Amazon è "colpevole" - ci troviamo di fronte a migliaia (no, centinaia di migliaia tra una cosa e l'altra, voglio fare la snob) di titoli che di certo non sono "cultura" ma solo specchio del tempo.
Diciamo che buona parte di ciò che si produce e vende attualmente è un bene di consumo che ha lo scopo di divertirci. Credo che per preservare cultura e sapere non sia necessario semplicemente avere un supporto fisico, ma occorra trasmettere con istruzione ed educazione sia la cultura che il sapere.
Qualche anno fa scrivevo qui (con seguito qui) a proposito del cambiamento del nostro modo di "ricevere" dovuto al passaggio da oralità a scrittura e ora a immagine. Siamo di certo in un momento di passaggio tra la scrittura e l'immagine, il che ci farà perdere sicuramente parte di ciò che eravamo e che siamo stati, ma aprirà comunque nuove prospettive. La paura del cambiamento è ovvia e naturale, ma dare a un supporto più valore di quanto ne possa avere la mente umana è stupido.
Se perdiamo qualcosa, sovente è a causa della disattenzione che mettiamo nella vita e nelle cose che facciamo. Ma ne impariamo molte e molto più in fretta al giorno d'oggi, anche se non affidiamo più alla memoria la custodia di quei dati (le poesie, alle elementari e alle medie, che nostalgia...) e abbiamo un mondo di informazioni, di cultura e di sapere a disposizione quasi immediata. Il problema forse sta nel non saperle raggiungere, alcune cose che sono così vicine.
La seconda considerazione, forse meno intellettuale, è che sapendo scegliere che cosa per noi è importante possiamo evitare di riempirci di roba inutile.
Attualmente vivo in una mansarda di 67 metri quadri. Un open space privo di pareti e, appunto, mansardato. Ci arrivo da un alloggio normale di 100, pieno di pareti, in cui avevo ammucchiato l'inverosimile. Cose che mi trascinavo dietro da decenni e che mi riempivano casa togliendomi l'aria e obbligandomi a una cura che non avevo più voglia di riservare a oggetti ma che volevo rivolgere a me. Film, musica e libri, anche. Il drastico restringimento di spazio mi ha costretta a eliminare gran parte di queste "cose", non senza una certa difficoltà, e al valutare bene quanto portare dentro alla casa nuova. Sì, ho eliminato una parete intera di libri (portandomene dietro ancora parecchi) e non mi dispiace. Da allora la maggior parte dei libri che acquisto sono in formato digitale, ascolto la musica da youtube e alla radio - non ho nemmeno caricato I-Tunes sul pc e l'I-Pod sarebbe da buttare - vedo i film in tv o li noleggio. Quando vale la pena di tenere qualcosa lo acquisto in un formato differente: libri cartacei e dvd, principalmente. Il resto lo "utilizzo" e lo lascio lì, se anche sparisse probabilmente non ne sentirei la mancanza. Perché tendo a ricordare a lungo ciò che leggo o ascolto - merito della mia memoria, anche se invecchiando non ho più a mente l'elenco esatto dei film che posseggo con tanto di posizione nello scaffale uno per uno e a volte devo pure cercare i libri perché non ricordo dove li ho sistemati - e quando una cosa mi entra nel cuore difficilmente se ne va. La mancanza di spazio e la necessità di leggerezza mi hanno fatto bene, in generale.
Quello che voglio dire è: "abbiamo veramente bisogno di avere tutto quello che c'è a disposizione?"
Non è che questa necessità di accumulare sia indotta da una società che impone un certo modo di vivere? Avere e non condividere, avere e non usufruire liberamente senza accatastare oggetti e devastare foreste, inquinare con rifiuti, alimentare una catena che così non fa che disumanizzarci. Noi non siamo ciò che abbiamo, siamo ciò che abbiamo dentro ed è diverso. Siamo quello che diventiamo quando qualcosa ci arricchisce, ma non è detto che tenerlo chiuso in casa ci arricchisca di più. 

7.10.15

Scelte

Si chiacchierava qualche giorno fa con il mio contatto qui sul pianeta: Cristiana.
Se per caso rischiassi di cominciare a tirarmela, lei sarebbe lì a sfancularmi talmente tanto che proverei vergogna di me e tornerei ad abbassare la cresta, quindi ogni tanto - se non ha i nipotini o una biblioteca, o lo sbarco degli alieni a Trento - mi faccio dare una pettinata giusto per capire se sono ancora sana. Ok, la prima volta che mi ha telefonato - pure per sbaglio - mi ha detto che il mio romanzo sembra un diario: senza trama e assai confuso. Ha aggiunto che è scritto bene e che - una volta compreso che l'intento nello scriverlo era giusto quello di farlo sembrare un diario, senza colpi di scena e con un solo morto - tutto sommato non era male. Siccome non mi sono offesa, anzi, ho trovato meraviglioso conoscerla così, senza quel timore che noi scrittori abbiamo tra noi a dirci che quel che scriviamo è una ciofeca, da quel momento l'ho adottata come sistema anti-cazzata. Non quelle grosse, quelle le faccio sempre e comunque o mi manca il sale della vita; giusto quelle da scrittore. 
Dunque dicevo che qualche giorno fa chiacchieravo con lei. Di recensioni farlocche, di case editrici farlocche, di autrici farlocche e del nostro essere per un "brevissimo" suo e per buona parte della mia produzione nella stessa scuderia. Che continua a essere la mia casa editrice, anche se in mille mi dicono che per avere un editore piccolo tanto vale auto-pubblicarsi.
Non so, a me la cosa dell'auto-pubblicazione pare poco adatta alle mie corde. Non penso di poter fare editing, bozze, impaginazione, copertina e marketing scrivendo al contempo altra "roba". Non sono brava in tutto, preferisco che a occuparsi di buona parte di questi aspetti sia un professionista. Questo come base. Sul perché abbia scelto Lettere Animate posso dire che soprattutto è perché mi trattano bene: rispondono rapidamente, sono disponibili quasi 24 ore su 24, pagano, mi forniscono un report mensile delle vendite e dei miei lauti guadagni, mi mandano una newsletter settimanale con progetti e trucchi di cui non approfitto granché.
Certo, è un editore digitale con la possibilità del cartaceo su ordinazione. Non sarò mai in libreria con il mio romanzo (i miei,prossimamente), non avrò una pubblicità enorme, non fanno editing - questa è una delle cose che più mi pesa - e della casa editrice si parla male a volontà. Certo, mi piacerebbe che ci fosse una maggiore selezione, ma non è che altrove funzioni meglio. 
Ho comunque una percentuale maggiore che con qualsiasi contratto abbia mai letto, non mi chiedono di cedere i diritti per duemila anni e sono libera di presentare i miei prossimi lavori a chi voglio. Nessuna penale, nessun limite, tanta cortesia.
La concorrenza resta tanta, ormai non c'è grossa differenza tra i "prodotti" dei big e quelli delle piccole realtà. Ci sono speranze e prospettive differenti. Tanto vale provarci...

1.10.15

Mi piace

Oggi mi è capitato che una persona mi chiedesse "come gestisci le variabili impazzite di chi/cosa ti sta intorno?", ovvero come faccio a scrivere non facendo solamente la scrittrice.
Diciamo che mi piace farlo e che questa è già una motivazione sufficiente ad affrontare molti degli inconvenienti di avere un hobby - o più di uno - e gestirlo insieme a tutto il resto. Perché non è che uno abbia sempre voglia, soprattutto se scrive pensando a una possibile pubblicazione.
Scrivere non è mai stato un problema, scrivo spesso, scrivo tanto e mi piace pensare di farlo abbastanza bene da essere letta - poi c'è sempre spazio per migliorare, ovvio - ma farlo in modo "professionale" è tutt'altra cosa dal tenere anche solo in piedi un blog postando qualcosa ogni tanto. 
Da una parte c'è la fortuna che non vieni pubblicato immediatamente ogni volta che termini un lavoro. Dico la fortuna perché secondo me c'è bisogno di tempo per distaccarsi dal proprio lavoro e non rimanerci aggrappati dopo la pubblicazione, fare altro e meglio. Questa "differita" tra una fase e l'altra della vita del romanzo permette anche di rileggerlo senza averne il disgusto quando si tratterà di approvare le bozze o l'editing, di non affezionarsi troppo alle proprie parole -e per questo niente è meglio di avere parole nuove in mente - di lasciare che ogni lettore lo interpreti un po' come gli pare.
Questa distanza, poi, ti permette di lavorare a più progetti contemporaneamente - il che a mio avviso mi salva, essendo io una che si annoia facilmente - in diverse fasi. 
Mettiamo il mio caso: a fine agosto ho firmato due contratti per altrettanti romanzi da pubblicare entro sei mesi. Non solo, ma aspettavo contemporaneamente le bozze dello spin off su Vittorio da approvare e sto affrontando l'editing, insieme a una professionista, di un altro romanzo - e ho messo in pausa la scrittura dell'ennesimo perché ho i miei limiti pure io. Quindi mi sono trovata a: 1) rivedere la versione definitiva del prossimo romanzo in modo che l'editore possa impaginare, sistemare e scegliere la copertina; 2) rileggere e approvare le quindici pagine di Vittorio, 3) riaprire il file del secondo romanzo in pubblicazione e decidere dove e come apportare modifiche, 4) approvare o discutere le (fortunatamente) poche correzioni della mia amica editor e 5) scrivere un racconto horror per un'antologia promozionale del mio editore. Più la vita.
Come faccio? Non gestisco con mania di controllo e lavoro a seconda dell'urgenza richiesta. 
La sera, la notte, nei weekend, quando posso. A seconda delle scadenze cha mano a mano cambiano, io lavoro. E appena posso aggiungo materiale ai progetti nuovi, pian piano li porto avanti e li termino, e intanto torno sul lavoro vecchio, in un modo o nell'altro.
C'è da dire che tra la pubblicazione delle poesie nel 2009 e quella de "Gli attimi in cui Dio è musica"  sono passati cinque anni. In questo tempo ho terminato altri due romanzi, anche se uno per me è da riscrivere. Dal febbraio 2014, quando è uscito "Gli Attimi..." , ho terminato un terzo romanzo, più quello che sto ampliando e che pubblicheranno presto e pubblicato anche due racconti - ma ne ho scritti di più - iniziando pure un ennesimo romanzo che è a buon punto. Questo, lavorando fuori casa 5 giorni a settimana per 10 ore al giorno, avendo un marito e delle bestiole, una casa, degli amici, degli hobby.
Come faccio? Mi piace.
Non c'è altra spiegazione. Infatti sono qui, è quasi l'una di notte e sto scrivendo.