28.6.11

Qualcosa sta cambiando...

Ancora non so cosa, ma se e quando succederà sarete tutti avvisati. Il nero e il viola m'hanno stufata, per ora questo look mi piace di più, in attesa di una nuova metamorfosi come già capitato altre volte. Dopo i primi 3 sottotitoli del blog (La passione, l'amore, la danza, la vita; Oggi è un altro giorno; E se QUEL giorno fosse oggi?)... beh... non so nemmeno che giorno è oggi, se è davvero quel giorno o se è un giorno qualsiasi della mia vita. Cambiare le cose in questo blog è sempre stato come tagliare i capelli, un colpo qui e... zac! ... la mia vita cambia forma.
E sarebbe anche ora.

26.6.11

Preferisco le stelle in un cielo pieno di luna...

Magari fuori città quel tanto che basta a dimenticare che esiste. Con un fresco alito di vento, quella temperatura che fa d'autunno o a volte in primavera. Senza rumore, senza l'inquinamento luminoso, seduta o sdraiata su di una roccia circondata da alberi alti.
Mi sento sempre più lontana dalle cose umane, non che mi sian piaciute mai granché. Almeno un tempo amavo le luci artificiali, i neon nella notte. Ora mi piacciono se sono chiusa in casa al buio, ne osservo il riflesso sulle pareti e sul soffitto e il loro cambiare forma e dimensione al passaggio di ogni auto.
Non che i fuochi di San Giovanni fossero brutti. Ma mi pareva di stare in un film di Romero, quello in cui gli zombie si lasciavano distrarre dalle luci nel cielo, tutti fermi a guardare su, e non si accorgevano di cosa capitava loro intorno. Che poi gli zombie mica mi sono antipatici, son solo noiosi.
Così, passare una serata spiaccicata tra la gente sul bordo del Po a guardare per forza per aria tutto quel fumo coprire le stelle, con la musica troppo alta e non troppo ben bilanciata, al caldo e pure dovermi sorbire una lezione sulla storia della mia città, quasi avessi avuto bisogno di farmi confermare da qualcuno che è la città più bella del mondo (per me lo è e continuerà a esserlo)... Insomma... Non era proprio quello che volevo fare. L'ultima volta stava per succedermi nel 1990, con il mio fidanzato più tamarro (ho dei difetti pure io, in fondo ;P), ma non ci siamo andati, pur essendo in Via San Massimo a mangiare all'Old Transport.
Non sono da queste cose. Eppure tocca farle qualche volta nella vita.
Quindi l'altra sera mi sono ritrovata a guardare su con altri, dicono, 150mila torinesi e non. E avrei voluto andarmene quando la gente si stava accalcando dietro di noi, perché avevo caldo e mi stavo annoiando ad ascoltare sconosciuti che suonavano e un comico che non faceva ridere aspettando l'ora fatidica.
I razzi che salivano verso il cielo mi ricordavano degli spermatozoi luminosi che poi, però, esplodono (il che secondo me non è così grave, almeno non fanno il loro lavoro). Di colori diversi, ma comunque tutti uguali, i fuochi hanno occupato il tempo troppo lungo che gli è stato concesso mentre io mi domandavo quale fosse la durata giusta di uno spettacolo pirotecnico. Dieci minuti, forse? Anche meno.  E quanto fosse dannoso o terribile riceversi uno di quegli spermatozoi incandescenti nello stomaco. Quanto devastante, perché alla fine sono come armi. Perché io a queste cose ci penso forse anche più del dovuto.
Sì, siamo bravi. Sì, sappiamo fare cose belle con il fuoco. Sì, ci raduniamo a festeggiare tutti insieme. Sì, un giorno di vacanza ci voleva. Sì. Ma l'anno prossimo giuro che me ne sto a casa.

20.6.11

Non ho le parole

O forse ne ho troppe che vagano nella mia mente e non so metterle giù, non ora.
In un certo senso la mia testa non si sente libera di esprimersi e non so perché. Manca qualche pezzo, sì. E una volta ancora torno a pensare di cambiare qualcosa in questo e nel romanzo precedente, che ancora non ha editore e che non incontra il favore del pubblico maschile. Forse non così, forse se fosse più romanzato, più normale, più dinamico... Ma "Gli attimi..." è semplicemente una raccolta di immagini, di istantanee. Come può essere dinamico un album di fotografie? Sì, alla fine lo diventa. L'ultima immagine acquista musicalità, acquista tratti cinematografici. Perché così dev'essere un finale. Vivo. Presente. La parte immortale di una storia.
E questo nuovo, invece.
Questo è cupo quanto me; è scuro, disperato e violento. Rabbioso. E l'aggressività che dava spunto ai capitoli è diventata altro, suggerimento di quel che si sarebbe trovato. Non mi piace, dovrò rimettere a posto tutti gli inizi dei capitoli. E soprattutto dovrò finire di scriverlo, accidenti a me. Perché è così difficile rendere vere le cose che ho in mente? Mi ci addormento ogni sera, chiudo gli occhi e respiro con i personaggi, amo e grido insieme a loro. Ma quel dolore e quell'amore non riesco a metterlo in parole. Si srotola tra le mie viscere e mi cattura, ma sfugge alla mia tastiera. Perché vorrei che fosse perfetto, che fosse esattamente come lo vedo, come lo sento. Lo sarà, ne sono certa, ma devo trovare la forza di cacciare i pensieri dalla mente e dare loro spazio "sulla carta". Devo sbatterli fuori. Faccio fatica.
Sarà che sono stanca, che il lavoro mi innervosisce e mi mangia energie vitali, che ho voglia di perdermi là dentro e non di separarmene scrivendone la fine. Sarà che la resa dei conti è sempre dura.

18.6.11

Inaspettato

Un toc toc creò il silenzio assoluto nell'aula. Non era facile ottenere tanto silenzio con così poco sforzo, tanto che il professore di italiano, un uomo magro, occhialuto e con una folta barba castana tendente al rossiccio, rimase in silenzio anche lui. Poi, come risvegliandosi dall'attimo di stupore, pronunciò un "avanti" secco e sicuro. Degno del suo ruolo.
La donna, avvolta in una gonna scura al ginocchio e in una camicetta panna leggera come una piuma aperta un bottone di troppo per risultare elegante, entrò. Era la segretaria storica della scuola. C'era da sempre, e a ogni ora, coi suoi capelli neri sempre ordinati e gli occhiali sottili e colorati. Guardò il professore come per chiedere il permesso di iniziare, poi dichiarò ad alta voce: "Ho bisogno di parlare con Laura F. solo per un attimo." Guardando la ragazza bionda in seconda fila accanto alla finestra. Poi si voltò ancora verso l'insegnante e gli chiese : "Le spiace se gliela porto via?".
L'uomo, in piedi tra la cattedra e la fila di banchi alla sua sinistra, a poco più di mezzo metro dalla sua interlocutrice ci mise un attimo prima di dare un cenno positivo con il capo. Non c'era alcun problema, aveva finito di dettare gli appunti del giorno e gli restava solo da rispondere alle domande degli altri allievi. Laura F. non chiedeva mai delucidazioni, era tra i migliori della classe. Non ci fu bisogno di un "si" ufficiale. La segretaria fece un gesto con la mano destra come a mettere fretta alla ragazza che voleva fuori.
Laura si alzò e raggiunse la porta con la rapidità di chi è abituato a non disturbare. Uscì seguita dalla donna, che le sembrava eccitata in modo strano e chiuse la porta dell'aula appena furono entrambe in corridoio prima di avvicinarsi furtivamente a Laura con un atteggiamento confidenziale che non aveva mai con gli allievi.
"C'è un ragazzo che ti cerca." Iniziò la donna. Laura si appoggiò al muro, con uno strano groviglio nello stomaco. Poi la segretaria riprese a parlare, sottovoce, avvicinandosi ancora. "Ha già telefonato tre volte, anche se gli ho detto che non potevo dargli alcuna informazione sui nostri allievi." Le gambe di Laura stavano tremando. Non aprì bocca lasciando la parola all'altra. "Ha detto che ha già telefonato a tutti i licei della città per cercarti, che vorrebbe parlarti. Io non posso fare queste cose. Allora mi ha dato il suo numero..." Un biglietto comparve dal nulla nella mano della donna e passò in fretta a quelle di Laura, unite come a ricevere l'ostia, che però non riuscirono ad aprirlo. Il cuore le batteva nelle orecchie quasi volesse uscirne e rimbalzare per il corridoio, le ginocchia convergevano verso il centro mentre i muscoli tremavano.
Non si aspettava una cosa simile. L'espressione del suo viso era un misto di sorpresa, terrore e gioia. La segretaria le toccò un braccio e le sussurrò un "telefonagli appena esci, è la cosa più romantica che abbia sentito in vita mia." Poi tornò dietro al suo banco, sorridente.
Laura restò appoggiata al muro per qualche istante respirando forte. Poi aprì il biglietto, lesse il nome e il numero e lo ripiegò con cura. Diede una spinta con un piccolo colpo di reni e barcollò fino alla porta, poi al banco, cercando lo sguardo complice di Monica A. un paio di banchi più in là. Era colpa sua. Merito suo. Insomma, causa sua.
Qualche giorno prima Laura le aveva fatto leggere una lettera che si portava dietro da un anno circa. Una dolce lettera d'amore che dichiarava senza chiedere nulla in cambio, che spiegava e giustificava i fatti del passato di quella coppia che non c'era più. Che forse non c'era mai stata, ma che da quattro anni non era più nemmeno quella "cosa" che era stata un tempo. Quattro anni in cui la vita di Laura era cambiata, si era normalizzata. Aveva recuperato il tempo perso, ripreso gli studi interrotti quasi otto anni prima, era forse cresciuta. Ora, a quasi 24 anni, Laura stava per diplomarsi. Lo conosceva da quando ne aveva 17 e non lo vedeva appunto da quattro. Dopo un litigio assurdo. Quattro anni di silenzio, di lacrime, di pensieri, di cose che non aveva detto al momento giusto e che la tormentavano. Così le aveva scritte, faceva sempre così. Quando Monica aveva letto quelle parole aveva suggerito a Laura di spedirla.
Così lo aveva fatto, evitando di aggiungere un recapito e raccontando solo a cenni la sua nuova vita. Non voleva che sembrasse un invito. Ma lo era stato. Lui l'aveva trovata. E adesso?
Al primo trillo di campanello raggiunse Monica e le disse tutto di un fiato. Continuò a domandarsi cosa avrebbe fatto finché, uscita dalla scuola a fine giornata, incontrò una cabina del telefono. Inserì la scheda, compose il numero e... 

13.6.11

Incipit n°123.456.789...

La terra nel vicolo era bagnata come se avesse piovuto.
Sfortunatamente non era possibile che piovesse, non a Volut I. Pochi tra gli abitanti del luogo si ricordavano della pioggia e tra loro i più ricordavano solo le piogge radioattive degli ultimi tempi all'aperto. La prima città sotterranea dopo l'ultima guerra era nata da quasi cinquant'anni e coloro che a quel tempo erano adulti oramai erano deceduti, come previsto dalla legge. Nessuno che non fosse autosufficiente poteva vivere laggiù.
Killer Sam camminava al centro del vicolo scarsamente illuminato. Lei e i suoi compagni avevano prima ridotto il numero delle lampade, poi distrutto le telecamere della polizia. In quel vicolo, come in molti altri, si poteva transitare senza pericolo anche in gruppo.
Dietro di lei Fast Jimmy e Little Sue procedevano con altrettanta cautela, attenti a non calpestare le blatte che in quell'oscurità si riunivano e scorrevano come un fiume iridescente. Jimmy era riuscito a chiuderne più di una decina nel sacchetto, deciso a portarli a sua madre per aumentare le portate a cena. Il governo forniva troppo poco per sfamare e nutrire tutta la popolazione rinchiusa laggiù in attesa di un segnale dall'esterno che la vita poteva ricominciare. Intanto sfornava una regola dietro l'altra affinché il numero degli abitanti non aumentasse e i residenti non alzassero troppo la testa.
Le nuove generazioni, un unico figlio selezionato geneticamente per ogni coppia autorizzata dal Culto, avevano la tendenza a disobbedire e sempre più spesso alla polizia era toccato arrestare i giovani ribelli. Alcuni erano stati condannati ai lavori nelle nuove gallerie, altri semplicemente condannati e lasciati a morire nei livelli più vicini alla superficie.
Il destino di Sweet Lee, amico di Sam, Jimmy e Sue - oltre che membro del loro raggruppamento di ribelli - non era ancora deciso. Lee era stato arrestato pochi giorni prima, colto in flagrante mentre era appartato con una spia del Governo. Nel loro mondo, come era stato un tempo, il Culto proibiva qualsiasi rapporto tra i due sessi che non fosse amicizia o collaborazione sul lavoro. Da quando si erano rifugiati nel sottosuolo il culto aveva stretto la morsa sulla naturale tendenza dei giovani a ribellarsi a questo tipo di regole e una sorta di corte marziale trattava i trasgressori come traditori. Da qualche tempo si erano aggiunte ai giochi le spie, che si infiltravano tra i giovani e ne denunciavano ogni trasgressione oppure li portavano dritti dritti all'arresto come era successo a Sweet Lee.
Killer Sam teneva una mano sull'impugnatura del suo pugnale, al fianco destro. Non si poteva mai sapere cosa aspettasse dietro a una curva. Tra di loro, tra i vari gruppi, c'era una specie di patto. Nessuna aggressione. Ma agenti del Governo di pattutglia non avrebbero esitato a colpire un gruppetto di ragazzi prima di chiedere loro i documenti, o anche senza farlo. In fondo una delle regole era di non formare gruppi.

- 2191: Rebels -

11.6.11

Domanda stupida, lo so...

Non sono la sola a saperlo, certo, ma la bicicletta è un veicolo o almeno così viene considerata dal codice della strada. Per questo motivo, a parte le zone adibite a pista ciclabile, ogni veicolo di quel tipo dovrebbe viaggiare sulla strada insieme ad auto e moto. Ora, io mi rendo conto che a volte gli automobilisti non sono persone particolarmente attente a ciò che hanno intorno. O alle norme stradali, o simili. E posso anche capire che una persona che va in bici non si senta particolarmente sicura a viaggiare in strada con auto che potrebbero causare anche danni gravi in caso di incidente. Però...
Quale cavolo di logica fa pensare che questa sia una pista ciclabile?
Perché a me non sembra che un omino che cammina evochi tale concetto. Per non parlare di quelli che tranquilli pedalano sui marciapiedi, sotto ai portici, attraversano sulle striscie pedonali, viaggiano contromano, etc.
Sono molto contenta che a Torino abbiano creato tanti spazi per il bike sharing con il progetto TObike, che ci sia molta gente che sceglie di non usare l'auto e di muoversi in bici. Ma io che ho scelto di andare a piedi, avrò uno spazio dove camminare senza che qualcuno mi scampanelli o mi insulti perché cammino sul marciapiedi? Potrò svoltare un angolo senza paura che mi sbuchi un ciclista a tutta velocità sul marciapiedi della via che incrocio? Potrò continuare a guardare dal lato giusto prima di attraversare senza preoccuparmi che qualcuno venga in senso contrario?
Insomma, ora che abbiamo le bici, qualcuno ci potrebbe cortesemente insegnare a usarle in modo civile e corretto?
Così, per dire...
Inoltre, già che ci siamo: come mai sulla pista ciclabile/pedonale, nei punti dove ci sono i "parcheggi" per le bici ci sono tranquillamente parcheggiate le moto? Come ci sono arrivate fino lì? Passando su una pista ciclabile. E perché in altra zona, sempre sia pedonale che ciclabile, la parte pedonale è perennemente occupata da moto parcheggiate? Possibile che tra un po', in mancanza di parcheggio, si comincino a usare i marciapiedi, i portici, le aiuole anche per le auto? Che tanto, ormai...
Ma essere civili, costa così tanto?

6.6.11

La statua del Budda

Il Budda che abbiamo portato dall'India resta immobile al suo posto. Il suo legno chiaro è ancora bello e il suo sguardo confortante. Di tutti i posti dell'India che ho visto mi manca solo Bodhgaya e il suo tempio tranquillo pieno di cani randagi e di monaci. I suoi scoiattoli, gli uccelli e il caos del mercato davanti all'ingresso. I buonissimi lassi di Gautama, anche nei loro bicchieri sciacquati in fretta sotto l'acqua di un rubinetto appena fuori dal chiosco. Aspettare le foglie dell'albero del Budda, così lente a cadere, per raccoglierle e portarle agli amici... La foglia che avevo preso per mia madre è qui, accanto alla statua di legno. Con lei è andata la foglia che avevo tenuto per me, la più piccola che avevo raccolto.
Ogni tanto lo accarezzo, il Budda. Forse perché è bello. Lavorato alla perfezione. Forse perché mi ricorda quel posto, tranquillo in un paese caotico al massimo. Dove abbiamo conosciuto Saswati e Shounak, mamma e figlio, accompagnati da un taciturno marito e padre. Dove ho maledetto il fatto di non poter aiutare anima viva, dove ho visto cadaveri di cani per strada e di uomini sui tetti delle auto. Dove ho dimenticato per qualche giorno la brutta sensazione che mi accompagnava dall'inizio dell'anno. Dove ho comprato birra in un negozio con le sbarre e ho bevuto la Coca più scaduta del mondo. Ma sono ancora qui.
Mi ricorda degli occhi scuri e delle mani lunghe che lavavano il pavimento con uno straccio liso, dei ranocchietti minuscoli, orde di bambini che correvano a scuola in divisa e piogge torrenziali improvvise. E risate sotto l'acqua, piedi scalzi sul pavimento bollente del tempio, camminate lungo il perimetro e anche dall'albergo al tempio. Su e giù, avanti e indietro, e il caldo...
Mi ricorda pancakes e tè al limone bollente, cene cinesi vegetariane con a fianco le mucche che riposano in silenzio. Autobus pieni di gente vestita di arancio che festeggiavano Shiva, un viaggio fino in cima a un cucuzzolo per vedere una grotta minuscola, un altro con una seggiovia che solo a pensarci mi viene male per salire ancora in cima a un monte e trovarci un vecchio mantra, coi suoi 5 caratteri incisi nella pietra.
Mi ricorda che si sopravvive a tutto. Che la sofferenza dell'anno scorso è stata grande, ma che ora mi lascia qualcosa dentro che altrimenti non sentirei. Che sono qui e non voglio smettere di scrivere, di sognare, di usare le parole che mi vengono così facili per raccontare storie.
Non mi manca molto per essere la persona che voglio essere...

4.6.11

Fuori

Penso a quanto mi sento lontana dal mondo.
Esco nella pioggia senza ombrello e con le scarpe aperte. Ci sono 19 gradi, non è freddo e le scarpe mi si inzupperebbero comunque. Il cappello mi copre la testa e ho le mani libere. L'unica preoccupazione è evitare gli schizzi che automobilisti troppo attenti alzano dalla strada centrando ogni pozzanghera. Anzi, c'è anche la seconda preoccupazione di evitare di ricevere un ombrello in un occhio mentre qualcuno cammina pensando ai fatti suoi. Perché io sono lontana dal mondo ma il resto della gente non è proprio più presente di me.
Faccio un lavoro qualunque. Mi serve per prendere uno stipendio e vivere la mia vita come mi pare. Mi piace, ma anche no. Lo trovo inutile. Creare mi dà più soddisfazioni, ma di arte non si vive.
Non porto gioielli e manco mi piacciono. Non amo le cose di valore, non mi interessano. Preferisco le cose belle e quelle spesso sono gratis, il cielo, la pioggia, le stelle, gli alberi, le nuvole, il colore del tramonto e dell'alba, un paesaggio illuminato, i suoni del bosco, un fuoco, gli animali...
Non ho finito gli studi, nonostante non avessi difficoltà. Solo mancava la voglia e uno scopo. A che pro? Imparo costantemente già vivendo una vita normale, leggendo libri e ascoltando le storie degli altri.
Non ho una casa di proprietà e non la voglio. Ho già troppe cose che definisco mie e questo ammucchiare non fa bene. Solo ai libri e ai film non so rinunciare. Ma magari tra qualche anno lo farò. O forse no. E la musica, che ora comunque occupa poco spazio rispetto a una volta.
Ma più passa il tempo meno tutto mi sembra importante. Quello che sento dentro di me mi dà molto di più. Rischio, lo so.
Potrei chiudermi e non uscire più da me stessa tanto ci sto bene. Potrei perdermi nelle mie storie, nei miei mondi, perché il desiderio di farlo è molto pressante. Ma ci sono cose che ho ancora voglia di dire e di raccontare. Che vorrei scrivere. Che vorrei avere il tempo di rendere reali non solo per me, ma anche per altri. Non so se saranno importanti per qualcuno o meno. So solo che per me lo sono sempre state.

1.6.11

Piccoli brividi di paura... in bianco e nero

Uno:
Ero piccola e avrei dovuto essere a letto da tempo. Eravamo in collina, a casa dei nonni. Mentre loro guardavano la tv, un malinconico bianco e nero, sono uscita dal mio letto e mi sono andata a infilare sotto a un mobile per sbirciare di nascosto il programma che stavano guardando. Così ho visto "The Canterville Ghost" per la prima volta. E mi è piaciuto anche se ho faticato a non farmi sentire nei momenti peggiori...
Due:
Sempre in collina, verso i nove anni, ero riuscita a strappare alla nonna Mity il permesso di vedere un film a casa di una mia amica che stava nella villa al fondo della via. Dopo cena ci vediamo "Frankenstein" in una sera d'estate tranquilla e senza rumori. Poi torno a casa a piedi, da sola. Faccio in tempo a uscire dal cancello della mia amica che un lampo illumina il cielo e la luce in strada sparisce. Si alza il vento, è buio, volano pipistrelli e io sono l'unica in giro per quelle strade. Ho corso tanto quanto non avevo mai corso prima. Meraviglioso.
Tre:
Un anno dopo, sempre lì. Mamma a cena fuori, nonni mancati tra la primavera e l'estate in rapida successione. Sono sola a casa, intorno a me il giardino ondeggia al vento, scuro. Appollaiata sul divano giallo oro guardo "La cosa da un altro mondo" (versione degli anni '50 in bianco e nero di un film poi ripreso negli '80 con evidenti modifiche) finché il freddo non si fa sentire e scopro di avere paura di andare a chiudere la porta finestra che dà sul terrazzo e sul giardino. Mi resta in mente la scena della mano dell'alieno chiusa nella porta della stazione in Alaska e quella sensazione di claustrofobia...
Dopo:
Più avanti solo Nightmare on Elm Street (il primo uscito negli '80, meraviglioso) mi è rimasto così in mente, poi anche La Cosa (il remake), Il seme della follia e Il signore del male. Sono i miei punti di riferimento. Non ho mai amato lo splatter, pur avendo visto squali, piranhas, coccodrilli, mostri, pazzi proprietari di hotel sulla palude, pazzi travestiti da vecchietta, zombi, lupi mannari, vampiri, e tutti i simili sul pianeta. Mi son fermata ai vampiri, principalmente. Mi hanno sempre attratta più di ogni altro mostro. Non per paura, per amore della notte, del sangue, della sensualità di un morso sul collo e il potere della morte sulla vita e della vita sulla morte.
Gli altri rianimati non mi dicono molto. Mettono tristezza, più che altro. Soprattutto quando, come quelli di Romero, sono redivivi che vanno al centro commerciale o che puoi distrarre con i fuochi d'artificio... Mi ricordano troppo quelli vivi che vedo tutti i giorni...