20.12.07

Arrivo

Per quanto lungo sia stato il viaggio, alla fine il nostro aereo è atterrato a New Delhi.
Mamma mi ha raccontato molto dell'aeroporto, di cose strane che si vedono qui. Io, che finora non sono mai stata tanto lontana da casa, ho ascoltato e imparato tutto.
L'odore è lo stesso della paglia che arriva nelle casse di oggetti nel magazzino di mamma. Un misto di spezie e di dolciastro, umido e caldo. Di vita cotta dal sole. E marcia di pioggia.
I colori sono diversi, in qualche modo. Più intensi. E tanti. E la gente... quanta gente c'è!
Nell'aeroporto volano degli uccellini. Fa caldo ed i vestiti sembrano pesare di più.
Io non sono abituata al caldo, a Torino si sta sempre bene d'estate. Anche con l'afa non c'è mai questo caldo qui. Mi guardo attorno, meravigliata. Tutto è interessante, curioso, diverso.
Il nostro taxi ci porta all'hotel. L'Imperial. Un palazzo enorme e decorato. Una reggia piena di servitori col turbante. Lunghi tappeti coprono i pavimenti, tende pesanti, arredi antichi e aria di lusso un po' demodè.
Gli indiani sono gentili, hanno dei sorrisi luminosi e gli occhi tristi ma brillanti. Tutti parlano inglese, che io conosco pochissimo. Quasi niente. Ma sono portata per le lingue, imparo molto in fretta quel che mi serve. Nemmeno il compagno di mamma conosce l'inglese, ma scimmiotta le frasi di mamma e mi fa ridere, ci fa ridere.
La nostra stanza è grande, ma ha un odore tutto suo, come l'India. E' pomeriggio, presto. Ma con l'aereo non si capisce mai bene. Disfiamo i bagagli, o meglio, li disfa mamma. Poi decidiamo di andare a fare un giro.
Qui fuori ci sono centinaia di negozietti. Una via commerciale, pare. Così mamma vuole portarci a fare un giro di shopping. Qui tutto costa pochissimo. E c'è un sacco di roba.
Usciamo dal cancello dell'hotel, io tengo per mano mamma e dall'altra c'è Gianni. Mamma mi ha detto di guardare bene dove metto i piedi, perchè in terra c'è un po' di tutto. E io guardo, obbedisco. Non vorrei mai pestare qualcosa di schifoso. O qualcuno che sta male.
Comunque il sole è forte ed io devo guardare per terra per forza.
Io non so come, ma ad un certo punto compare una mummia.
Una mano bendata ed insanguinata mi tocca una spalla ed io sussulto. Non me l'aspetto. Non la mummia, non qui e non da sveglia.
Invece la mummia c'è. Solo che non è una mummia. Sotto alle bende sporche ed insanguinate, incrostate e rigide, c'è un uomo vivo. Vivo e a pezzi. Un lebbroso. Lo guardo.
Ho dieci anni, cavolo. Ho sentito parlare di lebbra, ho visto i documentari in tv. Ma questo non è quello che ho visto in tv. Questo è qui, vivo, sporco, malato e sofferente. Chiede dei soldi. Mi tocca una spalla.
La mia paura non è la malattia, non ci penso nemmeno. Non penso al fatto che quella mano ha toccato la mia maglietta, non è lo sporco, la crosta, non sono le dita che mancano. Sento dentro di me la disperazione. La sua. Mi toglie il fiato e la capacità di ragionare.
Così comincio a lamentarmi con mia mamma. Voglio tornare in albergo, subito. Lei ci prova, a farmi fare ancora due passi, pensa che mi sia spaventata. Forse è così, ma io sento un peso fortissimo e voglio andare in stanza. Non mi importa dei negozietti, delle belle cose che posso comprarmi. Devo riposare.
Infatti, la prima cosa che faccio in India è di mettermi a letto e dormire 16 ore di fila senza alzarmi per mangiare o per fare pipì. Poi potrò ragionare...

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