26.1.12

Terra chiama Paola

Stamattina camminavo verso il lavoro, cane al guinzaglio, solita strada.
Un ragazzo spagnolo, portatile alla mano, mi si avvicina chiedendomi una informazione. Sulle prime non capisco, stavo pensando ad altro e di solito se penso ad altro chiunque mi scocci, mi scoccia rischiando grosso. Sento la lingua e sorrido, visto il mio legame perverso con quel paese. Mi mostra il suo pc con il percorso di Google maps bello evidente (anche se io, ancora altrove, fatico non poco a focalizzare l'immagine) verso una sede del Politecnico di cui io non sono a conoscenza. Non solo, mi chiede chiaramente dove si trovi una via e io non so rispondergli.
Io ci vivo, qui. In zona, pure. Eppure non so rispondergli nemmeno guardando la mappa. Cioè, lo so che la via è qui intorno, ma non so dove. A dire il vero non so nemmeno dove sono io. La strada la faccio in automatico e le vie mi scorrono senza che io le conosca, giorno dopo giorno, incrocio dopo incrocio. Mentre sto per dargli una indicazione sbagliata, per sua fortuna arriva un signore di mezza età che non solo sa dov'è il posto, ma lo accompagna e ci parla in qualche modo.
E già qui mi sento aliena. La mia città, da sempre. E non so dare una misera indicazione riguardo a una via nei dintorni di casa mia.
E va bene, mi dico. Insomma, dovrei fare più attenzione.
Poi arrivo al lavoro. Posto dove, per fortificare l'idea di alienazione, non si sentono terremoti, maremoti, incendi, sommosse, ma per effetto di misteriose vie si sente odore di fumo quando non fuma nessuno, ogni volta che qualcuno con un trolley passa sotto ai portici sembra che stia demolendo il palazzo, fa un freddo polare quando ovunque si sta bene e il termometro comunque segna venti gradi (credo sia finto).
Praticamente lavoro in un episodio di Fringe.
Sola tutto il giorno, oggi, mi rifugio nella radio che tanto mi ha aiutata soprattutto quando sola lo ero sempre e mia madre stava morendo in ospedale.
Lo speaker di turno dichiara di essere entrato, a Milano, in una serie di negozi nel quadrilatero della moda (o come diavolo si chiama) non per comprare, ma per dare un'occhiata.
E mi son chiesta: ma perché questo va in un negozio di Armani (dico a caso, non per motivi miei professionali) se non vuole comprare niente? Io che già nei negozi dei cinesi non vado se non voglio comprare qualcosa, figuriamoci se entro in un negozio dove comunque non potrei permettermi nemmeno di uscire con lo scontrino vuoto...
E va beh, mi dico.
Devo tornare sul pianeta, che così non va bene. Non so dove sono e non capisco che la gente va nei negozi di roba firmata (e ho detto roba non a caso) anche solo a guardare, che magari quella roba (e due) gli piace pure e se potesse l'acquisterebbe. E io dovrei capirlo, io che faccio un lavoro diciamo "di lusso".
Invece vivo sul mio pianeta, dove uno va a lavorare staccando la testa dalla realtà e si immerge in una coreografia vista con la mente, o in una storia, o in una poesia, in un testo di canzone appena imparato, in frasi ascoltate e scambiate con altri in altri momenti. Vivo dove uno non entra in un negozio al di sopra delle sue possibilità per guardare, ma entra in un negozio se gli serve qualcosa (a meno che in vetrina non ci sia qualcosa di talmente speciale da apparire come illuminato da un occhio di bue su di un palcoscenico buio).
Che poi ci sto anche bene, sul mio pianeta. Ma rischio di dimenticarmi del qui e ora. E non va bene, visto che qui e ora ci vive tutto il resto di me.
La realtà, accidenti a lei, è fatta di cose che non comprendo più o che non conosco. No, decisamente non va bene.

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