11.2.18

In viaggio

Il viaggiatore dall'altro lato del corridoio è grasso. No, non grasso, obeso.
Appare trasandato e sporco, anche se magari non lo è. Succede sempre così, con le persone sovrappeso. L'ho notato, non tanto per la stazza, quanto perché a inizio febbraio indossa una t-shirt nera, stinta, e vicino a lui c’è solo una specie di k-way, sempre nero. Io, che mi sono appena seduta al mio posto accanto al finestrino sto ancora aspettando di abituarmi alla temperatura. Fuori, prima, era decisamente freddo.
Per un attimo mi chiedo come possa andare in giro così, e me ne vergogno immediatamente; lo so che non è la t-shirt a farmelo pensare. È tanto grosso che non ci sta tutto sul sedile. Mi sfiora l’immagine di “Seven”, un pregiudizio sporco e cattivo che non dovrei nemmeno pensare, invece sono umana e lo penso.

Poi penso a me venti chili fa. No, beh, lo so che non sono mai arrivata nemmeno lontanamente alla sua stazza, ma già mi sentivo fuori luogo così. Non posso immaginare che se ne freghi davvero. Molto probabilmente ci si è arreso. Non dico abituato, non ci si abitua mai agli sguardi della gente. Arreso. 
Sì, perché a un certo punto è normale anche quello. Lasciare le cose come stanno è meno faticoso che mettersi a cambiare. Anche se fa male guardarsi allo specchio, comprare i vestiti, fare le cose di tutti i giorni occupando spazio che non ci è concesso. Sì, mi vergogno. Anche se gli farebbe bene dimagrire, forse non per una questione estetica. Soprattutto per respirare, perché lo fa con fatica.

La ragazzina di fronte a me dorme a bocca aperta, appoggiata di lato al sedile. Sua madre, che mi sta accanto, tiene la custodia di un violino tra le gambe. So per certo che non è suo. Lo so da come la guarda. Farebbe ogni cosa per lei. Poi guardo fuori, il cielo grigio non dà buoni presagi. Non importa, l’inverno passerà. Non è questo il suo mestiere?

Sono distratta quando arrivano. Sono tre, la divisa della polizia ferroviaria addosso, si dirigono immediatamente verso il ragazzo obeso. Certo che l’hanno notato pure loro. Non fanno nemmeno finta che sia un controllo generale. Ce l’hanno con lui e con la ragazza che gli siede di fronte, ugualmente trasandata e non proprio pulita. Chiedono se viaggiano insieme, lei li guarda come offesa da una domanda simile. Nega, con tutto il corpo. Sembra quasi che non voglia nemmeno guardarlo. Lui, intanto, ansima tirando fuori il portafogli dalla tasca dietro dei jeans. Porge la carta d’identità al poliziotto con gli occhi azzurri che s’è piazzato di fianco a lui, una mano sul manganello e un anello d’argento vistoso e stretto all’anulare. Fa paura, il suo sguardo. Si esprime freddo e al contempo naturale. Parla lentamente, chiedendo come mai il documento sia ridotto in quello stato. Pare che la foto sia rovinata, come fosse stata riappiccicata o comunque manomessa. Il documento passa di mano in mano.

Il ragazzo si giustifica in un italiano bizzarro, non un dente dritto in bocca; parla di un lavaggio incidentale con il documento nei pantaloncini e io mi immagino la dimensione di quell’indumento e mi chiedo come si possano chiamare pantaloncini… Poi mi rendo conto che lo stanno guardando tutti. I tre poliziotti, la signora accanto a me, la ragazza di fronte, sicuramente anche i passeggeri che non vedo. Lo stanno guardando o lo guarderanno. Abbozzo un sorriso, se capitasse a me vorrei sparire, ma lui sembra abituato. Forse anche ai controlli della polizia.

Uno dei tre in divisa si sposta a telefonare per un controllo. Prima una carta d’identità, poi l’altra. Non sembrano convinti. L’uomo dagli occhi azzurri ha le mani gonfie e la pancia che sovrasta la cintura – o il cinturone che dir si voglia – e non sembra felice. Dovrebbe dimagrire anche lui, penso, come fossi ossessionata dalla linea. 
È che si sta male, spesso, quando non si ha la forma giusta. Che non significa che bisogna essere magri ma che ognuno dovrebbe avere la sua vera forma ed è così difficile trovarla che a volte non ci si arriva in tutta la vita. Essere se stessi anche nel corpo, essere se stessi il più possibile. Spesso è questa la vera lotta. Mi sorprendo a pensare che forse il poliziotto avrebbe più bisogno di una dieta del ragazzo obeso. È un controsenso, me ne rendo conto, se osservandoli vicini comunque il primo sembra magro. Non so, mi pare che sia così. Magari sbaglio.

Magari no.

Quello che siamo. Molte delle mie ultime riflessioni riguardano questo. Mi guardo allo specchio e piano piano vedo me stessa uscire allo scoperto. E mi chiedo dove sono stata nascosta tutti questi anni, dov’ero? Perché non mi sono lasciata vivere? C’è voluta una vita per avvicinarmi a me.

C’è voluto un incontro.
Forse è vero che bisogna amare. Amarsi, avere passioni. Lavorare a un amore con amore. È che amare sembra sempre una cosa diversa, quando lo dici. Una parola. Anche inflazionata. Troppo usata, troppo imperfetta. Come se quelle cinque lettere faticassero a contenere il significato della parola. Eppure è amore, quello che serve. Guardarsi allo specchio e perdonarsi. Per quello che si è, per ciò che non si è stati, per quello che vorremmo appiccicarci addosso. Immagini di noi che non siamo, di modelli cui ambire e mai raggiungibili. Perché non siamo noi. Guardarsi allo specchio e amarsi. Così come siamo, innanzitutto. Capire chi siamo davvero e quanto il nostro corpo ci somiglia. E se non ci somiglia provare a diventare chi siamo anche con il corpo. 
Io questo sto provandolo sulla mia pelle e funziona. Lasciarmi essere ciò che sono, senza modelli inarrivabili, solo con qualche fonte di ispirazione. Sorridermi, quando mi guardo. Perché io e l’immagine nello specchio abbiamo un segreto in comune. O più di uno, o mille, ma li abbiamo. Solo noi sappiamo chi siamo.

Passa comunque una decina di minuti, il ragazzo obeso supera i controlli e nessun altro nel vagone – italiano, straniero o solo vagamente strano – viene controllato. Nel momento in cui se ne vanno percepisco sollievo generale. Se, nel mondo assurdo in cui viviamo, il ragazzo fosse stato uno squilibrato o un delinquente chissà se sarebbe successo un casino? Se fosse stato armato, mi chiedo inevitabilmente, se avesse deciso che non gli piaceva come tutti lo guardavano? È strano, perché io non sono il tipo che si preoccupa di certe cose. Non ho paura, non ne ho quasi mai e di solito non ho paura per me. So che le cose succedono, belle o brutte, senza che io ne abbia il controllo assoluto. È che la mia mente ha l’abitudine, dovuta anche al mio lavoro manuale che mi lascia il tempo di comporre storie, di vagare per i fatti suoi, immaginando situazioni e sensazioni che non voglio controllare.


Lui, nei sui jeans un po’ scesi, la mutanda a vista mentre si infila il k-way, scende poche stazioni più in là. Non si guarda attorno andando via. Nel suo italiano sconnesso dice due parole incomprensibili al cellulare silenziato, poi se ne va.
Posso tornare a guardare fuori, a pensare alle nuvole e al sole che non compare quasi mai. Allo spettacolo che vedo, ai fasci di luce che squarciano il velo grigio qui e là, alle forme e ai colori di questo inverno. E penso. Se solo non ci fossero tutte queste case, i cavi dell’altra tensione, il rumore del treno, il brusio della gente… Il traffico, l’inquinamento, i clacson, la maleducazione, le preoccupazioni; se non ci fosse niente… Se non ci fosse l'uomo, quale spettacolo meraviglioso avrei davanti?  

2 commenti:

monicabionda ha detto...

le tue storie sono sempre bellissime. mi manca questo viaggiare guardandosi intorno e lasciando che la mente vaghi. :)

Paola ha detto...

Cerco di usare le parole al meglio. Non sempre mi riesce, ma osservo tanto e mi faccio domande, perché in certe cose la vita di uno è la vita di tutti...
Io non viaggio volentieri, in realtà. Ma se capita, di spunti ce ne sono a migliaia...