30.12.20

Rabbia e Pace

 Se c'è un titolo da dare all'anno che volge al termine è questo.

Non è iniziato benissimo, gli strascichi di una lunga crisi personale e artistica, scontenta di me - dall'aspetto all'intento espressivo, alla mia ossessione, alla mia debolezza irrisolta - e dei risultati che non ottengo mai come vorrei. Il mio mondo come prigione, il vuoto di possibilità - vuoi per situazione, vuoi per non aver mai voglia di uscire dalla maledetta comfort zone - la necessità di essere/avere qualcosa di più completo, la sensazione di non essere "piena".

E la non voglia di essere imbrigliata in progetti non miei, il non voler far parte di qualcosa che non mi "prende" completamente. La lenta ripresa dopo un lungo periodo di infortunio, la fatica e la frustrazione.

Poi, ancora, uno stop forzato a causa della prima reclusione. Che poi vera reclusione non è stata, se non affettiva, ché tutte le persone che avrei voluto vedere erano troppo lontane fisicamente seppur vicine in altri modi. La scuola di pole, le ragazze con cui mi allenavo quasi ogni giorno, le nuove amicizie di danza, il mio mondo. Sì, ero preoccupata per l'aspetto economico - già lo stipendio è quel che è, ancora in cassa integrazione e con i soldi che non arrivano, dopo il primo mese cominciavo a essere in ansia - come chiunque si sia trovato a casa da un momento all'altro; preoccupata per le conseguenze della chiusura e per l'impatto che il rientro avrebbe avuto. D'altra parte il non avere l'obbligo di andare a lavorare ogni giorno mi ha dato la possibilità di chiudere un progetto di scrittura e pubblicare quel trionfo di zozzaggine che è "Il gioco dei vampiri" - cosa di cui mi vanterò e vergognerò a morte per tutta la vita - e di riflettere su me stessa e su chi voglio essere.

La pace di marzo-aprile-maggio, l'avere tempo di respirare senza essere fagocitata da impegni, corse, obblighi e fatiche improbe, mi ha dato modo di sentire che mi stavo/stavano chiedendo troppo. Che dovevo rallentare e scegliere - cosa che poi volente o nolente ho dovuto fare a causa della suddetta cassa integrazione ritardataria - e rispettarmi un poco di più. Godermi la casa e le mie due amiche pelose, qualche chiamata via Skype - poche, comunque - o Whatsapp, musica, film e cucina. 

E sì, il rientro è stato ancor più difficile del previsto, tra il rallentamento economico e le nuove regole ossessive da rispettare. Fogli, moduli, firme, con la sensazione di esser presa per i fondelli, come se firmare un modulo mi avesse potuto preservare da qualsiasi cosa. Ho faticato a fare ogni singolo passo da metà maggio ad agosto, in attesa delle ferie - che avrei comunque passato a casa come ogni anno - con la sensazione che mi si chiedesse di correre ben più di prima ma nemmeno allo stesso prezzo. Non ne faccio una questione prettamente economica, anche se lavorare serve perlopiù a guadagnarsi da vivere e vivere non è lavorare. La questione sta nella qualità della vita e quella è peggiorata. Non poco. 

Così, dopo la pace, la consapevolezza di aver bisogno di più spazio e tempo, e aria, è arrivata la rabbia. Che forse era latente nella preoccupazione precedente, sì, ma che è cresciuta nel tempo fino a diventare evidente. Insofferenza, senso di impotenza e di essere solo un numero. Le immagini nella mia mente vagavano da Matrix a Blade Runner, a Cloud Atlas. Essere carne da macello, sacrificabile nel nome del dio denaro, senza alcuna possibilità di venirne fuori. Non migliore, almeno viva.

Fino al secondo giro di ruota, in cui ero - stavolta - tra chi poteva uscire per lavorare e poco più. Quindi niente palestra, niente allenamenti a casa di amiche, niente cene, qualche panino in piedi fuori dal bar, ancora qualche chiamata Skype, un paio di lezioni on line e il cane che peggiora poco a poco. Ecco. Il mio ultimo trimestre è stato il delirio al lavoro e a casa senza possibilità di distrazione, tanto che a sto punto non so nemmeno chi sono. E ancora mi sento presa in giro e usata e obbligata in una vita non mia, in cui la mia unica voglia è chiudere tutto, lasciare il mondo fuori e vaffanculo. Non comunicare più, non dire, non scrivere, non ballare, non dipingere. Eppure allo stesso tempo la voglia è lì, il bisogno di usare la mia voce ancora e ancora, ma sempre più vera. 

Quello che lascio qui, alla vigilia della vigilia di un nuovo anno che non promette granché, è una persona che non ce la fa più. A non essere. A non esistere. A non valere. Con lei vorrei chiudere. Cosa vorrei per il prossimo anno? 


P.

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