12.11.16

Abbracci

Giovanni si avvicina: stiamo scherzando sotto ai portici insieme a tutti gli altri.
Siamo nell'inverno del 1989, ho addosso la mia giacca viola e nera, fa freddo. A Pinerolo, poi, siamo quasi in montagna.
Giocando, Giovanni infila una mano nella tasca del mio giubbotto per prendere la mia.
Non so perché, ma reagisco malissimo. Lui non capisce, io non capisco. Il mio fidanzato dell'epoca nemmeno, ma non ha mai capito granché. Non se non gli serviva per ferirmi.
Si limita a sorridere, felice che la sua ragazza "metta a posto" un amico.

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Non ci ho fatto caso a lungo.
Però oggi so che tendo a mantenere una distanza fisica tra me e gli altri, soprattutto se non sono persone che hanno con me un rapporto "fisico" - dove per fisico intendo persone che per motivi vari hanno bisogno di un contatto più ravvicinato, per esempio le compagne di pole dance con cui siamo abituate ad aiutarci a vicenda - o affettivo. Non mi lascio abbracciare, o toccare, volentieri.

A meno che non sia un certo modo di toccare o abbracciare tipico degli ambienti sportivi. Sono cresciuta tra ballerini e di certo il contatto fisico in questo caso non l'ho mai percepito come invasivo.
Invece, per il resto, e ci faccio caso da poco, la prossimità fisica mi infastidisce.
Forse perché prima non frequentavo molta gente, chiusa nel mio bozzolo a scrivere e a infarcirmi di telefilm; forse perché ora la mia vita si sta aprendo e il contatto è necessario.
In ogni caso mi lascio avvicinare da poche persone.
E ora credo di sapere perché, ma non è il momento di pensarci.
Solo, quanto arrivano in profondità certe cose...
Per quanto si elabori, è sempre uno scoprire un tassello in più della stessa storia: la tua.

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